di Gilda Policastro
[Questa recensione è uscita su «Il dubbio» del 28 gennaio 2018].
Pochi scrittori come Annie Ernaux sanno trasformare una vicenda empirica in narrazione epocale, rinunciando ai trucchi catchy dell’autofiction («mi chiamo Walter Siti come tutti», celeberrimo incipit di Troppi paradisi, capostipite del genere in Italia) e senza provare a trasformare in revival quella che è, e resta, una scrittura esistenziale (se non analitica o intimista). Eppure, come già ne Gli anni, anche in Memoria di ragazza non abbiamo l’impressione del disvelamento di un segreto, ma della riapertura di un’anta memoriale che tutti ci riguarda. O che riguarda, sul piano della microstoria, il transito dalle forme di vita degli anni Cinquanta ai Sessanta e, sul piano esistenziale, il passaggio dalla giovinezza alla maturità («come bisogna comportarsi? Da soggetto libero»). Passaggio che riguarda principalmente, qui, una donna, ma anche tutto ciò che la circonda: le abitudini, i vestiti, gli uomini, le amicizie, le classi, i consumi, le mode, in una parola il tempo. Il miracolo riesce attraverso due espedienti, che ormai costituiscono la cifra riconoscibile di questa scrittura, almeno da quando la traduce in italiano Lorenzo Flabbi per i tipi de L’Orma. Innanzitutto i piani della narrazione che costantemente s’intersecano, anzi si sovrappongono: il tempo della vicenda raccontata, in questo caso l’estate fatale del ’58, in cui Annie diventa donna, e il tempo della scrittrice attuale che ha raccolto le memorie, anzi, la memoria. Una, perché funzione della conoscenza, sua «forma» (ma anche falsificazione, in qualche modo, se tutto ciò che si narra è al contempo «vissuto e immaginato»). L’altro elemento ricorrente sono le foto: la donna del 2016 (quando Mémoire de fille esce in Francia) si rivede nelle immagini passate senza l’indulgenza o la compiacenza con cui di solito riprendiamo in mano gli scatti di gioventù. L’autrice di oggi è pronta a evidenziare i difetti, le goffaggini, gli anacronismi della «ragazza del ‘58», rispetto alla quale il ritratto che ci restituisce il libro nel complesso risulta ancora più impietoso che nella singola ekphrasis («Non appianare nulla. Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata»). I fatti si riducono a poco materiale: l’estate di S, quando la protagonista riceve per la prima volta un incarico di lavoro e si reca presso una colonia in qualità di educatrice (presto declassata a segretaria, per la sua evidente insipienza didattica); c’è poi il periodo della scuola magistrale, dovuto all’ equivoco di un insperato successo scolastico; infine il periodo londinese, in cui l’attesa dell’università viene vissuta come una vera vacanza («la domenica della vita») in spericolato sodalizio con l’amica R («senza i maschi ci divertiamo un mondo»). Ma chi è la ragazza del ‘58, e perché ci appassioniamo alla sua storia, se è la sua? E non basta che sia una storia di Bildung, che l’esito sia la consapevolezza di donna e la maturità dell’autrice («questo sarebbe quindi il racconto di una perigliosa traversata fino al porto della scrittura»): ripetiamo, perché dovrebbe interessarci, una vicenda singolare?
Annie Ernaux riesce nell’impresa letteraria difficilissima, quasi impossibile, di far rivivere l’estate delle fanciulle in fiore, e cioè l’episodio decisivo, per l’auctor-agens, della Recherche proustiana (citata esplicitamente tra i libri non ancora letti, quando l’Annie narrata si sottopone a una specie di esercizio di intermittenza tornando sul luogo del diletto, ovvero il collegio della prima estate adulta). Della piccola banda che attirava Marcel nei suoi soggiorni a Balbec, di Andrée, di Albertine, Annie ha la sfrenatezza, la scarsa voglia di sottostare a quei vaghi principi di distinzione di genere o sociale che ha passivamente ricevuto o introiettato (primo fra tutti «l’inaccessibilità» femminile). Ed eccola, la scena madre (anzi la scena della negazione, del rifiuto della madre): è stesa accanto a un uomo nudo, che non riesce a penetrarla. Lei ci mette tutto l’impegno, determinata a sperimentare non il piacere e il godimento ma la sottomissione, in una specie di desiderio triangolare che prevede una sé stessa disincantata o disincarnata tenuta lì ad assistere. Colei che si vede come oggetto di piacere non desidera altro che sdraiarsi nuovamente accanto a H, che da quella stessa notte, invece, si prenderà gioco di lei, per lasciarla alla fine crudelmente in attesa davanti alla porta chiusa: rovescio del topos antico, il paraklausithyron, in cui a struggersi era solitamente un amante (maschio). La Ernaux di oggi sembra sollecitata soprattutto dalla riscoperta di questa sconcertante evidenza, di non aver saputo sottrarsi all’umiliazione in nome di qualcosa che la trascendeva, e questo qualcosa era un desiderio più forte della stessa reputazione (di «puttana della domenica», com’era stata etichettata dai compagni). Umiliazione protratta, consapevole, perché a doversi formare non è una donna convenzionale, ma una donna che scriverà, raccontando come l’unico tempo felice sia «quello in cui si sa di esserlo». Una menzogna esibita, una falsificazione romanzesca: eppure le crediamo e a ogni errore o deviazione della «ragazza» non ci sentiamo di compatirla ma di ammirarla, come si fa con gli scampati a un qualunque naufragio, di cui pensiamo che siano dei fantasmi, e però vivissimi. Con le parole che Ernaux mutua da Nietzsche: «abbiamo l’Arte per non morire di verità».
Devo dire che le ultime recensioni di Gilda Policatsro, che nel caso di Ernaux come di Houellebecq schivano l’ideologia di superficie per arrivare alle forme profonde, sono un vero toccasana