di Bernardo De Luca

 

[È uscito in questi giorni, nella collana A27 di Amos Editore, il nuovo libro di poesia di Bernardo De Luca, Campo aperto. Ne pubblichiamo un estratto, con in coda la nota di Carmen Gallo che accompagna il volume.]

 

Insetti I

 

Sono arrivati i calabroni.

Quest’anno in anticipo

per il gran caldo di fine inverno.

Infestano i balconi, sbattono alla finestra

con un rumore sordo, ci chiediamo

quale dolore provino.

A volte sembrano muoversi confusi,

ne abbiamo paura.

Non siamo in grado di dire se siano

maschi o femmine.

 

È difficile comprendere il motivo

del loro arrivo. Perché questo condominio?

Il calabrone non ha interesse

per l’uomo, il caldo finirà.

Potremmo dire che ci guardano con sospetto,

attendono la preda (pezzetti di carne, rimasugli)

o forse non sanno, semplicemente vedono

gesti disperati muti ripetuti.

 

Celle, cellette, nidi pronti a sfarinarsi,

saliva mista a legno, attacca e costruisci,

prevedi, muori per la specie.

 

*

 

 

2001

 

Cercare di localizzare passaggi,

la memoria che fa scherzi,

con pinzette alza anni minuscoli e puntuali.

 

Ho pensato agli eventi come a sciami:

ci incantano, ci allarmano.

I momenti raccolti che si muovono

con logiche visibili e sconosciute.

 

Quando vide le torri cadere

mia madre pensò a Londra.

L’evento della mia generazione

è stato un malinteso.

Gli amici ascoltavano elicotteri nei cieli

che non c’erano. Temevano una guerra

mondiale, c’è stata?

Ricordiamo chiaramente: tutti

i canali televisivi trasmettevano le stesse immagini.

 

Una sola morte a luglio,

il venti, ero al mare?

Si è trattato di un episodio di guerra

Civile? Abbiamo ancora nomi?

Qualche mese prima a Napoli

tutto sembrò il preludio di anni.

 

Feroci ci rapiscono e atterrano

i tempi, ma la maturità non è un luogo.

 

*

 

Lei

 

È una fine che non finisce mai,

fuori l’asfalto si crepa al battere della pioggia.

Tu non finisci mai

come un sottofondo che insiste

e occupa il tempo, diventa tempo.

 

Dovrei forse smettere di chiedere?

 

C’è un attimo in strada al risveglio

che il sole disdegna.

La luce dei lampioni si chiude improvvisa.

 

La parola con te è parola che tace.

Non vieni vestita né nuda,

inaspettata o richiesta.

 

Non ti vedo al mio fianco nei riflessi degli specchi.

 

La parola con te è parola

da occhi sbarrati,

chiusi.

 

*

 

Similitudine

 

È come la risoluzione di un problema

angoscioso, da molto tempo

presente e concreto nei sintomi fisici

che procura,

come lo sciogliersi improvviso del pianto

all’urlo che lo ha soppresso

o forse l’abbandono del corpo

prima dell’incoscienza.

 

Come la gioia nel salto

oppure lo sguardo che cerca e trova

ciò che vuole,

come la stanchezza dopo

o il trepido tremore prima.

 

«Quando arrivi è meraviglioso».

 

*

 

Carmen Gallo

Verifica e visione. Sulla poesia di Bernardo De Luca

 

Torna alla poesia, con la sua terza prova, Bernardo De Luca, consegnandoci la piena maturazione di una ricerca – stilistica, poetica, esistenziale – iniziata nel 2014 con Gli Oggetti Trapassati, per la compianta D’if, e prose­guita con Misura, uscita per Lietocolle-Pordenonelegge nel 2018. Fedele all’intervallo dei quattro anni, Campo aperto riprende e rilancia la cifra originale della poesia di De Luca, che da sempre mi è apparsa animata da una trasparente polarità in movimento. Da un lato la verifica dei poteri, di fortiniana memoria, diventa strumento di analisi e conoscenza del mondo e delle relazioni per un soggetto sempre attento, quando non in allarme, rispetto alle minacce che gravano su spazi interiori e esteriori già ridotti a una dimensione residuale. Verifica ossessiva ma non sistematica di un’individualità frammentata, che in­terroga lo statuto stesso della realtà e si muove in paesaggi dalla natura contaminata, disastrata (si direbbe apocalit­tica se non fosse tutto troppo reale per meritare questa trasfigurazione), che attacca anche i corpi, li consuma dall’interno (da qui il filo della ‘sospensione’ associata alla malattia in alcuni testi).

 

Dall’altro, l’ineluttabile modalità del visibile e dell’udi­bile, per dirla con lo Stephen Dedalus di Joyce. All’in­decifrabilità dell’esperienza, che consegna una conoscen­za sempre più povera, fa da contrappunto un soggetto che con una forza vitale quasi inerziale non può fare a meno di guardare, di esplorare il negativo, la violenza che distrugge (storia e natura sono al pari scenario di deva­stazione: l’11 settembre, Napoli e Genova 2001, i roghi della Terra dei fuochi), la paura che ci assale (“una paura di noi”, anche). Eppure, allo stesso tempo, chi scrive non può fare a meno di appellarsi a una comunità che condi­vide suo malgrado la condizione del degrado rappresen­tato. Una forma di noi sopravvive nei lacerti di parlato e nelle ricorrenti domande – sereniane forse, ma su cui grava l’ombra di Mario Benedetti e Giuliano Mesa, di Celan e Beckett – che chiamano in causa un interlocu­tore (assente, difficile, ma da postulare, sempre) perché si riveli e si faccia fondamento del guardare, dell’impresa di scrivere ancora su quel mondo, fisico e immaginario, diventato waste, parola che qui come in Eliot rimanda al vuoto, all’aridità che attende riscatto, ma anche allo scar­to, al rifiuto, allo spreco (“Gli innumerevoli frammenti sparsi / a terra formano le incomponibili / schiere di me stesso, inerti saranno / cumulo”, in Trapassato).

 

Attenuato lo ‘stato di emergenza’ che animava Gli oggetti trapassati, di cui alcuni testi sono approdati qui (tra gli altri, il notevole La candela e l’amico), e superata la gri­glia dei distici, ovvero lo schermo iperanalitico con cui Misura tentava di controllare, arginare il racconto del disastro, ci troviamo di fronte adesso al verso più libero di un Campo aperto, in cui lo sguardo sul vuoto può al­largarsi, che è anzi lo sguardo stesso: “un campo aperto, privo di alberi, un campo vuoto, lo sguardo”, recita la poesia eponima. E, insieme alle “distese di pneumatici che bruciano”, che colorano di nero il futuro, ritrovia­mo il confronto del soggetto con l’irriducibilmente altro da sé, il mondo degli insetti, definiti “figure familiari”, convocate a volte come sciami capaci di “insegnare il co­dice / che mi spieghi i gesti” (Insetti III). Folgorante il testo incipitario, Insetti I, di questo prezioso volume, che mostra in una scena quasi allegorica la polarità che ho proposto come scommessa interpretativa della poesia di De Luca: i calabroni arrivano in anticipo, a fine inverno, a indicare un ciclo naturale dissestato, e sbattono contro le finestre costringendo chi guarda a interrogarsi su qua­le dolore provino e a negoziare lo scontro tra le specie, mentre è evidente la loro indifferenza per l’umano che si agita, ha paura. Nella seconda strofa, chi scrive non riesce a non attribuire all’altro da sé una forma di relazione (“potremmo dire che ci guardano con sospetto”) o uno scopo all’invasione anticipata – “attendono la preda / (pezzetti di carne, rimasugli)”, scarti dell’umano -, prima di arrendersi a una distanza cognitiva che è allo stesso tempo identificazione profonda: “o forse non sanno, semplicemente vedono, / gesti disperati muti ripetuti”. Allegoria inevitabile, questa, che risuona, ancora con accenti kafkiani, anche nella prosa La stanza. Eppure, “tutto non è inevitabile”, si ribadisce in Eraclito. Lo vediamo nella forma antica del rito, del gioco, riproposto dalle bambine che fanno vorticare un mucchio di foglie morte come per ridare loro vita in Questa foglia (rivivificazione di un topos poetico), o che mettono fiori nelle pentole in Campo aperto, “gioco o rito che non va decifrato / che non celebra niente / che non significa niente”, e conserva però la forma del senso, la possibilità di una riaccensione, se ne nasce la più disarmante delle domande, la più decisiva per chi decida di scrivere poesia: “Puoi dirlo quel senso di avvicinamento / che ti spinge giorno dopo giorno?”.

 

 

 

[Immagine: Abelardo Morell, Camera Obscura: Late Afternoon View of the East Side of Midtown Manhattan, 2014].

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