di Raffaele La Capria
[Esce oggi per Mondadori Tu, un secolo, un libro che raccoglie le lettere di e a La Capria, commentate dallo scrittore. Presentiamo in anteprima una lettera (mai inviata e non compiuta) di La Capria a Pasolini, in risposta alla recensione di quest’ultimo di Amore e psiche (1973)].
Caro Pier Paolo,
grazie dell’articolo e della franchezza. Anche il tuo articolo, in qualche modo partecipa alle leggi del mio libro, perché anch’esso è duplice. C’è una prima parte che riguarda l’ipo-romanzo con giudizio positivo, una seconda parte che riguarda il meta-romanzo con giudizio negativo. La mia obiezione è che quello che tu chiami ipo e meta romanzo non sono separabili, ma formano stilisticamente e concettualmente un unico e inseparabile romanzo, forse tutto meta.
Ma procediamo con ordine; se ti va di discutere, naturalmente, sui punti del tuo articolo.
Prima osservazione: Ricatto culturale che avrei subito dall’avanguardia. Ma io, caro Pier Paolo, ho scritto sempre così! Anche quando qui nessuno scriveva così, nemmeno il tuo Wilcock. Basta guardare, alla svelta (perché non è una gran cosa), il mio primo romanzo Un giorno d’impazienza che è del 1952 per convincersi che la tecnica, le costruzioni e tutto il resto sono gli stessi di Amore e psiche (con le dovute differenze: sono passati vent’anni!). Allora l’avanguardia non poteva ricattarmi perché non esisteva. E Ferito a morte non è costruito nello stesso modo? Anche con Ferito a morte l’avanguardia non avrebbe fatto in tempo a ricattarmi. È dell’aprile del ’61 ed è stato scritto nel ’60. L’avanguardia cominciò a ricattare un po’ più tardi.
Insomma respingo l’accusa del ricatto da me subito, perché inconsistente.
Ciò premesso, credo che tu, nelle tue critiche e nei tuoi interventi sul “Tempo”, dai troppa importanza a questo ricatto dell’avanguardia: sembra una tua questione personale più che un valido criterio di giudizio. A volte, come nell’articolo su Pavese e Arbasino, sembra di leggere una favola. Insomma esageri e diventi insopportabile, a mio parere.
Seconda osservazione (breve): i quattro momenti di una praticità disarmante su cui intervengo a spiegare la mia costruzione.
Perché ti sembrano tanto ingenui da una parte e ingannevoli dall’altra?
Nel primo c’è adombrata una spiegazione formale (con un correlativo oggettivo: il quadro); nel secondo una spiegazione psicologica sentimentale; nel terzo un suggerimento di lettura analogica; nel quarto è adombrato il rapporto tra l’autore e il suo libro. Ho messo cioè le mie carte chiaramente sul tavolo, ho detto il mio gioco è questo, basta seguirlo attentamente e avrete tutti gli elementi per giudicarlo (bene o male, s’intende). Ti pare che tutto questo sia sbagliato o ingannevole o ingenuo? Perché? Io non lo capisco. Tu dici “praticità disarmante”. Mora- via è spesso di una praticità disarmante, e con questo? E poi perché disarmante? No, non capisco.
Terza osservazione: Il clamoroso meta-romanzo. Questo meta-romanzo è specificamente un’allegoria (come Teorema, mettiamo) sull’insofferenza e l’intollerabilità del- la vita quotidiana. Perciò tutto allude sempre al “meta”, anche le descrizioni della vita quotidiana sono in funzione del “meta”. – Mi sembra perciò, come ho detto, impossibile scindere, come pensi tu, “ipo” e “meta”. Nella vita quotidiana si fanno ogni mattina esercizi yoga? Ti sembra che io descriva proprio un esercizio yoga? E “il tempo che fa”, quell’esattezza della luce autunnale, quell’immagine di uno scoppio nell’aria, ti sembrano proprio descrizioni meteorologiche? E la casa con la moglie che strozza la cameriera? E il kamasutra, la caccia con la bambina all’a- mante vero o presunto della madre, tutto questo ti sembra descrizione di una normalità quotidiana tipo Ginzburg, o non piuttosto una continua allusione a quel “meta”, fallito o no, che ho sempre avuto in testa?
Quarta osservazione: Gianni. Ti posso assicurare, an- che se il risultato è quello che tu dici, che Gianni non è preso di peso dalla cronaca più rettorica (qui forse di nuovo nel tuo giudizio è intervenuto il fantasma della contestazione, che, con quello dell’avanguardia, ti perseguita). Gianni non sarà riuscito come personaggio, ma è preso direttamente dalla realtà. È un mio amico che molti hanno conosciuto e che io credevo morto da dieci anni (quando ho saputo che era ancora vivo ho provato rimorso di averlo in qualche modo reso riconoscibile, perché ho temuto di nuocergli senza aver voluto). Che sia realmente esistente non prova nulla, ma almeno prova che mi sono rifatto alla realtà da me direttamente conosciuta, a un’esperienza personale e non presa di peso dalla cronaca più rettorica.
In Gianni io ho voluto introdurre un elemento di disturbo: la malattia, la schizofrenia – sempre latente e incombente. Gianni insomma dovrebbe far capire quanto è faticosa e conquistata la normalità di “lui”, del protagonista. Basterebbe appena mollare un filo e anche “lui” sarebbe come Gianni. Ma il filo tiene, e tutto è normale.
Dunque non c’è un doppio Gianni contrapposto a un doppio protagonista, ma più semplicemente la minaccia della malattia e una normalità – stato – d’emergenza.
Inoltre Gianni non è un “pazzoide” e basta. C’è una certa logica nella sua follia. E questa è la folle logica dell’agire per essere che nel mondo di oggi così spesso si riscontra.
Quinta osservazione: la bomba. Hai ragione, è davvero privo d’interesse – perché questo non è il punto – sapere chi ha tirato la bomba. Non è un libro giallo, è detto chiaramente, in un luogo che la bomba è stata collocata nel negozio da provocatori fascisti. Il gioco delle coincidenze serve solo a far capire il carattere dell’esperienza “insolita” fatta dal protagonista (e non da La Capria: La Capria che tira una bomba, o non la tira, è solo un espediente giornalistico per divertire il lettore di “Tempo”), nel momento in cui l’inconsapevole desiderio di liberarsi delle proprie ambiguità lo porta a lanciare (anche metaforicamente) un sasso contro se stesso.
Liberarsi dalle proprie ambiguità è un desiderio oggi vivissimo in molti, nasce dalla stanchezza per una cultura, come la nostra, che ci condiziona in modi così insopportabili; una cultura che è fondata nelle contrapposizioni tra “l’io” e il mondo, il dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto. So benissimo che ce l’abbiamo e ce la dobbiamo tenere. Ma come sarebbe se ce ne liberassimo per un momento per raggiungere, sia pur per un istante, una totale non-ambiguità, ma totale identificazione col mondo? Sarebbe come se, nella psiche, scoppiasse una bomba, qualcosa di simile a un cataclisma. Tu, in un precedente articolo, parlasti dei racconti zen che ti sono tanto piaciuti. Beh, qualcosa di simile avviene con la bomba. Io volevo in forma allegorica descrivere le cose al livello dell’esperienza comune, senza il misticismo o l’ineffabilità sibillina delle storie zen.
Dunque il protagonista (e non La Capria) dopo avere, attraverso un processo involontario di identificazione, avuto la conferma dell’ineliminabile ambiguità che riguarda lui, il suo rapporto con la moglie, e con tutto (fino a pag. 116, insomma), esprime il proprio desiderio di sbarazzarsi di questa ambiguità con un gesto simbolico e apparentemente inutile: getta un sasso contro la propria immagine. In quel momento una serie di coincidenze fa sì che egli davvero realizzi, per un istante, quel desiderio. Fa un’esperienza, insomma. Questa esperienza, breve e fugace, il mio romanzo voleva praticamente rappresentarla in forma di allegoria – se ho fallito, mi dispiace. Ma questo avevo in mente, questo “metaromanzo” mi interessava, questa esperienza al limite, ma al livello umano e comune, e non religiosa, quotidiana.
Sono di una praticità disarmante? Può darsi, e chiedo scusa.
Ultima osservazione: Quando avviene quest’esperienza? In un momento di tensione emotiva generale: del protagonista e della folla di contestatori nelle strade. Ma lui, il protagonista, ha, senza saperlo, una sua forma diversa di contestazione da far valere in quel momento e da contrapporre a quello che si svolge nelle strade. Comunque tutto avviene “malgré lui”, e solo nel sogno finale “lui”, con i mezzi del sogno (visione simbolica) cerca di spiegarsi ciò che è accaduto: non per sapere chi ha lanciato la bomba (le ipotesi dei giornali sono solo la forma che prende il suo rovello) ma per riproporre il tema ossessivo dell’ambiguità sotto un’angolazione diversa. L’occhio della bambina è la forma che – sempre nel sogno – prende il suo desiderio di liberazione dell’io, desiderio che – come dice il Commissario – è incompatibile con le regole vigenti sulla nostra società – con quel buon senso che decide l’impossibilità per i sassi di scoppiare, l’impossibilità di simili avventure nello spazio del quotidiano, e l’impossibilità di trattare di simili argomenti in meta-romanzi del tutto improbabili e per metà falliti.
Scusami di questa lunga lettera. Non l’ho scritta per negare la validità del tuo giudizio – so che la pensano così, come te, anche Moravia, Parise ed altri – ma per dirti che*
* Il testo della lettera termina così.
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria