di Eugenio De Signoribus

 

[In questi giorni è stata pubblicata da Giometti & Antonello una nuova edizione di Case perdute (1986) di Eugenio De Signoribus. Rispetto alle precedenti edizioni, il volume a cura di Francesca Santucci amplia e riformula la struttura del libro e ospita i saggi di Simona Morando e Massimiliano Tortora. Pubblichiamo un estratto dalle sette sezioni di cui si compone il libro.]

 

da Casa perduta (1976)

 

 

IV

 

e questa è la stanza buona

da abitare la domenica!

 

oltre quelle finestre

chiuse coi loro tarli tenaci

non c’è beltà che tenga

non c’è sirena

 

(dubito? affermo?

chi vuoi si prenda pena

dei miei flussi d’amore?)

 

ma sì, che resti questo odore

di buio canforato

denso come cent’anni

di respiri non dispersi

 

(che anno fu quell’anno

che fece tanta neve?)

 

V

 

qui, non visto, potrò stare

sopra la folla meccanica

nell’avantindietro senza sosta

àugure dal corpo d’uccello

 

e all’accommiatarsi d’ogni dì feroce

io senza sosta potrò prendermi la notte

e studiarne i buchi neri del consistere

in attesa di segnali luminosi

 

(ma voi, cerco di ricordare, barlume

che s’incugna nella testa,

le vostre facce, dico, non mi sono

nuove né molto liete le vostre parvenze!…)

 

*

 

da paternali (1980)

 

(figlio-padre)

 

sprizza dalle lenti

la più molle affezione – un boccone

al padre tuo nei cieli e uno

a te boccuccia cavernuccia

apriti aaahm! – (la vita)

sanguigna ballerina la bocca

fauce fornace trabocca

di suoni regressi (non cambia)

giace col fantolino lo guarda

dormire ne ascolta il respiro

lo respira lo scalda lo accalda

ne asciuga il sudore lo palpa

lo misura preso in premura

a recuperare alla coscienza

il giro mancante della spirale

 

(e al di là di questo turbamento

egli non vedeva altro che primavere

rotolare una sull’altra quasi

a punire quell’attimo d’identità

e di appartenenza, e il duetto

di baci e suoni inarticolati

nel medesimo istante diventava sordo

e di sapore mortale – dunque

in questo tempo non è possibile

neppure la gioia più elementare? –

si chiedeva bruciando le residue forze

nel riavvolgere le bianche primavere

per ricondurle al loro principio semplice

filtrando solo il vello della rosa

e la fragranza del borotalco)

 

*

 

da figure figuri figurine (1977-1982)

 

(sparolaio)

 

lo sparolaio, l’onnisciente

di ogni tema-parola, sa

da nascita a morte

da dio diavolo a sorte

 

il sapiente, il verbaiolo

mette sempre il suo tappo

ingurgita spazio e aria

il mai sazio ingorgaiolo

 

e striglia e scriviglia

senza scampo e nesso

né capisce l’inciampo

il buttafuori di se stesso

 

*

 

da bestiali (1981-1985)

 

(chiosa pietosa)

 

rospo, amico mio, svistato

nella macchia vicino a sora acqua

mi guardi fissamente, giustamente

mi temi, immobile, forse tremi

 

hanno gonfiato i tuoi fratelli

con la pompetta della bicicletta

come una camera d’aria

fino a farli scoppiare

 

gli aguzzini, tra risa

si torcono nel nulla

li calciano a palloni

si reggono i testoni vuoti

 

per la stura del ridere

lacrime di segatura

 

povero rospo, per un caso nascosto

alle bestie umane

le sole vere, i kapò dei fossi

i padroni del lager animale

 

ti vorrei consolare, trattengo

la collera nel gonfiore-pudore…

 

ma non so dove spostarti

né che devo fare di me

 

*

da l’acqua

 

III

 

inutile fermare i cadaveri scorrenti

in proprio l’acqua decide un punto di raccolta

una fessura mai rimarginata

una conchiglia abbandonata nel terrore

o il fondo d’una bottiglia senza messaggi

 

l’acqua si ricompone in fretta

anche in un territorio non suo

non strapazza il corpo indifferente dell’agrimensore

la calma antelucana trascina lenta i tronchi

e sopra il picchio si spiuma un po’ assonnato

 

*

 

da minima vocalia (1981-1984)

 

(festa)

 

Il tuffo nella festa è utile per provare se si è in grado di nuotare tra gli altri, gli sconosciuti in quella libertà. Cioè se si è in grado di dimenticarsi della morte.

La società festiva ne rappresenta il nascondiglio ideale, il più lontano. Lì il tepore, l’incrocio dei corpi e delle parole, la trasgressione la danza la maschera, sembrano rimuovere il mortale, dimenticare la nascita… Ma, anche nel lieve spumeggiare dell’eccitazione o nei momenti sublimi, la spinta all’emersione è sempre in agguato. Essa si manifesta con un’improvvisa pena, una mancanza d’aria e d’appoggi, un rigurgitare verso la terraferma dei pensieri…

Appena fuori, la festa diventa un film allucinato sulla festa e il suo suono apparente, rumore.

E il tutto, colpa.

 

*

 

da gridelle notturne

 

(la matrigna)

 

feconda solo per doglia

è la notte nottambula e ossuta

 

stuprata madre nel cui grembo liquido

cresce come un tumore la pena

 

altro ci vuole per nascere intatti:

un caldo sicuro una morbida luce

 

per conquistare un concetto per intero

e mantenere un desiderio fino alla fine

 

e poi una chiara geometria mattutina

che sfidi il continuo dolo dell’ombra…

 

crollate al peggio anche le mura

concesso tutto al consacrato niente

 

resta il respiro d’una linea

che fedele nei vuoti cieli si tende

*

Simona Morando

Una questione di fedeltà

La nuova configurazione di Case perdute suggerisce un’aggiornata lettura del libro che tenga conto almeno di due fattori. Il primo concerne il recupero e l’accoglimento, all’interno del libro, che modifica la sua struttura appositamente, di singoli testi e sequenze datati variamente tra il 1980 e il 1985 ed esclusi dalle due edizioni originarie (1986 e 1989) e dalle successive. Il secondo fattore richiede invece di ragionare sull’utilità (parola da leggersi in senso aristotelico) di una nuova edizione di questo percorso d’esordio di De Signoribus nella storia dell’oggi, al cospetto del paese che l’Italia è diventato. Perché di questo si tratta, quando ci si trova dinnanzi ad un nuovo libro di De Signoribus: bisogna capirne la reattività rispetto alle «cronache» in cui si va a collocare.

 

Cercheremo, Massimiliano Tortora ed io, di avvicinare una risposta a queste domande. Cominciando, per quel che mi riguarda, dalla lettura della nuova struttura del libro che così modificato si propone, poiché l’organizza- zione del percorso è per il poeta un suggerimento per la sua interpretazione. È infatti un dato palpabile che Case perdute, come si propone oggi, diviso in sette parti, riformuli completamente la percezione del libro come era proposta nell’edizione Garzanti 2008 e poi nella traduzione in francese, sostanzialmente tripartita, fatti salvi, in entrambi i casi, il proemio (le foto mai dicono il vero) e il congedo (ritorno), adesso intitolato (altro ritorno).

 

La nota al testo di Santucci fornisce piena informazione sulla revisione. Qui preme commentare come l’anticipazione di paternali (1980) che affianca casa perduta (1976) nell’esordio del libro renda più evidente l’associazione tra il tema della casa, con tutto il suo portato semantico, e quello della paternità, entità famigliare ma anche legge sociale. Così vicine, le sequenze si stringono anche intorno a elementi linguistici riconoscibili: diventano eloquenti sia la deissi iniziale di paternali – «non uscite da qui» – per cui qui coincide con la geografia della casa-trappola della prima sequenza, sia l’immagine, metaforica e concreta, del muro che accomuna questi capitoli e che tracima nei successivi.

 

Così strutturato, il movimento del libro si fa molto più coerente narrativamente, definendo un interno, la casa abitata dal padre, appunto, nella prima sezione, e poi uscendo al di là di quel «muro» con week-end verso un deserto spettrale. Da subito, così, definisce anche la lingua, che è la protagonista dei libri di De Signoribus e qui assume connotati fondativi. È una lingua radicata sia nella concretezza locale e nel lessico famigliare, sia nella solidità delle memorie poetiche (Giudici, Sereni, Caproni, per dirne alcuni) e nei frequenti prelievi evangelici e biblici; viene vivacizzata dal ricorso espressivo al discorso diretto, all’onomatopea, all’uso insistito delle parentesi che indicano l’accumulo delle voci, degli a-parte, e distinguono, secondo le interpretazioni e in un’ottica di teatralizzazione della lettura, tra il detto e il taciuto. Questa lingua è al servizio di un immaginario deformato, grottesco e violentemente comico che non lascia alcun margine di affaccio alla lirica.

 

Il senso del libro ruota intorno alla perdita della casa che non è solo il centro dell’io poetante, il nido impossibile degli affetti, ma anche la casa comune, il Paese. La crudeltà che emanano i gesti e le immagini dicono del piombo di quegli anni, poi trasformatosi nel ferro di un’età perdurante. Spie, traditori, trappole, trabocchetti, mura suggeriscono una severa «claustrofilia», ben diagnosticata da Remo Pagnanelli, dedicatario di Case perdute dal 1989 ad oggi, all’altezza dell’edizione parziale del 1986 (si legge nei suoi Studi critici, Milano, Mursia, 1991, pp. 193-195). Al disegno della casa e della legge sociale paterna, fa seguito infatti un elenco di «figure» e «figuri» che costellano il libro con il loro carico di drammatica precarietà e inadeguatezza rispetto al tempo storico. Nella settima parte, prima del dichiarato congedo, la trama della sequenza mobilità ed altre ironie fa spazio a (la musicante) e (la plateale) approfondendo la resa spettacolare della lingua, in questa versione del libro più palpabile.

 

Rispetto a questo quadro, le bestiali introducono un parco bilanciamento rispetto all’efferatezza descritta. La prospettiva delle lucertole è quella di scrutare il buio trovandoci un senso, quella del rospo è di cambiare direzione, tutto «massa cerebrale / con occhi e zampe», i lombrichi producono musiche sacre dalla poltiglia in cui scavano: direttamente piovute da un immaginario antico di favola morale, questi animali rappresentano un controcanto creativo e positivo, passibili di empatia da parte dell’io poetante che chiama «amico mio» il rospo appena scampato dai giochi crudeli delle «bestie umane», anche se non è certo di poterlo salvare, né di poter salvare sé stesso. Col pianto dell’asino e la pietà per il rospo, il poeta inocula la compassione per gli indifesi, su cui poi si costruirà l’utopia dei libri successivi. Ma non qui. Parallelamente, l’inserimento delle strofette di pratiche licenziose con la loro festa della lingua, i giochi di parole rotolanti come palline colorate, offrono una diversa via di fuga rispetto alla claustrofilia di cui sopra. A proposito della casa, ad esempio: «a forza di salire nella casa / di pena o zigguretto s’arriva / al tetto tegolaia dove sagoma / s’imbarbica e smiccia sotto / e chiama». La collocazione pone infatti le pratiche licenziose proprio prima delle fughe (parola da leggersi in senso musicale e letterale) e il verbo «smicciare», uno dei più distintivi di De Signoribus, si trova proprio anche in fughe, attribuito ai «giovani autodidatti». È il verbo che indica lo sguardo di sottecchi proprio di chi osserva senza farsene accorgere: è lo sguardo dell’innocente e del giusto che non può affrontare a viso aperto gli occhiacci delle bestie umane, ma sorveglia, spia, scruta la situazione (quella che diventerà in Istmi e chiuse «la sghemba orrenda faccia del mondo») pronto al «salto» salvifico. Che però, ripeto, qui non si prospetta. Il film del libro, ché tale è la tessitura delle immagini, è soprattutto ingombro di morti, cadaveri nell’acqua, corpi ansimanti come in una battuta di caccia. A questo punto, l’inserimento delle prose o quasi-prose di minima vocalia, effetti di un «vocalizzo interiore», di una «affabulazione», fanno registrare due necessità: l’una formale, l’altra tematica. L’accoglimento della prosa in Case perdute rispecchia infatti più fedelmente il laboratorio del libro e intorno al libro. Abituati come lettori a trovare versi in continuità con i «nonversi» da Istmi e chiuse in poi, vale anche qui ciò che il poeta giustificava nella nota di Principio del giorno (2000): «la varietà formale […] rispetta la verità, il suono e il respiro, delle situazioni». Siamo però alle sorgenti del fenomeno, laddove è importante scrutare soprattutto la fabbrica della lingua, più acuta e sperimentale in questa variante di «respiro». Sul piano tematico, minima vocalia esibisce altri corpi pallidi e l’eco di una strage da esplosione, così come il tormento del figlio «incasato-incarnato» che non comunica col padre (e si torna, in cortocircuito, alla prima sezione). C’è anche «l’ingannevole idillio» dei «rari amici», su cui poi De Signoribus costruirà il fortino umano della sua «stornella utopia» di Altre educazioni. Tuttavia, nello stravolto intrigo della storia, l’idillio non si consuma ancora.

 

[…]

 

Una persistente necessità: etica, stilistica, politica

di Massimiliano Tortora

Nel 1971, dopo quindici anni di silenzio, Eugenio Montale pubblicava Satura, raccolta con la quale mandava in pensione la poesia del «grande stile», travolta dalla volgarità di un mondo delle merci, sempre più ingovernato e ingovernabile. E il fatto che proprio il poeta più modernamente classico del Novecento, che di lì a poco sarebbe stato addirittura insignito del premio Nobel, dichiarava pubblicamente la sua resa (messa letterariamente in pratica dalle raccolte successive) era il segno di una potenziale fine di un’epoca. La successiva morte, nel 1981, doveva pertanto acquisire anche peso simbolico, e in qualche modo decretare la fine della poesia: o almeno di quello che si era sempre ritenuto poesia. Come è noto quell’epoca poetica non si spegne con Satura, né con Montale, ma a fronte di una barbarie e di un’incultura sempre più massive ed evidenti, ha continuato ad agire con implacabile persistenza. Il testimone del «classicismo moderno» infatti, sia pur variamente declinato, è stato raccolto da chi, poco più giovane di Montale e dunque suo fratello minore (o erede se si prediligono le genealogie), ha cercato di trovare il punto di equilibrio tra volgarità contemporanea e registro poetico: il riferimento è a Sereni, a Caproni, a Giudici, solo per citare alcuni tra i vari nomi possibili.

 

Nel frattempo, mentre i suddetti padri poetici pubblicano Stella variabile (1981), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Il franco cacciatore (1982), negli anni Ottanta si affaccia una nuova generazione di poeti, che fa i conti sia con la tradizione (salvando tutto ciò che è da salvare) e sia con il mondo contemporaneo (contaminandosi, aggredendo, distaccandosene). Tra questi si impone il nome di Eugenio De Signoribus, che a più di trent’anni dal suo esordio editoriale, è oggi a tutti gli effetti un classico della poesia italiana.

Case perdute (dopo un’anticipazione nell’’86) esce definitivamente in volume nel 1989, per Il lavoro editoriale di Ancona, e raccoglie testi scritti a partire dal 1976 fino a tutta la prima metà degli anni Ottanta. Un periodo, quello dei primi anni Ottanta, che vede la fine dell’impegno politico (e di pari passo degli intellettuali), la pagina più efferata, cupa e irrazionale del terrorismo, l’ascesa dell’edonismo, il mito del benessere, del denaro, delle merci, la marginalizzazione della cultura (se non nelle sue forme evenemenziali, ossia grandi iniziative di grande impatto per il grande pubblico: insomma grandi e quantitative, non certo qualitative).

 

In questo clima anche la letteratura retrocede con incoscienti forme di autoesilio, sospese tra fughe in avanti iperletterarie, e irresponsabili abbassamenti al di qua di qualsiasi condiviso registro stilistico. All’interno di questo clima, invece, Case perdute si contraddistingue subito come un libro che da un lato si oppone allo spontaneismo che pure aveva avuto una sua fortuna negli anni precedenti (come se scrivere poesia fosse un’istintiva esternazione dei propri stati d’animo) e dall’altro rifugge lo sperimentalismo più esibito, che finisce per far luce più sul mezzo poetico in sé (e l’ipotetico estro di chi lo elabora) che non sull’oggetto del testo. Case perdute, insomma, si colloca lungo l’onda lunga del classicismo moderno menzionato all’inizio di questo intervento, nella convinzione che la poesia – anche nel pieno degli anni Ottanta – possa avere ancora un suo diritto di cittadinanza: un diritto che può essere rivendicato senza dover abdicare al proprio specifico statuto poetico. E del resto la riflessione metaletteraria – intrisa di una venatura civile e politica che non è mai venuta meno nella pagina di De Signoribus – è uno dei nuclei di questo fondamentale libro di fine Novecento.

 

A rileggere di seguito i testi che compongono la raccolta uscita nell’’89 non si fa fatica a trovare plurime espressioni che denunciano – in diretta, qua- si in forma di drammatica «cronaca» o «cronica» – il degrado contemporaneo: il «verbiloquio contemporaneo», che trova spazio nel «giornale che annera le dita», nella «tv fuligginosa» e nelle «migliaia di pagine premasticate» (anche letterarie), costruisce «i fasti / del falso e del ciarpame»; altro che «un’andatura «civile»», citata in (homo) in senso antifrastico. E sono proprio queste «parole decomposte» a creare una «folla meccanica» incapace di avere un qualsiasi contatto con la vita vera e con le esigenze più intime e sincere: «dunque / in questo tempo non è possibile / neppure la gioia più elementare – ». A tutto ciò si aggiunga la schiuma di notizie sul terrorismo (che informano tutto fughe e la recita), e una borghesia che ha perso ogni sua forza civile, come dimostra «una mano di bianco ai fatiscenti / salotti», abitati – potremmo dire – da «troppi inquilini / affaccendati aguzzini…».

 

Eppure non tutto può essere perduto: «che qualcuno si decida a uscire / da questo incubo!». Si rende necessaria, come dichiara uno dei testi più antichi della raccolta (1976), almeno un minimo di pulizia:

 

un letto povero strutturalmente

possibilmente comodo
un catino? va bene

ma che sia l’acqua pulita!

il cesso? non importa
ma c’è la carta igienica?

 

Quest’opera di pulizia morale ed etica può partire dalla letteratura. Del resto se a essere deturpato è il linguaggio, la poesia – che con le parole ci la- vora – si offre come un antidoto ai corrotti tempi moderni. Non è un caso che nella sezione week-end le tracce di vita di un luogo ormai morto e disabitato vengono ricercate proprio nel linguaggio; e non nel linguaggio ordinario, ma in quello meditato e con tasso figurale e retorico; poetico potremmo dire:

 

se mai c’è stata anima viva

uso figura lessico
se mai questo luogo è stato

abitato davvero…

 

Case perdute oppone al «ciarpame» linguistico (e dunque culturale, politico e morale) una parola precisa che è capace di abbassarsi di registro quando intende svolgere una funzione mimetica e di denuncia, e che si ispessisce di figuralità quando invece esercita la sua forza oppositiva. E l’immagine più evidente, che guida tutta la raccolta, è naturalmente quella della casa. È vero che si tratta di Case perdute, nelle quali ormai manca anche il «cesso» e forse anche la «carta igienica», ma di queste case si ha ancora memoria per poterle rimpiangere, e dunque riconquistare; o almeno tentare di farlo. È una sorta di Sehnsucht, di un luciferino barbaglio del passato – come diceva Lukács nella Teoria del romanzo – che spalanca le porte della nostalgia. E questa nostalgia – in un circolo tragico e virtuoso – spinge a ricercare il senso perduto.

[…]

 

[Immagine: Luigi Ghirri, La casa di Lazzaro Spallanzani, Scandiano, Modena (serie “Viaggio dentro un antico labirinto”), 1985].

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