di Antonietta La Manna

 

I ferri del mestiere, rubrica a cura di Antonietta La Manna

 

[Con questo articolo Antonietta La Manna inaugura la sua rubrica bimestrale “I ferri del mestiere”, dedicata alla scuola e alla didattica].

 

Quando ho messo piede la prima volta in classe ero totalmente sguarnita di strumenti, portavo con me le conoscenze acquisite negli anni di studio e l’esperienza di studentessa, nemmeno tanto brillante (oggi lo reputo uno dei miei punti di forza). Pensavo allora che quello che avevo visto fare da studentessa fosse il modello da seguire: lezione frontale (minimo 45 minuti), studio a casa, interrogazione. Ma è durato tutto molto poco, per fortuna proprio la studentessa che ero stata mi ha dato una scossa: “Guardali, non accade assolutamente niente, le tue lezioni non sortiscono alcunché, si annoiano, esattamente come accadeva a te.”

Allora mi sono chiesta: quand’è che ho capito che lo studio poteva darmi qualcosa, che davvero ne valeva la pena?

 

È accaduto quando ero ormai all’Università e credo il merito sia stato di alcuni docenti e di uno in particolare, il prof. Valentino Pace, supplente di storia dell’arte Medievale presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli che ho incontrato al secondo anno di università ed è con lui che ho imparato come si fa una ricerca storica, come si consulta una bibliografia, come funziona una biblioteca, come si scrive una tesina. Qualcuno probabilmente starà pensando: ma come, non sapevi già farlo? No, nessuno si era preoccupato di insegnarmelo, come se non fosse importante o, peggio ancora, forse perché nessuno immaginava che noi studenti dell’Istituto Magistrale di Nola avremmo mai avuto l’esigenza di entrare in una biblioteca o fare una ricerca, scrivere una tesina o forse perché nessuno dei miei insegnanti credeva fosse sua responsabilità insegnarcelo. Invece lo era e lo è. È responsabilità di ogni docente, qualunque disciplina egli insegni, preoccuparsi che i suoi studenti sappiano, per esempio, come consultare il catalogo di una biblioteca, come fare una ricerca, anche come scrivere una tesina e perciò sarebbe opportuno, nei Consigli di classe, dedicare del tempo alla progettazione condivisa per acquisire determinate abilità e competenze.

 

Il professor Pace mi ha dunque insegnato che essere una studentessa passiva, quella che sta al suo posto, che ascolta la lezione e prende appunti, non deve essere la regola ed è grazie a lui che ho appreso come gli studenti devono essere parte attiva della lezione. Ho dato con lui tre annualità ed è stato lui a seguirmi per la tesi di laurea. Per il primo esame, mi ha assegnato lo studio di un affresco di Montano d’Arezzo a Napoli e una tesina da redigere poi, in basilica, davanti a tutti i miei colleghi di corso ho dovuto parlare dell’opera, descriverla, esporre la bibliografia specifica e i miei rilievi al riguardo (tenendo conto che si trattava di un’attività propedeutica al superamento dell’esame). Che il professor Pace già lavorasse “per competenze” io non lo sapevo, non potevo saperlo.

 

Prima di lui c’erano stati nel corso dell’adolescenza alcuni libri (David Copperfield, L’Agnese va a morire, Addio alle armi, Il garofano rosso) letti in tutta autonomia perché non ricordo che nessuno dei miei insegnanti di lettere abbia mai nemmeno provato ad approntare una qualche educazione alla lettura, così come non ricordo che la mia maestra delle elementari leggesse per noi ad alta voce. E naturalmente c’erano i film e i telefilm, ShiningFull metal Jacket, I 400 colpi  (quest’ultimo amato in modo particolare, chissà perchè?! …) e anche Casa Keaton, I Robinson, I Simpson. Confesso che trascorrevo molto più tempo a leggere o guardare cose che mi piacevano piuttosto che sui libri di scuola, anzi reputavo quella scolastica un’attività sterile e appunto avevo l’impressione di apprendere più leggendo i miei libri e guardando i film e i telefilm.

 

Proprio riflettendo sulla mia esperienza, da insegnante di un Istituto Professionale mi sono convinta presto di due fatti: che gli studenti dovevano mantenere un ruolo da protagonisti, essere parte attiva, e che occorreva partire dalle “storie”.

Bene, avevo fatto chiarezza e ora sapevo cosa fosse importante: ma come insegnarlo? Allora ignoravo l’esistenza di quei modelli didattici che oggi sono per me pane quotidiano. Ho cominciato a sperimentare, a fare delle prove tenendo tutto ciò che reputavo buono (per esempio la lettura ad alta voce) scartando ciò che non mi convinceva, per esempio il limitarsi a fornire una lista di libri da leggere. Ma non bastava, sentivo che oltre al riscontro pratico avevo bisogno anche di un sostegno teorico autorevole, che contribuisse a incoraggiarmi, che infine mi dicesse: “Stai facendo bene, è la strada giusta”.

 

Allora è cominciato il mio percorso di formazione, mi sono messa alla ricerca di corsi da seguire (a mie spese, non  esisteva ancora la Carta del docente, e comunque non avrei potuto usufruirne, non ero di ruolo), di libri da studiare, ho ripreso in mano la pedagogia abbandonata sui banchi di scuola.

Tutto da sola, e non è facile, anzi è faticosissimo e talvolta avvilente. Ho cominciato quindi a guardarmi attorno, a scuola, e mi dicevo: possibile che in un Collegio docenti così affollato io non trovi qualcuno che la pensa come me? La verità però era che in realtà io avevo un po’ paura ad esporre la mia idea di scuola, temevo il giudizio altrui, ero arrivata lì da poco, ero la supplente che probabilmente l’anno dopo non ci sarebbe più stata. Poi però è accaduto, e non ricordo nemmeno più come sia andata, che mi trovassi a parlare con delle colleghe: ci siamo raccontate le nostre esperienze e abbiamo scoperto che parlavamo la stessa lingua, che avevamo la stessa idea di scuola e da allora confrontarci e collaborare è diventata prassi quotidiana.

 

Non ho mai smesso di studiare, di seguire corsi, credo che nel mestiere di insegnante sia impossibile fare altrimenti, aggiornarsi è necessario poiché cambiano le società, cambiano le persone, cambia il modo di apprendere.

Mi viene il dubbio di aver dato l’impressione, raccontando il mio passato di studentessa, che io pensi che la scuola non serva. Ovvio che non è così, altrimenti oggi non sarei più un’insegnante. Chiedo solo che la scuola faccia la scuola, che fornisca cioè ai ragazzi gli strumenti di cui già io sentivo il bisogno e lo faccia con serietà, con coscienza professionale.

 

Mentre scrivo, ripenso a una delle mie primissime letture da insegnante alla ricerca dei ferri del mestiere.  La scelsi proprio per il titolo, Ultimo banco. Per una scuola che non produca scarti di Sandro Lagomarsini, parroco di Cassègo in provincia di La Spezia che ha abbracciato l’insegnamento di Don Milani. Si tratta di una raccolta di parte degli articoli pubblicati tra il 2004 e il 2008 sul quotidiano L’Avvenire, Mario Lodi nella presentazione scrive: “Gran parte di quegli interventi sono raccolti in questo volume che si può considerare un corso di aggiornamento generale per genitori, maestre, dirigenti. O meglio, un progetto di riforma della scuola”. Il libro si compone di sei parti, ognuna delle quali ha un titolo accompagnato da un sottotitolo esplicativo e il primo dice: “QUALCHE RAGIONEVOLE DUBBIO. Difficile mettere in crisi gli errori consolidati dall’abitudine. Ma quando l’insuccesso rivela l’inefficacia del metodo? È il caso allora di sottoporre le convinzioni poco fondate a sfiducia costruttiva”.

 

So che non tutti gli insegnanti conoscono la scuola che ho vissuto io, raccontando la mia esperienza di ragazzina cresciuta in un paesino della provincia di Napoli: purtroppo non ne posso raccontare un’altra, e temo che la mia esperienza sia ancora attuale e persino emblematica.

Tuttavia, volendo trarne del buono, il mio infelice percorso scolastico mi ha fatto capire che insegnante non volevo essere e quale invece volevo diventare.

 

Per cominciare, utilizzando in classe “il patrimonio lessicale ed espressivo della lingua italiana secondo le esigenze comunicative nei vari contesti: sociali, culturali, scientifici, economici, tecnologici e professionali”: questa, lo specifico per quanti non abbiano mai letto le linee guida dei nuovi Professionali, è la competenza di area generale che alla fine del percorso di studi i ragazzi devono aver acquisito. Ogni anno prima dell’inizio della scuola rileggo quelle linee guida e mi chiedo: cosa posso fare, cosa posso utilizzare per far sì che i ragazzi raggiungano questi obiettivi? Da qui progetto un percorso, la letteratura, insieme con altre discipline, diventa lo strumento per raggiungere quel traguardo (e per Letteratura intendo: romanzi per ragazzi, racconti, i grandi classici, poesia, albi illustrati, favole, fiabe).

 

Tutto è calato all’interno del laboratorio di scrittura e lettura, dove i ragazzi hanno un ruolo attivo, collaborano tra di loro, si confrontano, si scambiano pareri e producono dei loro testi.

Una volta trovata la strada è per me tutto un po’ più semplice, semplice ma non meno faticoso e, anzi, la mole di lavoro è aumentata però insieme alla soddisfazione che ricevo quando ascolto i miei studenti confrontarsi su un verso di Leopardi o quando leggo i loro testi, ai quali so che hanno lavorato con fatica.

 

Quando mi è stato chiesto se mi andasse di scrivere di scuola in questo blog, confesso che ne sono stata lusingata ma avrei voluto subito rispondere: “Grazie. Mi piacerebbe, ma non posso”, perché le antiche paure tornano qualche volta a galla. Mi sono presa qualche giorno per pensarci e poi ho detto: “Accetto, ma io posso solo scrivere di quello che faccio in classe”. Quindi terrò una rubrica bimestrale, che ho deciso di chiamare I ferri del mestiere, dove racconterò quello che succede nei miei laboratori.

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