di Diego Conticello

 

[Nell’anno del centenario della nascita di Bartolo Cattafi (1922-1979), Diego Conticello ha pubblicato L’oltraggio d’una minima stella rugginosa. Viaggio nella poesia di Bartolo Cattafi. Ne presentiamo un estratto relativo a L’osso, l’anima (1964)].

 

Con L’osso, l’anima[1] incomincia quella fase di piena maturità della poesia di Bartolo Cattafi che si concluderà solo con la precoce morte. La spinta analogica dei versi diviene talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni, che celano la verità a chi le osserva.

 

D’altronde, come scrive Giovanni Raboni,

 

[…] non c’è, in Cattafi, trascrizione fedele del dato naturale o empirico che non sia scompaginata, ghiacciata, resa «mostruosa» e traslucida dal soffio dell’astrazione e del mito né, d’altra parte, figurazione così assoluta e puramente mentale da non occupare sulla pagina (e nell’onda di rifrazioni che questa suscita) tutto lo spazio che compete agli oggetti reali.[2]

 

Ebbe inizio nell’ombra, in un angolo lontano

dai luoghi normalmente frequentati.

Quando la spora attesa, il virus remigando giunse

alla terra promessa, in qualche

approdo del cuore per mettervi le tende.

[…] Si richiese l’aiuto di amuleti,

di formule inutili, d’auguri

finché l’opera pervenne a compimento.

Indi ebbe inizio una nuova attesa.

 

In questo Inizio la ricerca del vero appare come un’operazione farraginosa, e il poeta ne è consapevole a tal punto da predicare, in alcuni versi, La pazienza generabile solo dalla dolorosa esperienza quotidiana. Non bastano le buone intenzioni per venire a capo della vita, che dispensa ogni giorno la propria dose di “sofferenza”.

 

Dovemmo fare cataloghi

dividere le cose

metterle nel calibro…

[…] I conti non tornavano, le cose

sovente cambiavano colore,

consistenza, sapore, dimensione.

A occhio allora scegliemmo,

a fiuto, fidando dell’istinto.

I risultati non furono migliori.

In ogni caso ci volle sofferenza

la pazienza che logora la polpa

perché l’osso risplenda.

 

Talvolta però subentra l’ansia di una conoscenza ‘a qualunque costo’, e allora questi buoni propositi vengono accantonati; il poeta così aggredisce l’ignoto in cerca di una risposta immediata ed esaustiva. Rileggendo qui Metodologia viene immediato pensare al clima lombardo della Quarta generazione di cui faceva parte anche Nelo Risi.

 

Inutile farla lunga,

girarla, rigirarla

allo spiedo, al rovello

dell’attenta osservazione,

l’analisi, la sintesi,

i discorsi sul metodo.

Si muore dalla noia.

C’è un modo d’aggredire la questione:

col coltello.

*

C’è gente che ci passa la vita

che smania di ferire:

dov’è il tallone gridano dov’è il tallone,

quasi con metodo

solidi applicati caparbi.[3]

 

Cattafi si inserisce in questo ristretto milieu poetico in maniera garbata, svettando poi per consistenza etica e risultati espressivi sugli stessi esponenti milanesi.

In queste poesie scompare progressivamente il ricorso al descrittivismo, lasciando campo aperto ad un procedimento di intellettualizzazione che si focalizza piuttosto sul substrato di ogni ‘particola’ affinché, mostrandone il funzionamento interno, si possa dar conto del fenomeno esteriore. Questo è davvero un passo decisivo per la poetica non solo di questa raccolta ma dell’intera produzione cattafiana. Scemata la consistenza dell’oggetto, se ne perdono solo le qualità fisiche; la poesia ne guadagna in spirito sintetico ma anche in termini di oscurità dei significati. Questo non è necessariamente un difetto, essendo il sintomo della grande potenza iconica che s’intende affidare alle cose; esse ora lievitano al grado di emblemi, di puri significanti che trascendono la realtà, motivandola. Non ci troviamo dunque al cospetto di un banale scetticismo ma, come fa capire Paolo Maccari, di fronte ad un «radicalismo esistenziale e intellettuale che, frustrato e rientrato, si traduce in sgomento»[4] (Da qui non puoi).

 

Da qui non puoi vederlo

devi ancora salire

o scendere gradini:

rotola perduto,

spinto da qualche vento sulla sabbia

sull’acqua trascorsa

della tua clessidra.

Intanto ami, abbracci, ignori

perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo

avverti un’ambigua rigidezza.

Non sai ch’è morto e ignori

l’anima aguzza, d’acciaio,

che ti scruta e attende

il come il quando il dove.

 

Se un’inclinazione al narrato esiste (come accade in Un 30 agosto), di certo è ancillare rispetto alla scintilla negativa che fa scattare la combustione dei sentimenti, con una cornice quasi sempre antitetica alla cieca mostruosità dell’evento.

 

Si vide subito che si metteva bene:

eventi macroscopici nessuno,

il sole ad un passo da settembre

diede la prima razione

alle isole di fronte,

il mare mandò lampi di freschezza,

il caldo soltanto fra tre ore,

un immenso celeste, ancora un giorno

per l’uva e gli altri frutti di stagione,

tra i pochi rumori di paese

l’ossigeno sibilando disse

di non farcela più con quel suo cuore.

Di primo mattino la morte di mia madre.

 

Mai conciliato col proprio lato spirituale, anzi sovrastato da un istinto sempre in lotta col ‘peccato’, Cattafi risente di un pesante senso di colpa che, indomabile e ferino, gli grava addosso (ci riferiamo senz’altro ai versi de La bestia):

 

E come fai a sapere a prevedere

che se affondi il braccio

in un’acqua di pretto celeste

scatta su dal nulla

con tumulto di bolle l’immonda

bestia che ti azzanna

e per sempre ti avvince il braccio.

Dolcemente golosa del tuo sangue

dovrai nutrirla nasconderla coprirla

con la manica della giacca.

 

Cedute per un attimo le spesse barriere del pensiero critico, il poeta ritorna fragile creatura che si affida – inerme – nelle mani dell’entità divina (Oggi).

 

Oggi ignorando tutto

di questo giorno,

se d’Avvento o Passione,

ignorando i colori, le pianete,

m’inginocchio nella tua casa

sotto la tenda che portiamo ovunque

per aprirla per chiuderla a tua offesa,

aprirla ancora, nei boschi

in fuga, su secche, su frangenti,

dal capolinea a un punto della corsa.

Non frugarmi, non chiedere.

Tu sai il perché d’un labbro

che tremando si sporge più dell’altro.

Accoglimi.

Assieme ai pesci guizzanti all’ingrasso

nell’acqua del Giordano

nella tua conca di marmo,

ai due cani

ringhiosi clandestini

che baruffano nell’angolo più buio

della tua navata.

 

L’io poetico dunque brancola nel buio, talvolta è finanche perseguitato dagli eventi; c’è uno stato di cose che sembra ‘congiurare’ a suo danno. Nel frattempo la sensazione di leggerezza, data dallo schiudersi di un barlume di verità, si rende via via meno percettibile, relegando il poeta in un limbo da cui è pressoché impossibile evadere. Cattafi talvolta ci appare quasi vittima di sé stesso, sperso com’è «nei tetri labirinti della materia»[5]; in Come vanno le cose, tenta allora di riaprire la valvola di questo pensiero critico, nella speranza che ciò gli giovi.

 

Ti spiattello in faccia

come vanno le cose:

vanno male.

Benché abbia perso lo spirito e la lettera

della fede in quella

sfera che tu conosci,

sono ancora inquieto.

Non mi tornano i conti, le misure, il modo

che ha il mondo di girare.

Ti faccio l’esempio dei consunti

oggetti: i caldi i cogniti

compagni delle nostre stanze

con qualcuno congiurano a mio danno,

mutano volto,

stranieri appena giunti a questa soglia,

allusivi e furbi…

[…] E la foglia caduta

che un giorno colsi col piede e feci mia

s’è staccata,

mi svolazza intorno mi rinfaccia

un corpo pesante

il passo del mio piede.

 

In tal modo tutta la poetica sottesa a L’osso, l’anima si risolve

 

[…] in una sorta di astrazione oggettuale simbolica e metafisica, che presuppone l’estenuante lavorìo di composizione, scomposizione e ricomposizione, mediante la scrittura poetica, di un reale deflagrato, per ricavarne, estraendola dai vortici di un mondo ridotto in disordinati frantumi, una scheggia di verità sul senso del grumo di atti e attimi errabondi – l’effimero destino di cometa – in cui si coagula l’avventura esistenziale dell’uomo nella realtà e nella storia.[6]

 

Avanti, sputa l’osso:

pulito, lucente, levigato,

senza frange di polpa,

l’immagine del vero,

ammettendo che in questo

unico osso avulso dal contesto

allignino chiariti, concentrati,

quesiti fin troppo capitali.

Credo che tu non possa

farcela; saresti

cenere nella fossa,

anima da qualche parte.

 

Ma sondare dentro il ‘vero’, alla fine, diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale. Non per questo Cattafi intende rinunciare, anche se un silenzio poetico, durato ben sette anni, lascia pensare che una resa, seppur parziale e provvisoria, è stata ad un certo punto avvertita come necessaria, quantomeno per riordinare le idee in vista di una nuova battaglia contro l’inconoscibilità del mondo.

 

[1] L’osso, l’anima. Milano, Mondadori 1964; poi in Poesie 1943-1979 (a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni). Milano, Oscar Mondadori 2001; ora in Tutte le poesie (a cura di Diego Bertelli e con un’introduzione di Raoul Bruni). Firenze, Le Lettere 2019.

[2] Giovanni Raboni, Introduzione a Poesie 1943-1979, cit., ivi pag. X.

[3] Cfr. Nelo Risi, Sotto i colpi, in Pensieri elementari. Mondadori, Milano 1961. Si noti inoltre l’uso del trittico di aggettivi, formula questa molto frequente in Cattafi, quasi al punto da diventare la sua cifra stilistica distintiva.

[4] Paolo Maccari, Se la mano non trema: una lettura de “L’Osso, l’anima”, in AA.VV., Viaggio verso qualcosa di preciso. Percorsi della poesia di Bartolo Cattafi (a cura di Dario Tomasello). «Polinnia». Firenze, Olschki 2005, pag. 65.

[5] Franco Pappalardo La Rosa, Lettura di Cattafi. Torino, Edilibri 1990; poi ripreso col titolo Il viaggio misteriosofico di Bartolo Cattafi, in Lo spec­chio oscuro. Piccolo, Cattafi, Ripellino. Alessandria, Edizioni dell’Orso 2004, ivi pag. 86.

[6] Ibidem.

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