di Salem Ghribi

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

È agli inizi del 2019 che una nuova forma di attivismo ambientale prende spazio nello scenario globale. Una composizione giovane, soprattutto studenti e studentesse, pone un nuovo modo di intendere l’ecologia e il rapporto con l’impegno politico in generale.
Da quei momenti, fondamentali, sono passati 3 anni che hanno posto il nuovo movimento climatico davanti a sfide storiche: non solo il riscaldamento globale, ma una pandemia globale e nuove sanguinose guerre.
Anche in Italia, sull’onda planetaria, nascono più di cento comitati locali di Fridays For Future, ma non solo. Rapidamente, giustizia climatica prende sfumature diverse e, in tutto il mondo, nascono nuove esperienze accomunate dal fatto di dare massima priorità a questa lotta, a partire da storie e prospettive differenti.
Da ricordare in Italia fra i nuovi gruppi nati dopo il 2019, oltre al già citato Fridays For Future, anche Ecologia Politica Network, Rise Up For Climate Justice, Extinction Rebellion e Ultima Generazione.

 

Dopo tre anni, la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina, attivisti e attiviste da tutto il Paese e da tutto il mondo si sono date appuntamento per discutere e organizzare le prospettive per il prossimo autunno. Hanno deciso di farlo in una serie di campeggi che hanno attraversato l’estate e l’Italia, basati sulla centralità di una discussione urgente sul futuro del movimento climatico. Questi campeggi sono iniziati a luglio con Carsica sulle Alpi Apuane, poi il Climate Social Camp a Torino (in contemporanea al meeting europeo di Fridays For Future), il campeggio No Muos a Niscemi, la Convocatoria Ecologista a Taranto e infine il Venice Climate Meeting a Venezia, pochi giorni fa.
Tutti questi campeggi hanno colto, con sfumature differenti, un dato maturato negli ultimi anni, cioè lo stretto rapporto tra questioni sociali, economiche, politiche e transizione ecologica.

Nel corso di Carsica, tra le tante importanti discussioni che hanno animato i tre giorni, si è riflettuto sul difficile rapporto tra chi lavora in filiere inquinanti e le rivendicazioni ambientali, concentrandosi, in particolare, sullo sventramento delle Alpi Apuane da parte delle industrie del marmo di Carrara e Massa. Il contesto specifico fa emergere le contraddizioni insite nelle grandi produzioni italiane “di qualità”, riconosciute e apprezzate in tutto il mondo.
La riflessione del movimento climatico sul tema è ampia, ma pone almeno un punto fondamentale: bisogna assolutamente rifiutare il ricatto occupazionale, che pone chi lavora di fronte all’obbligo di scegliere se morire di fame o di malattia. Per fare questo è necessario assumere anche una prospettiva di classe, che mostri che la lotta non è tra lavoratori e ambiente, ma tra lavoratori, ambiente e chi da questi estrae risorse e valore attraverso lo sfruttamento. La contraddizione tra lavoro, salute e ambiente è infatti interna ai rapporti di produzione capitalistici; obiettivo del movimento climatico deve essere dunque ribaltarli.

 

Molte delle riflessioni sono poi continuate, in misura più ampia, al Climate Social Camp di Torino. In questa occasione si sono ritrovate tutte le principali organizzazioni ecologiste, migliaia di attivisti da tutta Europa, in contemporanea al secondo meeting europeo di Fridays for Future, oltre che attivisti dai paesi MAPA (Most Affected People and Areas).
Quattro giorni a tutto tondo che hanno affrontato i temi che hanno attraversato, da sempre, il dibattito climatico: la relazione lavoro-ambiente-salute, l’intersezione tra lotta ecologista e transfemminista, il ruolo del Sud globale nella transizione ecologica – nonché questioni come energia, acqua e approvvigionamento di cibo di qualità e sostenibile.

 

Concentrandosi sul tema del lavoro, è certamente un esempio, seppur insufficiente a mostrare una tendenza generale, quello della GKN di Campi Bisenzio. I lavoratori di questa fabbrica hanno dimostrato la possibilità di una relazione concreta tra lotte sul posto di lavoro e lotte ecologiste, a partire dal grande corteo in collaborazione con Fridays for Future del 26 marzo a Firenze.
La lotta della GKN pone un obiettivo minimo possibile di convergenza e di alleanza tra lavoratori e attivisti climatici, tra lotte al punto di produzione e lotte al punto di riproduzione, e questo avviene non solo in Toscana: ne sono infatti ulteriore esempio i portuali di Genova, che hanno dimostrato, in più occasioni, che il lavoro pone delle responsabilità sociali. Il loro rifiuto di prestare braccia e forze per caricare armi sulle navi dirette nei teatri di guerra, ha posto con forza il tema della democrazia sul posto del lavoro, costringendo a chiedersi: cosa produciamo, come lo facciamo e a che scopo?

 

In questo senso anche il grande dibattito sulla transizione ecologica è stato affrontato con maggiore radicalità rispetto a qualche mese fa.
Il rapporto tra movimento operaio e la giustizia climatica è stato profondamente problematizzato, arrivando a indicare un potenziamento vicendevole dei due. Per lavoratrici e lavoratori è un’occasione duplice: da una parte una strada per una maggiore democratizzazione dei posti di lavoro, dove chi lavora ha diritto e dovere di essere coinvolto nel piano economico, sociale e ambientale del proprio luogo di lavoro; dall’altra si nota come la partecipazione del movimento ecologista permetta di uscire dal piano meramente vertenziale e salariale, ampliando le battaglie sindacali in direzione di battaglie politiche e di avanzamento per tutta la società.
Per il movimento ecologista, invece, il rapporto con lavoratrici e lavoratori non è solo desiderabile, ma necessario. Non è infatti possibile una transizione ecologica calata dall’alto; anche se lo fosse, tra l’altro, non sarebbe auspicabile dati gli enormi costi sociali. Inoltre, su questo punto, nel corso del campeggio torinese si è riflettuto ampiamente sul concetto di sciopero: sciopero produttivo, sciopero sociale, sciopero riproduttivo. I cosiddetti strikes for the future di studentesse e studenti sono inquadrabili come scioperi sociali. Questi, pur essendo riusciti con successo a porre in primo piano la questione climatica nel dibattito pubblico, hanno un limite oggettivo dovuto al fatto che se non accoppiati a scioperi produttivi e riproduttivi, risultano armi spuntate, certo importanti per muovere la coscienza pubblica e mostrare l’urgenza dell’emergenza climatica, ma insufficienti a ribaltare i rapporti di forza.

 

Di rapporti di forza si parla anche per quanto riguarda i MAPA, i quali più volte hanno espresso la loro insofferenza rispetto al taglio comunicativo del movimento climatico nord-occidentale, ritenuto poco efficace. La grossa partecipazione da parte di persone provenienti dal Sud globale ha infatti imposto una serie di riflessioni intorno alle prospettive, alle pratiche e ai punti di vista del movimento. I loro contributi hanno portato al dibattito climatico europeo i grandi temi del privilegio, della decolonialità, dell’eurocentrismo. E ancora: della cancellazione del debito, delle delocalizzazione e del costo della transizione ecologica, anche a seguito della massiccia richiesta di materie prime a essa necessarie.
La loro partecipazione ha approfondito la critica dell’idea che possa esistere una universalità delle pratiche – dibattito già avviato alle nostre latitudini e sta prendendo sempre maggiore centralità.
Le pratiche di lotta non possono essere slegate dal territorio in cui si portano avanti, dalle condizioni sociali, politiche, dell’agibilità democratica, dal grado di oppressione patriarcale e così via. Da questo presupposto è arrivata netta la posizione delle popolazioni MAPA, anche rispetto alla necessità di tessere relazioni che non siano di solidarietà ‘vuota’ o di paternalismo eurocentrico, ma che invece costruiscano la possibilità di incontrarsi su battaglie e orizzonti comuni.

 

Credo che un dato rilevante di questo evento torinese possa essere rintracciato nella radicalizzazione del movimento climatico, in particolare italiano. Se si guarda infatti alla parabola degli ultimi tre anni non si può non notare la crescente complessità del movimento.
Guardando alle questioni poste dai Fridays, è innegabile che le posizioni emerse negli ultimi mesi, a partire dal Climate Social Camp sono di netta evoluzione rispetto a quelle di qualche anno fa. La presa di coscienza rispetto al punto di vista anticapitalista, il tramonto della fase di richiesta e di supporto alla politica istituzionale, la radicalizzazione sui temi del lavoro, della transizione ecologica, della critica al modello di sviluppo globale denotano una crescita politica di questa realtà.
Su queste contraddizioni sistematiche il movimento per la giustizia climatica è riuscito a sviluppare un discorso avanzato, riuscendo – come su altri fronti – a produrre una critica radicale.

 

Un’ulteriore evoluzione delle analisi è poi partita dalla restituzione della complessità della guerra in Ucraina, che ha mescolato le carte delle priorità del governo rispetto alla transizione ecologica, riaprendo le centrali a carbone e puntando sui rigassificatori con lo scopo di utilizzare il gas liquefatto proveniente da oltreoceano. È da questo presupposto che il campeggio No Muos di Niscemi, in Sicilia, ha affrontato il tema della guerra e delle sue relazioni con la questione climatica, a partire da un luogo devastato dalla presenza del sistema Muos, un gigantesco apparato di telecomunicazioni radar di proprietà degli Stati Uniti.

Tra gli obiettivi di questo appuntamento, la necessità di creare una convergenza con i movimenti climatici per costruire un’opposizione reale e dal basso alle occupazioni militari e all’industria della guerra, responsabili di un’enorme quantità di emissioni climalteranti, nonché di disastri ambientali e sociali, come nel caso della cittadina di Niscemi.

 

Per ultimi, solo cronologicamente, hanno chiuso l’estate di lotta i campeggi di Taranto e Venezia. Co-organizzata da diverse realtà del Sud Italia, la Convocatoria Ecologista ha risposto alla necessità di costruire spazi di confronto, di socialità e di emancipazione che trovassero nella cura, nell’autonomia politica e non solo gli elementi di un lessico nuovo. Questa tre giorni ha riconosciuto gli spazi di cura e di autonomia come il terreno sul quale interconnettere ferite, violenze, desideri e bisogni, da sempre invisibilizzati in ogni margine. In quel Sud che quotidianamente viene posto sotto ricatto dal potere coloniale incarnato dalle istituzioni nord-occidentali e dalla struttura economica che tutelano.

Il Venice Climate Camp, appena concluso, ha dato continuità ai dibattiti europei iniziati al meeting di Torino, affrontando i temi della decolonialità e del lavoro, portando sotto i riflettori della Mostra del Cinema – e a portata di idranti! – la lotta climatica.

 

Fin qui, l’estate: caldissima e ricca di momenti di lotta. Ora, l’autunno: non c’è dubbio che sarà un momento fondamentale per comprendere il ruolo del movimento climatico nella società e nel futuro, a partire dal global strike di domani, 23 settembre. Solo due giorni prima delle elezioni nazionali. Per l’ennesima volta i grandi partiti durante hanno impostato la campagna elettorale riempiendosi la bocca di slogan e promesse – dimenticandosi che, al momento di decidere, hanno sempre remato contro una vera transizione ecologica, per allontanarla, spuntarla e renderla occasione di nuovi profitti per aziende ‘green’. Appare chiaro oggi, considerando l’evoluzione delle emissioni globali, che pensare di incentivare con soldi pubblici gli investimenti privati nella speranza che questi, naturalmente, portino alla risoluzione della crisi climatica è ottuso e miope – così come è miope credere che finanziarizzare l’inquinamento, con i carbon credits, possa smuovere virtuosamente il mercato. Questa ricetta, iniziata dal Protocollo di Kyoto del 1997, ha avuto più di vent’anni per essere sperimentata, ma ci troviamo con un tasso di crescita delle emissioni globali ancor più sostenuto che in passato.
Serve cambiare direzione, serve un programma climatico coraggioso e lungimirante, che venga supportato e condiviso da lavoratrici e lavoratori, tanto nel Nord quanto  nel Sud del mondo. Il movimento Fridays for Future, a questo proposito, ha scritto una ricca agenda climatica diretta ai partiti, che tocca molti dei punti che ho discusso precedentemente; purtroppo, molti di questi punti sono stati già disattesi nei programmi dei maggiori partiti, e lo saranno ancor più nelle azioni.

 

A partire da questa consapevolezza, c’è stato probabilmente un cambio di passo del movimento climatico: da movimento di opinione a collettività pronta a organizzare una controffensiva che obblighi, con nuovi rapporti di forza, chi si è arricchito con la devastazione ambientale a mollare il timone e a pagare il costo della transizione ecologica.
Un grande spinta propulsiva in questo cambio di paradigma è la reazione al voto del Parlamento Europeo (luglio 2022) che ha incluso nella tassonomia europea delle fonti verdi il gas e il nucleare. Inizialmente le istituzioni europee godevano di fiducia da parte dei giovani attivisti, ma dopo un tradimento epocale, in seguito a manifestazioni gigantesche, rimane la delusione, da una parte; ma anche una nuova forza, dall’altra. La forza della consapevolezza che un cambio di direzione può partire solo dalle proprie lotte, idee e mobilitazioni. Il movimento ha capito che esistono più versioni di transizione ecologica, ma ne esiste solo una che abbia la speranza di funzionare. Esiste da una parte la transizione regressiva dei ricchi e dei potenti, che vuole cambiare tutto per non cambiare niente. Esiste poi, dall’altra parte, una transizione democratica, socialista, che fa appello alla maggioranza delle persone, non solo per salvare questo mondo, ma anche per cambiarlo radicalmente, insieme alle condizioni di vita di chi chi lo abita.

 

Le proposte sono molteplici e molto concrete, ma basate tutte sulla necessità di redistribuire la ricchezza e di attuare una democrazia energetica, per far capire alla maggioranza del globo che la transizione ecologica non solo è necessaria, ma è un’occasione di miglioramento delle proprie vite. Trasporti gratuiti, riduzione dell’orario di lavoro, tassazione al 100% degli extraprofitti delle multinazionali energetiche, cancellazione del debito climatico. Tutti temi che si rivolgono non (solo) alla politica, ma direttamente alle persone che, come la natura, da questo sistema mortifero hanno subito solo devastazione e miseria.
In questa prospettiva, è fondamentale anche la data nazionale del 22 ottobre di Bologna, indetta dalla GKN, sull’onda del movimento #insorgiamo, in collaborazione con Fridays for Future, Assemblea No Passante e Rete Sovranità Alimentare Emilia-Romagna. Questa data avrà, come già avvenuto a Firenze, una ricchezza di temi a partire dal lavoro, continuando sulla necessità di tutelare il nostro pianeta, e verrà attraversata da moltissime soggettività: poveri, persone razzializzate, donne e persone LGBTQ+.
Convergenza può voler dire unirsi per un progetto condiviso, costruire un movimento che rappresenti soggettività differenti, non infatti ‘convergere per convergere’, ma convergere per uno scopo comune, ancora in costruzione, certo, ma di cui le fondamenta sono state poste nel lavoro collettivo dei movimenti climatici, dei movimenti per la giustizia sociale, per i diritti di chi lavora; fondamenta discusse e sedimentate  proprio nei campeggi di quest’estate.

 

Scendere in piazza in autunno è tanto più importante a causa della crisi energetica in corso, la quale rischia di essere una pentola a pressione di rabbia sociale. Sarebbe desiderabile che i movimenti riuscissero a rivolgere tale rabbia verso chi su questa crisi energetica, a fronte di una guerra, sta speculando, traendone enormi profitti, e non invece, come stanno tentando di fare taluni, contro le rivendicazioni ambientali, apparentemente condannate dell’innalzamento del prezzo del gas. Anche il tema degli extraprofitti pone il quesito di chi deve pagare la transizione ecologica: tutti sono invitati a cambiare stile di vita, ma non tutti hanno goduto e stanno godendo dei frutti del lavoro collettivo e della terra. Qualcuno si è arricchito più di altri, e oggi è il momento di chiamarlo al banco e fargli pagare il conto.
In alternativa, se non sapremo coalizzare le forze sociali e i bisogni della maggioranza verso interessi comuni e agende condivise, correremo un grave rischio: da una parte fazioni politiche che non hanno alcuna intenzione di compiere alcun passo reale verso la transizione ecologica, dall’altra chi si riempie la bocca di retorica, da anni, ma che vede un’unica transizione ecologica possibile, quella dei potenti e che rischia di incentivare un’opposizione popolare ai temi ambientali, relegando la causa ecologista a un’élite di intellettuali coscienti, ma impotenti e mal sopportati dalla maggioranza delle persone.

 

In quest’autunno che si è appena aperto, chi porta avanti le rivendicazioni climatiche deve scegliere da che parte stare, cosa essere: se un movimento di élite o un movimento popolare, non solo per salvare le proprie esistenze, ma anche per cambiarle radicalmente.
Su questa linea si deve inoltre testare la tattica del movimento: il suo impatto sul mondo deve avvenire tramite un’opera pia di convincimento dei potenti, oppure tramite la costruzione di rapporti di forza che possano costringerli ad assumersi le proprie responsabilità? Si ritiene che la transizione ecologica non stia avvenendo per ignoranza dei potenti, oppure per una strutturale divergenza di interessi, dovuta a limiti sistemici?
Il movimento sembra pronto a queste sfide, e lo fa intendere con i salti importanti che si sono rivelati negli ultimi mesi, dalla teoria alle pratiche, dai territori alle organizzazioni nazionali.
Il movimento per la giustizia climatica riuscirà a essere una forza costante e unica solo se saprà cogliere e intercettare tutte le contraddizioni sociali, e non chiudersi, come talvolta è avvenuto in passato, in rivendicazioni esclusivamente relative al non-sforamento della soglia di 1,5°, riuscendo a conciliare così finalmente ‘ecologia scientifica’ ed ‘ecologia politica’.
Se esso saprà essere compreso dalla maggioranza delle persone e verrà colto come un alleato alla soluzione della miseria quotidiana che imperversa nelle vite di molti, riuscirà fin da quest’ autunno a rimettere in discussione tutto ciò che è stato raccontato a proposito di questo sistema economico, in particolar modo alla mia generazione, Generazione Millenial, che non ha conosciuto, durante la sua vita, altro mondo possibile, che ha fin da subito conosciuto la cosiddetta ‘fine della storia’.  La tendenza pare chiara: abbiamo capito che le ricette di mercato non hanno funzionato e non funzioneranno; c’è stato tutto il tempo per sperimentarle, ma ora è il tempo di ridiscutere tutta l’idea di progresso, crescita e benessere (di pochi) che è stata egemonica negli ultimi cinquant’anni.

 

Se non lo faremo noi, non lo farà nessuno.

 

[Immagine: Climate Social Camp di Torino].

 

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