di Paolo Costa

 

1. Metto momentaneamente tra parentesi la questione se non si tratti alla fine solo di un fenomeno di marketing o di una superficiale moda culturale e mi limito a constatare il grande interesse che da alcuni anni suscita quella somma imperfetta di elementi paesaggistici, storici ed etnografici che il lessico in Italia ci consente di chiamare sensatamente «Montagna». La messa tra parentesi mi risulta facile perché io stesso appartengo al nutrito gruppo di persone che ritiene la Montagna un oggetto interessante da molti punti di vista, compresi quelli filosofico e letterario.

 

 

Per scoprire subito le carte, premetto che la Montagna mi pare un tema di discussione appassionante prima di tutto perché rappresenta un gigantesco rompicapo. Essendo un oggetto iperbolico, che si fatica a mettere a fuoco, a supervisionare o fissare in un’istantanea fotografica, la Montagna è un fenomeno per eccellenza polisemico. Non penso serva dilungarsi su questo aspetto della questione. Con quante montagne dobbiamo fare i conti ai nostri giorni? Anche un elenco non sistematico deve come minimo fare spazio, per cominciare, alla Montagna come luogo risonante che, dalla fine del Settecento, anima le ricerche spirituali dei nuovi pellegrini che la secolarizzazione moderna ha messo in marcia. C’è poi la Montagna prestazionale degli alpinisti o, più in generale, degli sport estremi. C’è la Montagna come risorsa ambientale da sfruttare: turisticamente, idrologicamente, minerariamente. E c’è, last but not least, la Montagna come forma di vita, come culla cioè di un certo modo di stare al mondo che, pur essendo in via di estinzione da almeno cinquant’anni un po’ ovunque sul nostro pianeta, ha lasciato dietro di sé tracce talmente nitide che ne fanno a buon diritto un convitato di pietra nel dibattito globale suscitato dalle emergenze ambientali che incombono sull’umanità.

 

Basta questo per poter dire con cognizione di causa che esistono oggi le condizioni ideali per un istruttivo clash of interpretations, uno scontro sul significato più autentico dell’esperienza contemporanea degli ambienti alpini e sulla sua reale portata esistenziale, sociale, politica. Ma chi ha i titoli per partecipare a pieno titolo alla contesa?

 

2. In Montagna madre,[1] un volume di quasi quattrocento pagine pubblicato da Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Antonio G. Bortoluzzi ha raccolto i tre libri con cui ha cominciato la sua tardiva, ma fertile carriera di scrittore: la raccolta di racconti brevi Cronaca dalla valle (2010), il romanzo (quasi) autobiografico Vita e morte della montagna (2013) e Paesi alti, l’opera con cui è stato finalista nel 2015 al Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo. Sono tutte storie ambientate nel territorio montano in cui Bortoluzzi è nato e vive, l’Alpago, e da cui parte ogni mattina per andare a lavorare in fabbrica in un luogo simbolico delle Alpi italiane: Longarone.

Bortoluzzi ha dunque tutti i titoli per partecipare al conflitto di interpretazioni a cui ho fatto cenno sopra. Qual è, a conti fatti, la Montagna che emerge dai suoi scritti?

 

Parto dalla constatazione più banale: la terra che fa da sfondo alle vicende raccontate da Bortoluzzi non è mai materia per descrizioni oleografiche. È, piuttosto, un contesto d’azione che suscita nel lettore sentimenti difficili da decifrare. La sua Montagna madre, in sintesi, è il teatro di una forma di vita narrativamente interessante che mette in scena una sfida insidiosa tra l’Uomo e la Natura. Certo, si tratta pur sempre di una variante riconoscibile dell’universo contadino che il nostro Paese si è lasciato alle spalle solo da qualche decennio e che la letteratura italiana ha cercato periodicamente di raccontare tenendosi in bilico tra orrore e incanto.

 

Se si prende un romanzo per molti aspetti esemplare come Zebio Còtal di Guido Cavani, si possono notare in questo stilema narrativo alcuni elementi caratteristici.[2] I personaggi, per cominciare, non hanno una vita interiore separabile dai loro comportamenti, che prendono forma in un «elemento misterioso dentro cui l’uomo agisce per ragioni indipendenti dalla sua volontà».[3] Questo rende le loro esistenze monodimensionali senza però appiattirle, perché la significatività del loro operare è demandata a un destino che incombe da ogni lato e su ogni momento della loro storia caricando azioni e pensieri di uno spessore simbolico che non meriterebbero se misurati secondo standard moderni e borghesi. Questo spiega l’atmosfera da tragedia greca da cui è soffuso il racconto di Cavani. In un contesto talmente oppressivo da togliere il fiato, la saggezza arcaica incapsulata nella risposta di Sileno al quesito incauto di Re Mida – «La cosa di gran lunga più desiderabile per l’uomo è non essere mai nato»[4] – non ha nemmeno bisogno di essere esplicitata perché è inscritta dalla Natura nella carne stessa dei personaggi, un po’ come avviene, in tutt’altro contesto, nel celebre racconto di Kafka In der Strafkolonie.[5] Fatta eccezione per i barlumi di compassione che baluginano ai margini della storia, per lo più in figure sacrificali di donne o bambini oltraggiati senza colpa, il senso delle vicende umane è interamente contenuto nell’implacabile discesa agli inferi del protagonista del libro: Zebio Còtal. La sua, tirate le somme, è la storia di una graduale metamorfosi nel «profeta dagli occhi diabolici», «rassegnato, indifferente e indegno», allo stesso tempo «santo e demonio», della Miseria contadina.[6] Questa è la Moira che domina incontrastata la sorte degli individui e conferisce l’unico significato possibile agli sforzi di creature comunque inadeguate al compito – anzi, più che inadeguate: vane, ottuse, «cose ferme» tra le cose, ombre tra le ombre, «relitti», «erbacce selvatiche», senza un perché[7].

 

La lezione filosofico-letteraria che si può ricavare dagli scritti di un altro grande scrittore di Montagna come Mario Rigoni Stern mostra, tuttavia, che si può essere intellettualmente onesti nei confronti del durissimo mondo rurale alpino anche sposando una variante di realismo non mortificante. Nei racconti di Rigoni Stern la Montagna fa infatti da sfondo a un’esistenza dura, povera, spietata, talvolta persino odiosa. Nondimeno, la vita dei montanari – proprio come quella dei soldati in trincea – non è mai solo rozza, misera, implacabile, detestabile. La varietà speciale di abbondanza di cui essa è allo stesso tempo testimone e interprete si manifesta anzitutto nella Natura che, pur nella sua ambivalenza morale, abbraccia ogni cosa, ma, in un contesto più a misura d’uomo, è incarnata anche dalle personalità genuinamente carismatiche che sono il frutto spontaneo della lotta universale per sopravvivere in un ambiente allo stesso tempo ostile e sfolgorante.

 

Quello che vorrei fare da qui in avanti è proprio richiamare l’attenzione sul modo in cui Bortoluzzi rimodula creativamente nei suoi lavori la lezione di Rigoni Stern. Da un lato, lo scrittore delle Terre alte appartiene narrativamente a un luogo di cui è, per così dire, spettatore vicario: un collezionista di storie culturalmente vere, anche quando si tratta di racconti solo verosimili. L’immaginazione letteraria, detto altrimenti, è una facoltà mentale al servizio della memoria e dei sensi, e non viceversa. Per altro verso, però, questo stesso luogo a suo modo «selvatico», refrattario a ogni forma di sentimentalismo, è «salvifico» in un senso difficile da tradurre in teoria senza tradirlo. Da questo punto di vista, la sensibilità romantica per le epifanie del sublime naturale non è estranea alla forma di vita che l’Autore cerca di salvare narrativamente dall’oblio, sebbene lo possa diventare non appena questa speciale ricettività cessa di essere dialettica e confonde il caleidoscopio montano con uno dei suoi colori, ponendolo al servizio dell’autopotenziamento di una soggettività esaltata che, senza dubbio, non ha nulla a che fare con la civiltà alpina, se non nella forma contrastiva di una via di fuga o una tentazione autodistruttiva.

 

L’ambivalenza, insomma, regna sovrana in un tempo e un luogo che resta nella sostanza irrecuperabile, e che pure ha lasciato nella sua scia un cruccio e un’inquietudine che hanno una significativa affinità con la riluttanza romantica ad aderire allo spirito di un tempo che rivendica con orgoglio la propria disponibilità a fare a meno di qualsiasi «spirito» che non sia pienamente sotto il controllo della Ragione strumentale. È proprio per questo motivo, se non sbaglio, che la Montagna raccontata da Bortoluzzi appare umanamente ricca senza essere in alcun modo sentimentale, come lo è invece la Montagna brandizzata dal neocapitalismo voracemente inclusivo di cui facciamo esperienza quotidiana da alcuni decenni.

 

2. Scendendo più nel dettaglio, i tre scritti raccolti nell’antologia disegnano una traiettoria riconoscibile. Questa ha il suo punto d’origine nelle vicende senza tempo raccontate nelle Cronache dalla valle che la memoria del narratore incorpora e preserva con impassibilità, appunto, cronachistica: senza sovrapporre loro, cioè, valutazioni o giudizi formulati col senno di poi. La vigna in cui Iaco Dei Siori sente l’urgenza di defecare quasi fosse un sacrilegio non farlo; i tavolacci dell’Osteria su cui Angelo mormora le sue ultime parole dopo essersi rotto il collo per una rissa senza gloria; il miracoloso curaréce che risparmia a Ciano lo spettacolo dell’abbattimento di Spagna, la vecchia cavalla a cui non riesce a dire addio; il cumulo di letame ricoperto di neve che, fumando, spaventa a morte la vecchia Clementina un pomeriggio d’inverno; le guance rosse di Marietta, incapace di guardare negli occhi Tonìn il giorno del suo matrimonio; le scarpe vecchie e logore di Iaco che finiscono sui piedi del fratello morto in cambio di quelle della salma («nuove e lucide e nere come una biscia»); il culo bianco di Celeste il matto – sono tutti dettagli narrativi che, come i pezzi di un puzzle completato a metà, evocano un’immagine panoramica che si imprime senza sforzo nella memoria del lettore, preparando il terreno per le storie più personali che seguiranno.

 

La parabola disegnata da Bortoluzzi ha infatti un culmine, e uno scarto, negli anni Cinquanta del Novecento, quando la coesistenza di due civiltà antitetiche comincia a produrre anche tra i monti l’effetto destabilizzante che ogni episodio di «contemporaneità del non contemporaneo» ha fatalmente provocato un po’ ovunque sul nostro pianeta dopo l’accelerazione sociale e tecnologica impressa dalle Rivoluzioni moderne in Europa. In Paesi alti lo stato d’animo inquieto e recriminatorio del piccolo uomo Tonìn, amplificato sistematicamente dalla divaricazione tra la «legge» immutabile della Madre e quella più incerta del Padre, si insinua in ogni interstizio della faticosa vita quotidiana di un ragazzo che, senza rendersene conto, si prepara concretamente e simbolicamente a prendere congedo dalla Montagna, diventata ormai matrigna. L’incongruità quasi metafisica di quest’ultima si rivela, con finezza psicologica, in un cruciale momento epifanico, nella stalla di famiglia. L’importanza di questa scena, per l’appunto, «madre» è attestata anche dalla scelta dell’Autore di farne l’esergo del romanzo:

 

«Il ragazzo osservò la bestia stesa, i propri scarponi, gli zoccoli, la catena alla mangiatoia. Dalla porta socchiusa entravano la luce e il fresco dell’alba. Si sentì piccolo, non un bambino, ma un uomo piccolo, in miniatura, tra bestie grandi, in un luogo inutile, senza nome e perduto in un mondo enorme».[8]

 

È a questo punto che la domanda chiave della Trilogia del Novecento prende gradualmente forma sotto gli occhi del lettore: quanto veramente libero, volontario, ponderato, può considerarsi l’addio ai monti che viene infine pronunciato, più con stizza che con nostalgia, da Giacomo Casàl, il protagonista di Vita e morte della montagna tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, al culmine cioè della rapida modernizzazione italiana?

 

Da un lato, a ben vedere, il Bildungsroman di Giacomo è implicitamente dominato da un’immagine della Storia come un processo anonimo inarrestabile: una specie di universo in espansione o un fiume che corre verso il mare. L’idea del River of History si traduce fisicamente nell’evento episodico dell’alluvione del 1966 che costringe la famiglia Casàl a lasciare «temporaneamente» le Terre alte. Lo spostamento diventa definitivo cinque anni dopo, nell’estate del 1971, quando, finito di costruire la casa nuova, il padre Mario guida la famiglia da Curva Casàl all’edificio bianco «con le travature del tetto di legno scuro e le grondaie zincate», ma, soprattutto, con al suo interno il posto più incredibile: il bagno, che «aveva lo specchio con la luce, la lavatrice, il bidet, la vasca da bagno».[9]

 

Una volta passato il guado, il ritorno in montagna diventa rapidamente un movimento troppo dispendioso, contro corrente, insensato, persino odioso, che Giacomo compie insieme al nonno sempre più malvolentieri. Tutto nella sua vita lo spinge infatti materialmente e psicologicamente verso il basso: verso la pianura, la città, con le sue lusinghe, la più potente delle quali assembla in maniera disordinata desideri di autonomia, di un po’ di denaro, maggiore comodità, privacy, dell’agognata separazione tra lavoro e vita, magari anche di un pizzico di avventura: la musica ribelle, il sesso, le gite al mare nel fine settimana.

 

Inizialmente, sembrano tutte opzioni senza costi aggiuntivi. Soltanto col senno di poi si riveleranno per quello che sono: un’altra costellazione di pro e contro, vantaggi e svantaggi, fatica e agio, abbondanza e indigenza, gioia e disperazione. I costi invisibili che si annidano nella scelta di sposare senza remore la nuova forma di vita derivano soprattutto dalla fretta di staccarsi dal passato, prendere per sempre congedo da luoghi, abitudini e affetti, che la natura processuale del cambiamento d’epoca ha semplicemente offuscato, ma non cancellato. Significativamente, Giacomo inscena tale dialettica invisibile tra Vecchio e Nuovo nella relazione di odio e amore col nonno Iaco, a cui si sente legato da un laccio robusto, che solo dopo la sua morte si trasformerà inconsapevolmente nel filo della memoria («la terra è più di un uomo»!). Alla fine del viaggio si materializzerà, insomma, lo spettro di un futuro passato e con esso la sagoma incerta di una possibile terza via tra la Miseria nera («la vergogna di non avere il cesso in casa, non avere l’acqua calda, pulirsi il culo con le foglie delle viti») e una Cuccagna precaria come la torre di «non dieci, non cento, ma centinaia di panettoni impilati uno sopra l’altro in piramidi alte più di un uomo», su cui in definitiva, nel guscio delle proprie affollate solitudini, nessuno esercita comunque alcun controllo reale.[10]

 

3. Quello che resta al lettore, al termine di questa parabola, è la traccia labile di una forma di vita la cui enigmaticità è resa con maestria dal riserbo letterario di cui dà prova Bortoluzzi.

La cosa più difficile da fare per chi si misura con Montagna madre è decifrare il proprio stato d’animo una volta che, letta l’ultima pagina, si esita un po’ più del necessario prima di chiudere lentamente il libro e fissare la copertina con lo sguardo reso vigile dalla lunga immersione sotto la superficie levigatissima, ma cedevole della nostra esistenza quotidiana.

 

Non è mai facile congedarsi dai libri che sono riusciti nell’impresa, ormai sempre più ardua, di monopolizzare la nostra attenzione schermandola da tutte le fonti di distrazione che ci incalzano continuamente. Le storie raccontate da Bortoluzzi, però, hanno un vigore e una densità che non concede tregua. Alla fine, anche se vorresti trattenerti, ti senti trascinato dal racconto, un po’ come capita quando un amico ti porta a visitare la sua casa e tu vorresti soffermarti sui dettagli – quel manifesto sulla parete là, la custodia del violino in un angolo nascosto, la pila di libri nel bagno, il frigorifero minuscolo nella cucina – ma non si può fare, perché non è così che si visitano le case: è una specie di errore grammaticale pensare di avere il permesso di capire le vite degli altri studiandone i frammenti solo perché non possono fare a meno di esibirli per il semplice fatto di vivere.

 

Così le cronache montane di Bortoluzzi, mi sembra di poter dire, vanno lette con lo stesso pudore con cui si accetta, e ci si fa una ragione, del rifiuto di una persona di condividere uno spazio di intimità. Il timore di rovinare qualcosa di prezioso pretendendo un’autenticità che la cosa stessa non ha e non finge di avere – la richiesta insensata di qualcosa di simile a un’ingenuità vissuta o intenzionale – è perciò uno dei sentimenti più vividi che la lettura delle storie raccolte in Montagna madre lascia dietro di sé. Con ciò non intendo dire che si tratti di vicende in sé compiute, che non veicolano un bisogno di riscatto, redenzione, senso, o come diavolo lo si voglia chiamare. Tuttavia, è come se le storie di Iaco e Maria dei Siori, Nino e Ciano, Berto e Rosa, Angelo, Nina, Clementina, Silvio, del maiale Toni e della cavalla Spagna, di Tonìn e Teresa, di Giacomo e suo nonno, opponessero una sorta di resistenza passiva alla curiosità di chi vorrebbe sapere qualcosa di più su come sono andate davvero a finire le loro vite: che cosa si nasconde dietro quel gesto, quel dolore, quel desiderio, quella vergogna.

 

C’è sofferenza in questa reticenza, mi sembra di poter dire. È un sentimento che immagino risulti familiare a tutti coloro, e siamo in molti in Italia, che hanno vissuto gran parte o magari tutta la propria vita a cavallo fra due mondi, quello urbano e borghese nato di fretta sull’onda delle grandi trasformazioni moderne, e quello contadino, già ormai sulla via dell’estinzione, da cui provenivano in genere i nostri avi. Da bambini o ragazzi, poteva capitare di portarsi dietro dalle vacanze un sottile velo di malinconia che, sebbene non fosse semplice da capire, pure si spandeva per qualche giorno su ogni cosa. Come in un film di Ermanno Olmi, dietro lo strano senso di irrealtà irradiato da quei momenti di tempo sospeso non di rado serpeggiava il sospetto che in quel modo fiabesco di vivere la vita potesse nascondersi un tesoro prezioso.

 

Il turbamento, è chiaro, nasceva dall’attrito tra i tempi, gli spazi, le relazioni, i desideri, i pensieri, la lingua stessa dell’esistenza cittadina e quella vita apparentemente senza doppiofondo, senza sfumature, senza contrappunto, senza futuro – «è quel che è» – in cui non solo come individui, ma come membri di un’intera schiatta ci si immergeva senza fatica apparente per qualche settimana o mese.

Viene da chiedersi se uno degli effetti principali della lettura di Montagna madre non stia proprio nell’attrito con il carattere allo stesso tempo familiare e perturbante – un-heimlich avrebbe detto Freud – di una forma di vita, una Heimat appunto, una «paesanità», che resta comunque l’asse anche di quella condizione per noi ormai inalienabile di Heimatlosigkeit, di spaesamento, che è il minimo comun denominatore delle esistenze borghesi ai nostri giorni. Persino oggi, come si capisce senza sforzo leggendo la trilogia di Bortoluzzi, quell’urto può lasciarti stordito per qualche giorno nel dubbio di quale sia, a conti fatti, la vita «vera».

 

Note

 

[1] Cfr. A.G. Bortoluzzi, Montagna madre. Trilogia del Novecento, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2022.

[2] Cfr. G. Cavani, Zebio Còtal, Isbn Edizioni, Milano 2009. La prima edizione, limitata a duecento copie, del libro risale al 1958. Nel 1961 il romanzo venne ristampato da Feltrinelli, con una prefazione di P.P. Pasolini, nella collana Biblioteca di Letteratura diretta da Giorgio Bassani.

[3] Ibidem, p. 122.

[4] Cfr. U. Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008. La versione di Cavani della saggezza «dionisiaca» di Sileno è ben esemplificata dall’aforisma con cui si chiude uno dei pochi capitoli non tragici del romanzo: «Si strinsero la mano con reciproca riconoscenza e con quel senso di tristezza che c’è sempre negli addii, anche fra persone che non hanno nessun legame, perché soltanto quando si dicono addio, gli uomini s’accorgono di volersi un po’ di bene». Cfr. G. Cavani, Zebio Còtal, cit., p. 189 (il corsivo è una mia aggiunta). «Ciascuno per la sua strada», è il motto che Zebio ripete ossessivamente nei capitoli finali del libro, dopo l’incontro rivelatore con il figlio Zuello.

[5] Cfr. F. Kafka, Nella colonia penale, a cura di L. Borghese, Marsilio, Venezia 2001.

[6] Cfr. G. Cavani, Zebio Còtal, cit., cap. 21, e pp. 157, 197, 203-204.

[7] Ibidem, pp. 78, 86, 155, 156, 221.

[8] Cfr. A.G. Bortoluzzi, Paesi alti, in Id., Montagna madre, cit., p. 214.

[9] Ibidem, p. 292.

[10] Ibidem, pp. 327, 355, 349.

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