di Thomas Gray (trad. di Giovanni Parrini)

 

[E’ uscita nelle scorse settimane per Le   Lettere  l’Opera poetica di Thomas Gray, a cura di Giovanni Parrini. Riprendiamo qui la versione della celebre Elegy Written in a Country Churchyard, corredata dall’introduzione e dalle note del curatore].

 

Elegia scritta in un cimitero di campagna

 

Nota introduttiva

 

È l’opera più famosa dell’autore, tradotta molto spesso in varie lingue. L’Elegia, che avrebbe influenzato, tra gli altri, Ugo Foscolo – il quale ad essa si rifà nell’Ortis e nei Sepolcri – ha una struttura costituita da quartine di pentametri giambici, con rime alternate. La poesia fu ispirata dalla prematura morte dell’amico Richard West, avvenuta nel 1742, a soli trentasei anni. Gray cominciò a lavorarvi nell’autunno del 1745, quando risiedeva nel piccolo sob- borgo di Stoke Poges, dove abitavano la madre e le sorelle di lei, Mary e Anne, cosa che rende accreditabile l’ipotesi che il cimitero campestre del titolo fosse quello della parrocchia di St. Giles, a Stoke Poges, anche se nessuna prova vi sia al riguardo. Nell’inverno del 1749, dopo la morte della zia, Mary Antrobus, Gray ne riprese le fila, a Cambridge, per terminarla poi, una volta tornato a Stoke, agli inizi del giugno 1750. Il giorno 12 di quello stesso mese, ne inviò copia a Walpole, che la fece circolare fra i propri amici. Il 10 febbraio del 1751, Gray ricevette una lettera dagli editori del «Magazine of Magazines» – un periodico pubblicato fino al 1769 e pensato per raccogliere gli estratti di numerosi periodici e giornali che si occupavano dei più vari argomenti, dalla mitologia alle scienze, dalla religione alla filosofia e alla letteratura – i quali gli chiedevano il permesso di pubblicare l’opera. Il giorno successivo, l’autore scrisse alcune righe in cui, con quel pizzico di ironia a lui propria ma anche di elegante distacco, diceva che certi signori, nelle mani dei quali era finito quel periodico, gli avevano, sfortunatamente, scritto una lettera con la quale comunicavano che un «ingenious Poem, called Reflections in a Country Churchyard», era stato passato a loro e che l’avevano pubblicato; asserivano anche di sapere chi ne era l’autore, chiedendogli dunque non solo indulgenza ma pure di avviare con loro una corrispondenza. Ad entrambe le cose Gray si dichiarò affatto indisponibile e chiese dunque a Walpole di incaricare il libraio ed editore Robert Dodsley di procedere subito a stampare l’opera, purché anonimamente, sulla carta e nel carattere migliori. Gli disse pure che si procedesse ad eventuali correzioni e ad eliminare l’interlinea esistente fra le varie strofe, perché «the sense is in some places continued beyond them» (il senso è, qua è là, continuo, al di là della struttura in strofe discrete). Al riguardo di quest’ultima volontà, si rileva che essa fu rispettata solamente nell’edizione del 1751 (a cura di Robert Dodsley), in quella del 1782 (Bell’s Edition, Edimburgh) e in quella del 1798 (a cura di Ann Lemoine). In quanto al titolo, egli dette l’indicazione che fosse quello poi universalmente noto, Elegy written in a Country Churchyard. Walpole non perse tempo nel soddisfare le richieste di Gray e, il 16 febbraio, l’Elegia vide la luce in un pamphlet, formato in quarto, con un prezzo di copertina pari a sei penny. La pubblicazione fu corredata dalla se- guente breve nota introduttiva di Walpole: «The following Poem came into my Hands by Accident, if the general Approbation with which this little Piece has been spread, may be called by so slight a Term as Accident. It is this Approbation which makes it unnecessary for me to make any Apology but to the Author: As he cannot but feel some Satisfaction in having pleas’d so many Readers already, I flatter myself he will forgive my communicating that Pleasure to many more. – The Editor.» (La poesia seguente è giunta casualmente nelle mie mani, se il generale accoglimento con cui questo breve componimento è stato divulgato possa essere definito usando un termine così leggero. È tale accoglimento che rende non necessarie le mie scuse se non quelle dirette all’autore; siccome egli non può che provare soddisfazione nell’avere deliziato già così tanti lettori, mi conforto della sua benevolenza verso di me che sto estendendo ad altri questo piacere). La poesia fu, immediatamente, riprodotta su varie riviste, apparendo di nuovo nel già citato «Magazine of Magazines», il 28 febbraio; il 31 marzo, sia sul «London Magazine», quanto sullo «Scots Magazine» e, il 30 aprile, sul «Grand Magazine of Magazines».

 

La prima volta che l’opera apparve con la firma dell’autore, fu in occasione della pubblicazione dei Six Poems, nel 1753. Il nome “elegia” fu suggerito da William Mason, avendo egli fatto notare all’autore che quel genere di componimento poteva definirsi tale, anche se esso non ne rispettava la forma, avendo invece quella di un’ode.

Dell’opera, esistono tre copie manoscritte da Gray. Una di queste appartenne al dottor Thomas Wharton e oggi si trova presso il British Museum. Da notare che le altre due copie finirono fra libri vari, pubblicazioni musicali e via dicendo, che Gray lasciò in eredità a Mason, cui rimise poi la decisione di conservar- le o distruggerle.

 

In quanto al contenuto, si può dire che il fulcro vero dell’Elegia sia, in definitiva, l’esaltazione delle persone semplici e comuni, sul cui senso esistenziale Gray riflette, trovandosi davanti ai loro sepolcri. Nella luce particolare, delicata e recessiva, che il tramonto getta sul piccolo cimitero di campagna, il poeta si sofferma a meditare sulla natura mortale dell’uomo, suggerendo che non c’è differenza tra la vita della gente comune e quella delle persone nobili o famose. Gray immagina poi che, fra quei morti, sarebbe potuto esserci qualcuno col talento naturale da poeta o forse da politico; un talento, però, il cui sviluppo è stato spesso negato o non agevolato dal destino, ovvero dalle condizioni nelle quali quelle esistenze crebbero. Ovviamente, non è questo il motivo che determinò il pressoché immediato successo dell’opera, rendendola poi una fra le più importanti della letteratura europea, ma l’originale insieme di stilemi e di metri tipici del classicismo uniti a quelli che poi si sarebbero detti “romantici”: da un lato, la registrazione razionale di situazioni microstoriche, stagliate, per giunta, contro il fiume indifferente del tempo e della storia con la esse maiuscola; dall’altro, l’emozione come ingrediente fondamentale per vivere e la drammatica bellezza dell’individualità. Non solo, ma pure un certo dissenso nei confronti dei Lumi della Ragione e, allo stesso tempo, uno sguardo critico, potremmo dire moderno, a una realtà che si può e si deve riconoscere bella attraverso strumenti altri da quelli razionali, come la poesia.

 

 

Rintocca il coprifuoco e muore il giorno1,

sul prato, la mandria erra, lenta, e mugge,

a casa torna, stanco, il contadino

lasciando a me e alle tenebre il mondo2.

 

Sbiadisce, ora, il paesaggio luccicante

e tutta l’aria ha una quiete solenne,

a parte dove lo scarabeo ronza

e un tinnìo pigro culla spersi ovili;

 

né dove dalla torre avvinta d’edera,

alla luna, la strige si lamenta

di chi, presso il suo nido arcano, errando,

ne disturba il remoto e antico regno.

 

Sotto i forti olmi, fra l’ombra dei tassi,

dove le zolle il manto erboso rompono,

per sempre, ognuno, nel suo avello angusto

dormono i semplici avi del villaggio3.

 

La brezza, all’alba, di fragranze mistiche,

il cinguettio dalla tettoia di paglia,

o il gallo stridulo o il corno echeggiante

non li risveglierà dal giaciglio umile.

 

Non più arderà il camino e la massaia4,

a sera, non sfaccenderà, né i bimbi,

balbettanti, incontro al padre che torna,

saliranno, dai suoi ginocchi, a dividersi un agognato un bacio.

 

Spesso, alla loro falce messi caddero,

spesso, la dura terra in solchi aprirono;

come, lieti, nei campi i buoi condussero

e con possenti colpi flessero alberi!

 

L’ambizione non rida della loro umile opera,

le gioie rustiche e il destino oscuro;

e i potenti, ascoltando, non deridano

gli annali brevi e semplici dei poveri.

 

La pompa del potere, il vanto araldico

e ciò che la bellezza dà e il benessere

tutto è in attesa dell’ora fatale.

Anche ogni via gloriosa va alla tomba.

 

Né, tu, altero, credili manchevoli,

se non trofei alle tombe erge memoria,

se inni non scrosciano e note di lode

nella volta dipinta e nell’ornata navata.

 

Può un’urna adorna o un vigoroso busto

ridare ai resti l’alito fugace?

La voce dell’onore può sommuovere la polvere,

o la lusinga convincere il freddo orecchio della morte?

 

Forse, è deposto in questo luogo oblioso

un animo cui già sacro fu un fuoco;

o mano degna di brandire scettro imperiale

o svegliare la lira a una viva estasi.

 

Ma il sapere, ai loro occhi, l’ampia pagina

ricca d’epoche morte mai aprì;

la povertà represse il loro nobile

slancio, gelando l’innato talento.

 

Tante gemme purissime e lucenti

l’oceano cela in bui, immani, orridi:

nascono fiori che a nessuno splendono

e la dolcezza all’aria cieca sperperano.

 

Tale Hampden, temerario, di un villaggio,

che avversò il piccolo despota5 del posto;

qui, può giacere un muto, ignoto, Milton;

del fratricidio un Cromwell incolpevole.

 

Di spingere un senato, avvinto, al plauso,

di spregiare avvisaglie di rovina6,

di donare a una terra aprica beni7,

e negli occhi di una nazione leggere la loro storia,

 

la sorte gli impedì; e limitò

virtù crescenti e crimini, al contempo8;

vietò che a un trono col massacro giungessero,

e di chiudergli della pietà le porte;

 

di nascondere, falsi inconsapevoli, la verità,

di spengere il rossore ingenuo, in viso

o riempire di lusso e vanto scrigni,

bruciando incenso al fuoco della Musa9.

 

Lontani dalla lotta, pazza e ignobile,

non appresero mai a star lontani dalla sobrietà;

per quiete valli di un’erma esistenza,

i loro modi mantennero schivi.

 

Eppure, qualche cippo s’erge, fragile,

per sottrarre all’insulto10 anche quest’ossa,

chiede l’omaggio di un fugace anelito

con rime incolte e sculture sbozzate.

 

Nomi, anni, pronunciati da una ignorante musa11,

servono al posto d’elegia e di fama:

e lei sparge sacri testi che insegnano

cos’è la morte al grezzo moralista.

 

Per chi mai l’esistenza ansiosa, amabile,

s’arrese, preda dell’ottuso oblio,

e i sereni precinti di gai giorni

lasciò, senza voltarsi, con tristezza?

 

Spirando, l’anima s’affida a un cuore amorevole,

l’occhio cerca, chiudendosi, una lacrima;

pur dalla tomba piange la voce di Natura12,

l’uso fuoco vive anche nelle ceneri.

 

E tu13 che, qui, conscio di una morte priva

di lustro, in versi, qui, la loro storia,

rozza, se, a contemplare, uno a te simile,

della tua sorte chiederà, semmai,

 

un villico canuto potrà dirgli:

“lo vedevamo, all’alba, andava in fretta,

spazzando gocce di guazza coi piedi,

per incontrare il sole, sopra il prato montano.

 

Là, sotto il faggio frondoso che ondeggia,

e attorce, in alto, annose, fantastiche

radici, si stendeva, svogliato, a mezzogiorno

e fissava il ruscello gorgogliante.

 

Nel forte bosco, ora, ridendo a scherno14,

borbottando ribelli fantasie

vagava; ora, incurvato, come un misero

folle d’ansia o trafitto da amore disperato.

 

Non lo trovai, un mattino, al colle solito,

nella brughiera e vicino al suo albero amato;

sorse un altro mattino, lui non c’era

al torrente, nel bosco, né sul prato;

 

Il terzo giorno, al pianto di un corteo funebre

vedemmo che alla chiesa lo portavano.

Avvicinati e leggi (poiché puoi15) le rime

sulla pietra, là, sotto i vecchi rovi”16.

 

 

L’epitaffio

 

Qui, il capo suo riposa, sul grembo della terra

giovinezza ignorata da fama e da fortuna.

la conoscenza fulgida non ignorò la nascita17

sua umile e, per sé, malinconia lo volle.

 

Prodigo assai fu, lui, e sincera ebbe l’anima,

ne fu ricompensato, come il Cielo fa spesso:

all’inopia una lacrima donò (solo essa aveva),

dal cielo, ebbe un amico (ciò che desiderava).

 

Più oltre non cercate di scoprire i suoi meriti,

da questa dimora orrida ritrarne debolezze,

(come in una speranza vacillante, là, giacciono)18

 l’amore 19 di suo padre e quello del suo Dio.

 

*

 

Note al testo

 

1 Gray, riprendendo i famosi vv. 5 e 6 del Canto VIII del Purgatorio («punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more») fa riferimento a ciò che fu deciso, nel 1068, da Guglielmo il Conquistatore – famoso per essere stato il vincitore della battaglia di Hastings – il quale introdusse, primo nella storia, l’obbligo di mettere fuori dalle case i fuochi accesi durante il giorno, quando la campana rintoccava le otto della sera e ciò onde evitare incendi notturni. L’originale inglese dell’Elegia inizia con il lemma curfew, che, etimologicamente, risulta composto dai vocaboli francesi couevre e feu, appunto “copri” e “fuoco”. Oltre alla motivazione di cui sopra, ce n’era una seconda, non meno importante, ovvero quella del controllo, da parte delle autorità, sui cittadini, al fine di fermare coloro che si fossero trovati in strada oltre le otto; proprio questo è il motivo per cui, ancora oggi, si parla di coprifuoco. Da notare che il vocabolo curfew appare con una certa frequenza in Shakespeare (Romeo and Juliet, Act IV, Scene IV; The Tempest, Act V, Scene I; King Lear, Act III, Scene IV), nelle opere Il Penseroso e Comus di John Milton, in Geofrey Chaucer (The Miller’s Prologue), in una di Francis Thompson (The Hound of Heaven).

 

2 Un verso di particolare intensità, tipico della visione romantica e ricco di grande originalità poietica, perché il mondo, a una certa ora del crepuscolo è lasciato alle tenebre e all’animo del poeta; all’ovvietà del fe- nomeno fisico, si accoppia la particolarità dell’evento psichico, in quanto il reale cade, da un certo momento del giorno in poi, nel tempo e nello spazio psichico di chi, da poeta, lo rielabora e lo restituisce, dunque, differente, al lettore (*).

 

3 Qui, come altrove, il poeta vuole sottolineare il contrasto esistente tra i poveri, gli umili, sepolti in modo essenziale, senza pompa alcuna, e i ricchi, i cui monumenti funerari ne rappresentano la classe sociale (*).

 

4 In questa strofa, Gray potrebbe essersi ispirato al De rerum natura, vv. 894-896: «Iam iam non domus accipiet te laeta, neque uxor / optima, nec dulces occurrent oscula nati / praeripere, et tacita pectus dulcedine tangent» (Non ti accoglierà più la casa lieta e la buona moglie / non ti ver- ranno incontro i dolci figli a rubarti / i baci, a commuoverti il cuore con silenziosa dolcezza).

 

5 L’autore accenna a John Hampden, uomo politico inglese (Londra 1594 – Chalgrove 1643), cugino di Oliver Cromwell e tenace oppositore di Carlo I. Nel 1636, si rifiutò di pagare l’imposta navale nota come Ship- money, pari a venti sterline, ritenuta illegale dall’opposizione perché isti- tuita in deroga alla costituzione. Arrestato nel 1637, fu subito processato e condannato, divenendo il simbolo dell’opposizione a Carlo I. L’episodio fu una fra le cause della guerra civile britannica, che ebbe inizio nel 1642. Il verso riporta «village-Hampden» per sottolineare che il rivoluzionario risiedette in una piccola località, non certo famosa; come a dire che in luoghi ignoti possono trovarsi sepolti uomini di grandi qualità morali ma altresì sconosciuti e quindi eventualmente non celebrati da nessun poeta, da nessun libro di storia (*).

 

6, 7 Il poeta intende il comportamento tipicamente derivante da inca- richi pubblici, più o meno importanti, e poi quello relativo a certe possibi- lità conferite dal benessere. Va notato che Gray accenna, porgendone, in filigrana, un giudizio negativo, al tipico comportamento di chi, investito di autorità pubblica, tende, in mala fede, a sottovalutare le avvisaglie di una rovina prossima, di un grave problema per la collettività, in nome di un ottimismo che sconfina assai spesso nell’ipocrisia politica (*).

 

8 Nel suo Commoplace Book, Gray commenta un passo della Repub- blica di Platone in questo modo: «every extraordinary Wickedness, every action superlatively unjust is the Product of a vigorous Spirit ill-nurtured; weak Minds are alike incapable of anything greatly good, or greatly ill» (ogni debolezza straordinaria, ogni azione superlativamente ingiusta è il prodotto di uno spirito cresciuto male; menti deboli sono incapaci di un grande bene come di un grande male).

 

9 La Musa è, evidentemente, la poesia, per metonimia. L’autore parla di chi compone versi per compiacere qualche potente o, in generale, dei poeti cosiddetti di regime, al soldo del tiranno di turno (*).

 

10 Dalla ventesima alla ventiduesima strofa, l’accento è posto su uno dei temi cruciali dell’uomo di ogni tempo, ovvero la grande tristezza, ta- lora l’angoscia, al pensiero dell’oblio dopo la morte, per cui tutti, indistin- tamente, vorrebbero essere ricordati e sfuggire a quel niente spaventoso che vanifica ogni ricerca teleologica, soprattutto in coloro che non hanno il conforto di alcuna fede, né la possibilità di affermarsi, di lasciare una traccia indelebile con opere di un certo rilievo. All’epoca di Gray, stava mettendo radici un materialismo cui si associa l’inevitabile perdita di sen- so esistenziale (*).

 

11 Con questo verso, Gray alludeva probabilmente agli errori di cui talora erano affetti i caratteri scolpiti sulle lastre tombali, essendo molti scalpellini ignoranti e quindi facili ad errori di lettura delle iscrizioni fune- rarie che i parenti dei defunti consegnavano loro.

 

12 Il concetto potrebbe essere stato ispirato dal Sonetto 203, del Pe- trarca, «Ch’i veggio nel pensier, dolce mio fuoco / fredda una lingua, e due begli occhi chiusi / rimaner doppo noi pien di faville»; dalle opere di Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis, «Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte» (lettera del 25 maggio) e Dei sepolcri, «né passeggier solingo oda il sospiro / che dal tumulo a noi manda Natura» (vv. 49-50).

 

13 Ci sono varie posizioni critiche rispetto al pronome personale “te”, anche se è lecito pensare che l’autore si riferisca a sé stesso, pur sospettan- do che egli potrebbe avere alluso a un poeta minore di sua conoscenza, non particolarmente colto, quindi un uomo semplice ma dalla notevole cifra creativa.

 

14 I versi della terzultima e penultima strofa costituiscono l’iscrizione sul monumento funerario eretto a Thomas Gray, in Stoke Park, esatta- mente dirimpetto alla chiesa (*).

 

15 L’espressione in parentesi restituisce l’originale, anch’esso paren- tetico, «(for thou can’st read)», un sintagma dibattuto dai critici, alcuni dei quali (Phelps, Bradshaw, Rolfe) ritengono che, con esso, il poeta abbia voluto essenzialmente sottolineare la condizione di scarsissima alfabetiz- zazione dell’epoca, contrapponendovi la capacità di lettura della quale dispone l’immaginario personaggio che compare nel testo.

 

16 Qui, si introduce l’appendice alla poesia, cioè L’epitaffio, che rap- presenta ciò che il poeta pensa sia inciso sulla sua stele funeraria. È un esempio metaletterario che in Gray si incontra anche altrove. Prima di The Epitaph, l’autore aveva inserito una strofa molto bella (leggibile nel manoscritto presente all’Eton College), che fu stampata in qualcuna delle prime edizioni ma, successivamente, omessa per volontà dello stesso Gray, poiché egli riteneva che costituisse una parentesi ecces- sivamente lunga. Tuttavia, i versi sono in sé stessi raffinatissimi e ne ripor- to, qui di seguito, la mia traduzione e la versione inglese: «There scatter’d oft, the earliest of the Year, / By Hands unseen, are show’rs of Violets found; / Oft as the Woodlark piped her farewell Song / With whistful Eyes pursue the setting Sun» (Sovente, là disperse, quantità di violette / si trovano, primissime dell’anno / distribuite da mani invisibili; / con occhi malinconici, esse seguono / il tramonto del sole, mentre intona, / l’allodola, il suo canto d’addio).

 

17 Gli ultimi due versi della prima strofa de L’epitaffio fissano, in modo definitivo e romanticamente oscuro, il collegamento tra uno sta- to d’animo melanconico e la conoscenza o, meglio, la volontà di sapere. Quel che asserisce Gray è il legame (diciamo vago e altresì ineludibile e quindi, infine, vero) tra scienza, cioè conoscenza e provvido ripiegamen- to, come solo un poeta può sperimentare. Sapienza, malinconia, umiltà costituiscono, per ogni poeta, elementi tripolarmente equilibrati in un sentire che il movimento romantico ha avuto il merito di fare emergere ma che esisteva, ed esisterà, sotto altre e più diverse forme, in ogni epoca (*).

 

18 L’originale recita: «There they alike in trembling hope repose», che può ricordare un concetto espresso dal Petrarca, «[…] paventosa spe- me» (Rime, sonetto 114).

 

19 Il lemma “amore” sta, qui, per quello inglese “bosom” la cui traduzione letterale è “petto”, “seno”; in tal caso, con metonimia, è stato espresso il contenuto intimo, emotivo, per il contenitore, anche per motivi di ordine metrico.

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