di Luca Illetterati

 

L’immagine di copertina del nuovo romanzo di Andrea Tarabbia (Il Continente Bianco, Bollati Boringhieri 2022) è la fotografia di uno dei famosi “cementi” di Arcangelo Sassolino, artista tra i più interessanti e radicali del panorama contemporaneo. La scelta non è solo ornamentale o vagamente allusiva, a partire dalla sua bianchezza, rispetto al titolo. Già nella prima pagina del racconto compare infatti un’altra opera di Sassolino, Figurante, che poi fa capolino in altri momenti decisivi della narrazione e che assume per l’io narrante di questo racconto complesso e stratificato un valore simbolico, quasi si trattasse di una sorta di emblema rispetto alla ancestralità della dimensione esistenziale contorta e contradditoria dentro la quale quell’io si va immergendo. Figurante è un’opera particolare nella produzione di Sassolino, una delle poche che rinvia a un immaginario di tipo figurativo. Si tratta di una scultura in metallo che potrebbe assomigliare al muso feroce di un lupo – un animale dei boschi dice il narratore – con denti aguzzi e potenti, capace, se azionato – lo si può vedere online – di stritolare il femore di un toro, frantumandolo e facendo gocciolare gli umori dell’osso sul pavimento. È un’opera che pare andare, per molti aspetti, all’origine crudele della vita, che mostra come la vita sia condannata, per essere ciò che è, a consumare la vita stessa, fino a stritolarla, a polverizzarla. Figurante sembra in questo senso rinviare a quella sorta di potenza animale originaria che è sempre presente, magari dormiente o sublimata, dentro ogni gesto, ogni parola, ogni respiro della vita.

 

Figurante, nella narrazione di Tarabbia, si trova appeso a una parete della casa/studio di uno psichiatra e analista, il dottor P***, di cui l’io narrante è, appunto, un paziente. Una presenza evidentemente poco rassicurante nell’anticamera di uno studio medico: «Prendo soltanto pazienti che sono in grado di trascorrere qualche minuto da soli in sua compagnia» dice il dottor P***. Una battuta che rivela in realtà qualcosa di decisivo per lo stagliarsi del racconto: essere in grado di stare da soli vicini a Figurante significa infatti essere disposti a fare i conti con quella dimensione misteriosa, inquietante e al tempo stesso attraente e affascinate – l’animalitas, appunto – cui la scultura rinvia e di cui la cronaca che l’io narrante si appresta a raccontare è una testimonianza per molti aspetti estrema.

 

Il narratore è dunque un paziente del dottor P*** ed è uno scrittore che si chiama Tarabbia, il quale si descrive come un uomo mite, ai limiti dell’ordinario, che forse si affida al dottor P*** – anche se questo non viene detto – anche per comprendere una sua incapacità o per meglio dire quello che lo scrittore stesso definisce come un suo fallimento.  Per una volta, infatti, questo scrittore si è impegnato in direzione di una scrittura diversa da quelle che aveva realizzato finora, che erano tutte scritture che nascevano da quel repertorio di narrazioni che è la Storia. Il riferimento è evidentemente ai romanzi precedenti di Tarabbia: dalla confessione di uno dei terroristi protagonisti del terrificante sequestro di mille persone in una scuola a Beslan il 1. Settembre 2004 conclusosi con l’irruzione delle teste di cuoio e la morte di trecentotrentaquattro persone di cui centoventisei bambini (Il demone a Beslan, 2011), alla storia di un serial killer sovietico (Il giardino delle mosche, 2015) per giungere a Madrigale senza suono (2018), che ruota attorno alla vicenda torbida del principe madrigalista Gesualdo Da Venosa. Questa storia diversa, questo tentativo di storia, che appare di tanto in tanto nel romanzo, è una storia che non ha a che fare con la Storia di cui esistono documenti e testimonianze, non ha cioè ha che fare con le res gestae; ha che fare invece con la vita di una donna incontrata durante un viaggio, che lo scrittore ha tentato, senza riuscirci, di proteggere. Ed è proprio per questo che questa storia non può diventare un romanzo, perché -confessa lo scrittore – “se si protegge qualcuno di cui si vuole scrivere si altera il mondo, lo si piega alle proprie voglie e perfino al proprio senso di giustizia, e un mondo piegato a tutto questo è un mondo giusto, senza scandalo né orrore, ma non è un mondo che può entrare in un libro”. Per Tarabbia, «un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio”.

 

Lo scrittore si rivolge dunque di nuovo a una storia esistente, a un “dato di fatto”, che però, a differenza di quelli sopra nominati, che sono dati di fatto che appartengono appunto alle res gestae, è ora un altro romanzo. Mentre nei suoi libri precedenti lo scrittore aveva fatto lavorare l’immaginazione su dei documenti che non avevano di per sé uno statuto finzionale, questa volta il documento su cui lavora, il documento che diventa l’ossessione attorno alla quale si contorce, è esso stesso un’opera dell’immaginazione. Il continente bianco è dunque un romanzo che assume come “fatto” attorno al quale lavorare un altro romanzo; è cioè la riscrittura di una scrittura. Questo implica che nulla di quanto accaduto in quel romanzo può essere messo in discussione. L’unica operazione possibile rispetto ad esso è cercare un accesso diverso a quel “fatto”: entrare cioè dentro quella storia – che assume appunto lo statuto di “fatto” – da un pertugio diverso rispetto a quello utilizzato dal romanzo “sorgente”. Il romanzo in questione, quello che stabilisce i fatti, è L’odore del sangue, l’ultimo, incompiuto, imperfetto e formidabile romanzo di Goffredo Parise; romanzo pubblicato postumo, nel 1997, più di 10 anni dopo la morte dello scrittore vicentino (come vicentino – nota a margine – è Sassolino), e scritto addirittura nel 1979. “Un romanzo – scriveva Cesare Garboli nella Prefazione alla prima edizione del testo parisiano – che non vorrei avere scritto”.  Si tratta infatti, dice Garboli, di un testamento sanguinante, che solo chi sente di essere stato preso per mano dalla morte può scrivere. L’odore del sangue tratta, come è noto anche per la versione cinematografica realizzata da Mario Martone, di una coppia borghese di stanza a Roma; lui, Filippo, cinquantacinquenne, e lei, Silvia, cinquantenne; lui medico e psicanalista, lei donna molto bella, caratterizzata da un eros più spirituale che carnale. Entrambi hanno tradito, ma sempre raccontandosi tutto: lui alla ricerca di ciò che lei non gli può dare e lei forse più per non essere da meno che per autentico desiderio. A un certo punto, però, l’eterea Silvia si invaghisce di un giovane romano, un giovane fascista, figlio della Roma fascista – “la città più fascista e ancora fascista d’Italia” scrive Parise – vicino a Ordine Nuovo, ignorante, nullafacente, che tende a comportarsi nei confronti di Silvia come un padrone. Un rapporto da cui Silvia non riesce a liberarsi, anche lei forse in preda a quell’odore del sangue di cui Parise spiega il senso nelle poche e mirabili pagine del Prologo. L’odore del sangue, scrive lì Parise, è simile all’odore nauseabondo dei macelli all’alba, ma infinitamente più dolce: “era l’odore della vita, l’odore più profondo essenziale ed unico della vita”; un odore che ha a che fare con la dimensione persino antropofagica e vampiresca della vita, che allude “al fagotto di ossa carne e appunto sangue di cui siamo contenuto e contenitore” e che esprime mistero, attesa, “un rimando a capire” – dice Parise avvicinando l’odore del sangue allo statuto dell’opera d’arte – che cattura colui che lo sente come una nostalgia. Il marito avverte il pericolo che Silvia sta correndo, ma al contempo sente di non poter agire, forse persino attratto da questa attrazione di Silvia, inebriato dall’odore del sangue. Tant’è che quando alla fine del romanzo la telefonata di un amico gli comunica che Silvia è stata trovata seviziata e uccisa nell’appartamento che avevano abitato insieme, non sembra stupito. Sente, piuttosto, la colpa di non essere riuscito ad opporsi a un destino che forse non poteva non compiersi, ma che sicuramente lui ha lasciato che accedesse.

 

Tarabbia, che a differenza di Garboli ammette che questo romanzo vorrebbe averlo scritto lui, entra dentro questa storia da un ingresso, per così dire, laterale. Se la storia di Parise si svolge tutta dentro la mente del narratore, che è il marito e che ha non pochi tratti in comune con Parise stesso, Tarabbia fa parlare quelli che nel romanzo di Parise non hanno voce; si butta cioè dentro al mondo cui il romanzo di Parise allude, ma che al contempo sta fuori di esso. Grazie a una sorta di complicità con il dottor P*** (il Filippo del romanzo di Parise) lo scrittore giunge infatti a conoscenza della storia di Silvia e decide di entrare in contatto con il ragazzo fascista di cui lei si è invaghita, il quale  assume ora un nome, Marcello Croce,  e conseguentemente con il gruppuscolo, il Continente bianco appunto, di cui quel ragazzo è uno dei componenti. Lo scrittore attratto come un magnetismo insieme animale e conoscitivo riesce a entrare nel gruppo, dove però tutti sanno chi è: sanno che è un paziente del marito di Silvia, sanno che è uno scrittore che si nutre di storie, sanno anche che è stranamente calamitato dalla dimensione esistenziale che essi incarnano e in qualche modo lo ingaggiano proprio per questo, ovvero per raccontare le loro gesta. È chiaro che lo scrittore non è come loro: lo sa lui, lo sanno i membri del Continente bianco e lo sa, soprattutto, il lettore. Il romanzo diventa così una cronaca, nella quale lo scrittore stesso si trova a fare esperienza della violenza e dell’abominio, sentendosi sempre un po’ dentro e sempre un po’ fuori dagli eventi cui partecipa. Che è il luogo, a ben vedere, dove sta sempre la letteratura: un po’ dentro, perché se non stesse dentro la vita sarebbe puro gioco estetizzante, ma anche sempre un po’ fuori, in quanto altrimenti non potrebbe mai davvero dire quel dentro che la interessa. Il viaggio di Tarabbia assume allora forma di una immersione nel sottosuolo di Roma – “questa città immensa (…) che si porta dentro qualcosa di perennemente funebre, come se fosse condannata a morire domani e domani invece non muore, ma si trascina fino a dopodomani, e poi fino al giorno dopo dopodomani, e poi ancora, all’infinito, in un continuo presagio di morte confutato da una continua, precaria forma di salvezza che la mantiene in uno stato terminale, ma vivo” –, ma anche nella violenza praticata ed esibita, nella negazione del dolore come dimensione troppo umana, nel desiderio erotico di annientamento, nella mitologia del male.

 

L’Io narrante – lo si sa fin dall’inizio – non può cambiare il corso della storia, non può farsi carico di alcuna redenzione, perché la storia è una storia già scritta, perché il destino che essa racconta è già compiuto. Può solo raccontare quella stessa storia da un altro punto di vista, incrociando l’originale, ma senza mai entrare in competizione con esso.

Anche in Tarabbia il motore di tutto è l’odore del sangue; ma se in Parise l’odore del sangue è soprattutto l’odore dell’ancestralità della vita, l’odore del sesso, l’odore del desiderio, per Tarabbia questo odore è inseparabile dall’odore del male. Come a dire che se la vita ha necessariamente ed orginariamente a che fare con il feroce conatus existendi di Figurante, l’origine della vita è anche l’origine del male: “i denti aguzzi, le fauci spalancate – dice uno dei personaggi più inquietanti del racconto di Tarabbia – non significano soltanto aggressione e morte: se le guardi dall’altra parte significano anche nutrimento e vita”. Non c’è, pare dire lo scrittore, da una parte la levità, la gioia e la bellezza e da un’altra, separata da queste declinazioni del vivere, il male, l’orrore, l’abominio. Il male ha la sua origine – questo il nucleo terribile e spaventoso attorno al quale ruota l’intero romanzo e forse l’intera poetica di Tarabbia – nello stesso luogo e nello stesso gesto dal quale ha origine la vita. Anzi, per quanto spaventoso sia dirlo, il male è evidentemente consustanziale alla vita. Come dice ancora l’Io narrante al termine di una riunione del Continente bianco nella quale si è decisa un’azione incendiaria contro i campi rom che dovrà svolgersi contemporaneamente in varie città italiane, «questa cosa che si può ridere mentre si sta chiusi in un sotterraneo dove si parla di cose morte, poco dopo aver preso la decisione di mettere in scena una specie di pogrom, è uno dei punti oscuri di tutta quanta la faccenda dell’umanità, dell’essere uomini e donne e di vivere su questa Terra, di poter fare il male e, mentre lo si compie, pensare a qualcosa che si ama, alla bellezza perfino, o all’eleganza o alla leggerezza, e a che cosa si farà dopo per distrarsi o rilassarsi o festeggiare».

 

L’odore del sangue, diceva Parise è insieme nauseabondo e inebriante. Altrettanto è l’odore del male per l’Io narrante. Perché quello del male, per quanto fetido e marcio, è comunque anche odore di vita, odore cioè di qualcosa che, per chi guarda perlopiù il mondo da fuori, o da quel luogo liminare tra il dentro e il fuori che è la letteratura stessa, è comunque odore di nostalgia, di rimpianto, di ciò che si è e forse non si riesce davvero ad essere.

Il romanzo di Tarabbia, questo romanzo dalla scrittura insieme realistica e vivida, che si muove con sapienza e coraggio dentro a un altro romanzo e nutrendosi di molti altri romanzi – «non so raccontare una storia dal vero senza mescolarla con la letteratura e quindi con l’immaginario altrui» – non è affatto, come forse potrebbe sembrare assumendo la trama dentro cui si svolge, un romanzo sulla banalità del male; è semmai un romanzo, per quanto pericoloso sia anche solo pensarlo, sulla ordinarietà del bene, ovvero sulla possibilità che il bene, se pensato semplicemente come astensione dal male, possa ridursi a una forma, altrettanto colpevole, di astensione dalla vita.

 

 

[Immagine: Opera di Arcangelo Sassolino].

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