di Marco Viscardi

 

Premessa. Chi scrive non è un musicista o tantomeno un musicologo o storico della musica. A dire il vero non è neppure intonato, ma ha un grande amore per Gioacchino Rossini e il suo mondo. Come succede con le cose e le persone amate, non le conosce nella loro totalità, ma ci torna spesso col pensiero. Questo è il frutto di una vacanza fatta ascoltando molto Rossini. Non so quanto le cose che scrivo siano originali e quanto non le abbia rubate ad altri. Questa premessa valga anche come dichiarazione di onestà, perché attribuirsi volontariamente idee d’altri è scorretto, farlo involontariamente espone al ridicolo. Chi legge prenda questa pagina come il divertimento di una estate difficile, scritta con l’intento di divertire e magari diffondere musica.

 

Si potrebbe dire che il romanzo abbia a lungo sofferto della sindrome dell’impostore e che, sentendosi disagio a mostrarsi per quello che era, presentava al lettore premesse, introduzioni ed altri scritti che, pur restando sulla soglia del testo, gli permettevano di riflettere su di sé: di legittimarsi dal punto di vista della rispettabilità. Attraverso la riflessione, il romanzo tentava di farsi prendere sul serio. Sono spesso capitolo splenditi, interessanti, sorprendenti.

La più nota di queste prefazioni è quella ai Promessi Sposi, ma qui interessa quella di un romanzo storico oggi dimenticato che a discapito del titolo un po’ buffo, era l’opera seria di uno scrittore alla moda: parlo dei Prigionieri di Pizzighettone [1829] di Carlo Varese.

 

Prima di raccontare la storia di finzione, l’autore conduce il lettore in una riflessione sulla modernità che incentrata sulle opere di Walter Scott e di Gioacchino Rossini che solo, secondo Varese, i due capisaldi di un’arte nuova, contrapposta ai vecchi sentimentalismi di maniera – la si può leggere, messa in apertura di un altro romanzo di Varese qui).

Rossini e Scott sono stati capaci di comprendere la natura frenetica, impulsiva del loro tempo e di contenere questo tempo dentro una forma artistica. Entrambi, dice Varese, mantengono il movimento: sanno riprodurre il corso inarrestabile e furioso delle esistenze, senza mai cedere alla tentazione degli stereotipi, ma ritraggono l’uomo senza astrazione, nella sua complessità dove la grandezza e la mediocrità si mescolano dando luogo a profili unici, irripetibili. Figli di un secolo che aveva esplorato i sentimenti più teneri e disperati degli esseri umani, Rossini e Scott raccontano però un mondo di adulti. Se «Il Werther di Goethe può formare la delizia di un giovinetto di diciott’anni, il Jacopo Ortis, le Notti di Young possono far l’ammirazione di qualche entusiasta di quattro lustri; ma il genere è falso: egli esce evidentemente dalla natura: non può vivere a lungo. Perdoniamo dunque al Rossini di aver onninamente sbandito dalle sue composizioni i modi lagrimosi, che non furono mai quelli della verità».

 

La verità è fatta di uomini e donne che operano e non piangono. Gli eroi stanno sulla scena, nei libri, fra i versi. Quello di Scott e Rossini era invece un mondo saldo, fatto di cose concrete, di rapporti di forza, di potere desiderato ed esercitato. Tutto si può conoscere e capire, da tutto si può trarre guadagno, basta superare la soglia e lasciarsi alle spalle i fantasmi eroici dell’adolescenza. C’è sicuramente un tempo per amare Werther e Ortis, per perdersi nelle notti sepolcrali dei poeti inglesi, ma poi si scopre che il mondo non è un cimitero, è un animalaccio ansimante, feroce, spiritato che non può essere affrontato con delicatezza.

A questo mondo oscuro Rossini dà un’anima. Lui che è stato a suo agio sia durante il regime napoleonico come nella restaurazione borbonica di Napoli e di Francia. Il grande apolitico che celebra i momenti della vita conservatrice, come dimostrano i titoli delle sue cantate: Pel faustissimo giorno natalizio di Sua Maestà il Re Ferdinando IV, nostro augusto sovrano; Omaggio umiliato a Sua Maestà dagli artisti del Real Teatro S. Carlo, in occasione di essere per la prima volta la M.S. intervenuta in detto Real Teatro dopo la sua felicissima guarigione nonché La santa Alleanza e Il vero omaggio….

 

Ma nel suo teatro scompare questo mondo codino e ottuso! Il suo teatro racconta le smanie di un mondo nuovo e in particolare il suo teatro comico, prosaico, isterico. Quando Carlo X diventa l’ultimo Borbone a sedere sul trono di Francia, Rossini gli dedica il più surreale omaggio in musica che mai si sia tributato ad una incoronazione: Il Viaggio a Reims.

E quest’opera assurda, piena di personaggi, traboccante di musica, fissa il momento storico estremo e grottesco di una monarchia che si chiudeva nelle proprie tradizioni, con Carlo X che ancora prevedeva di guarire gli scrofolosi col tocco della mano regale, mentre il mondo era fatto più piccolo dalle ferrovie e dai traffici

In questa confusione, in questa compenetrazione di anticaglie e modernità, Rossini regna. Non come un sovrano assoluto del XVIII secolo, ma come il Napoleone della musica.

 

Così lo chiama, negli anni trenta nell’Ottocento, Giuseppe Mazzini nella sua Filosofia della musica. Forse in molti saranno sorpresi di scoprire che Mazzini, oltre ad essere il politico che conosciamo, ha riflettuto e scritto molto sulla letteratura e sulle arti contemporanee.  Questa Filosofia della Musica è uno dei documenti più interessanti per conoscere tanto il pensiero del grande patriota quanto per scoprire qualcosa su come pensava e quali gusti aveva un uomo, e un rivoluzionario, dell’Ottocento.

Per Mazzini, Rossini è il «titano» che «ha sancito l’indipendenza musicale: negato il principio d’autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l’onnipotenza del genio».

 

Rossini è la forza stessa del genio, forza travolgente, incapace di mezze tinte; forza intenta a dipingere un tipo umano mai messo in musica. Sul palcoscenico, il mondo appariva per quello che era: una sgraziata torre di Babele in cui ciascuno parlava la propria lingua incurante di quella degli altri. E la musica procedeva con una sicurezza allo stesso tempo luciferina e vivifica, terribile e trionfante.

L’edificio ch’egli ha innalzato, come quel di Nembrotte, ferisce il cielo; ma v’è dentro, come in quel di Nembrotte, confusione di lingue. L’individualità siede sulla cima: libera, sfrenata, bizzarra, rappresentata da una melodia brillante, determinata, evidente, come la sensazione che l’ha suggerita. Tutto in Rossini è appariscente, definito, saliente; l’indefinito lo sfumato, l’aereo, che parrebbero appartenere più specialmente all’indole della musica, han dato luogo, quasi fuggenti dinanzi all’invasione d’uno stile avventato, tagliente, d’una espressione musicale positiva, risentita, materialista.

 

Come il gigante Nembrotte, anche Rossini ha sfidato il cielo, cantando la forza e l’intraprendenza dell’Uno, come aveva fatto Defoe e avrebbe fatto Whitman. Mazzini insomma individua in Rossini un momento essenziale dell’identità e della mitologia borghese del suo secolo. L’uomo che ha celebrato l’impresa in tutta la polisemia del termine, dalle accezioni mitologiche a quelle finanziarie.

Mai un dubbio, una incertezza. L’anima borghese costruisce e modifica il reale, non ha tempo per le incertezze del sentimenti. Se il nord romantico è il luogo delle fumose meditazioni, La musica di Rossini è meridionale, dettata da un demone meridiano che conosce solo vocazioni assolute.

Diresti fossero sgorgate tutte dalla fantasia dell’artista sotto un cielo d’estate di Napoli, in sul meriggio, quando il sole inonda su tutte cose, quando batte verticalmente e sopprime l’ombra de’ corpi. È musica senza ombra, senza misteri, senza crepuscolo. Esprime passioni decise, energicamente sentite, ira, dolore, amore, vendetta, giubilo, disperazione.

 

Musica senza misteri per uomini senza ombra: increduli, indifferenti alla trascendenza: «I suoi lavori rappresentano l’uomo senza Dio, le potenze individuali non armonizzate da una legge suprema, non ordinate a un intento, non consacrate da una fede eterna».

In questo racconto di un uomo totalmente terreno e materialista, Per Mazzini, il compositore non è un rivoluzionario. «Più potente di fantasia che di profondo pensiero o di profondo sentimento, genio di libertà e non di sintesi, [Rossini] intravvide forse, non abbracciò l’avvenire». Per Mazzini che da poco aveva fondato la Giovine Italia, l’avvenire non poteva che essere politico, collettivo, interpersonale. L’avvenire era del popolo, ci torno dopo, ma Rossini era il cantore dell’individualismo borghese, della sua prometeica, predatoria, voracità. E per raccontare questo uomo nuovo, illuso della sua onnipotenza, Rossini «mutò, non distrusse la caratteristica antica della scuola italiana: la riconsacrò». Il Creatore riprende tutti i mezzi della tradizione, tutte le forme, i modi e i motivi e li riformula col tocco del genio, quello che era diventa altro, resta familiare ma si trasfigura, si consacra a divinità assai diverse da quelle dell’illuminismo assolutista

 

Il medico, poeta e prosatore, Giovanni Rajberti figura ingiustamente sottovalutata della nostra storia letteraria e intellettuale influente nella Milano di metà Ottocento,  dice in un brindisi a Rossini che la sua musica marcia col tempo dei commerci e dei soldati (ecco il testo).

Il tempo del commercio e dei soldati, il tempo in cui il mondo cammina a passo di marcia, il tempo in cui i soldati avanzano, uccidono, muoiono per i commerci, per l’individualismo feroce cantato da questo diabolico pesarese, amante delle donne, del cibo, della pienezza della vita mentre tutto si faceva confuso e incerto.

Nato in quel giorno fuori registro che è il 29 febbraio e per la precisione quello del 1792, Rossini arriva in questo mondo due mesi dopo che Mozart l’aveva lasciato e sette anni prima che ci piombi anche Balzac. Come il grande scrittore francese, Rossini avrebbe osservato a fondo l’uomo, ma non sotto il cielo basso e nuvoloso di Parigi e della provincia francese, ma alla luce piena del cielo meridionale. Sotto il sole assoluto, a picco sulle teste degli uomini, che sopprime l’ombra ma mostra l’uomo per quello che è: un essere che ha rinunciato a Dio, insensibile alla morale, predatorio nella vita associata.

 

È il cantore di Figaro, come avevano fatto Mozart e Paisiello. Il primo l’aveva rappresentato chino, a misurare gli spazi del suo mondo, del suo nuovo mondo, da costruirsi a discapito delle pretese e delle angherie di una nobiltà che aveva fatto il suo tempo (guardate qui la prima scena del primo atto), il secondo aveva fatto del suo Barbiere un ramingo, un vagabondo per le strade di una Spagna ancora sterminata e cervantina.

Sentite Scorsi già molti paesi qui : quanta felicità in questa musica, quanta pienezza…ma è ancora espressione di un mondo che si diverte alle spalle del villano. Si possiamo immaginare i gran signori nei loro palchi che guardano la scena e si compiacciono davanti a questo bravo barbiere che aiuta un loro parigrado che ha avuto la sciagura di innamorarsi di una ragazza semplice. Ancora ignorano, gli spettatori di Paisiello, che quel borghese mostrerà di lì la sua complessità, il suo carattere onnivoro, violento.

 

La musica di Mozart e quella di Paisiello ampliano lo spazio, permettono all’uomo di abitarlo, il Figaro rossiniano non è solo il factotum della città e anche il burattinaio, si potrebbe ascoltare la sua aria d’ingresso tenendo a mente quello che Marx ed Engels avrebbero detto trent’anni dopo della borghesia europea Forza incontenibile. Nel suo Trattato della vita elegante, Balzac dice che una volta caduto l’antico regime, al mondo dei privilegi per nascita si sostituisce quello dei privilegi per intelligenza. Nessuno dei due è un mondo giusto, nessuno egualitario.

L’orizzonte di Figaro è quello dell’operosità, nel negozio, della bottega. E quando parla della bottega, tutta addobbata alla moderna che sta a mano manca, al numero quindici, quattro gradini facciata bianca si esalta identificandosi completamente col proprio ingegno che il suo più formidabile strumento di guadagno. Me la sono sempre immaginata come una barberia scalcagnata, cascante che l’occhio esalta nel delirio egotico. E mentre il conte di Almaviva canta la potenza dell’amore, Figaro lo segue nel delirio del denaro che è già il marxiano nexus rerum et hominum, legame diabolico ed esaltante fra uomini e cose. Ecco la bottega. Si sente il tempo dei commerci e dei soldati, tutto incalza, niente sta fermo.

 

Ma cantare l’individuo e la sua forza, vuol dire mettere in musica anche la sua energia autodistruttrice. I personaggi rossiniani non sono una folla di matti, il suo non è un manicomio sonoro, tutt’altro, ma questa turba di gente che popola il suo teatro e gente normale che a un tratto si perde: si vede persa in quello che era sempre stato il proprio mondo. All’apparenza tutto è come prima, ma la nevrosi ha preso il sopravvento.

La follia di Rossini non ha nulla in comune con quella che sarebbe stata la follia dei romantici. Loro, i romantici, Donizetti, Bellini avrebbero seguito la mente che si incammina e perde in spazi misteriosi, gelidi, violenti, allucinati.

Avrebbero messo in scena eroine perse, assassine, accompagnate dal suono sinistro della glassarmonica: vetro e acqua, una cosa davvero da far diventare scemi, più pericolosa di una lettura del Werther.

 

Donizetti si sarebbe poi perso nella pazzia, come mostra la sua ultima foto, in cui appare col corpo accasciato, l’espressione spenta, accanto ad un nipote che somigliava incredibilmente ai ritratti del compositore da giovane. Bellezze bergamasche. Di questa foto esiste una versione edulcorata, in cui un volto idealizzato – vagamente beethoveniano e quindi senza baffi – è sovrapposto a quello del baffuto Donizetti, in una rappresentazione nobile, e biedermeier, dell’agonia dell’artista. Guardate come viene cambiata la posizione del braccio: dal malato che stringe violentemente il fazzoletto come aggrappandosi a qualcosa alla posa languida, persino sognante, del morente che si lascia andare sereno dal mondo degli uomini. Ma il vero punto è il volto dove il male ha deformato ciò che era familiare, portando via per sempre l’espressione di una persona amata, e lasciano al suo posto una maschera di angoscia.

 

 

La follia di Rossini non è romantica, è nevrotica. Racconta il nostro – proprio di tutti noi – trovarci di fronte all’assurdo e dover fingerne la normalità. La follia rossiniana è il solitario impazzire, l’alienazione cacofonica, di una individualità creatrice cui è proibita l’espressione, cui è tolto lo spazio, inibita la fioritura. Avvolta in nodi avviluppati, la mente si avvicina pericolosamente al delirio, come nel sestetto   della Cenerentola

I personaggi rossiniani nei grandi finali dei primi atti si impuntano su un solo suono, una sola parola, una sola nota mentre l’orchestra col suo crescendo – quello, il crescendo rossiniano – va avanti e li porta verso direzioni dove non vogliono andare. Ancora nella Cenerentola, il banchetto si disfa, il cibo perisce, gli incontri inaspettati si rivelano funesti. Soprattutto i piani saltano. Anche nel Barbiere,  saltano i piani di tutti. Il vecchio tutore è in scacco ma anche il giovane Lindoro, e con loro la prima donna che nel teatro rossiniano ha spesso la capacità di reggere e governare gli intrighi, è spodestata, come nel Barbiere e in parte nell’Italiana.

 

Ecco il finale dell’Italiana è perfetto: la gioia pura della musica. Il compositore trasforma un momento di impasse della trama in una macchina sonora di cui ciascun personaggio è ingranaggio. Il personaggio è parte di un meccanismo che non si può reggere: un’onda musicale che non è armonia celeste ma davvero la musica del tempo dei commerci e dei soldati, degli scambi e delle guerre, degli spostamenti, dei passaggi, delle invasioni. Musica marziale e mercuriale: Marce di distruzione e di guadagno.

Ecco qui  la strepitosa macchina sonora dell’Italiana.

 

Si dice che Beethoven sconsigliasse a Rossini l’opera seria, e che il nostro Gioacchino ci sia rimasto male perché si sarebbe sentito un autore di farse, ma l’opera comica rossiniana racconta la crisi dell’individuo come mai nessuno aveva e avrebbe fatto in Italia almeno fino a Svevo. Verdi avrebbe dato suono e vita a momenti di complessa introspezione, anzi credo che nessuno come Verdi avrebbe descritto le prese d’atto del tempo che passa, la fine della gioventù, i doveri della maturità, le aride malinconie della vecchiaia. Ma solo tutti momenti iscritti nel ciclo naturale della vita.

Grande compositore biologico, Verdi avrebbe descritto le vite dei singoli nel grande secolo della Storia, la fine dell’indipendenza, il giogo dei singoli rispetto alla politica e al potere. Non a caso molti avrebbero associato Verdi e la sua musica all’auspicio mazziniano di una nuova musica del collettivo e del sociale. Rossini è contemporaneamente fuori della natura e della storia. Questo Rossini ovviamente, non quello che racconta di Mosè o di Maometto II.

 

Questo Rossini rigetta i cambiamenti. I suoi personaggi sono l’ennesima riproposizione dei tipi della commedia ma portati in un universo di follia, dove letteralmente la terra trema. Il potere è sempre occupato da vecchi bizzosi che finiranno in scacco perché le ragioni dei giovani, le forze urgenti della primavera, non possono essere fermate. Nell’Italiana in Algeri, c’è anche il riferimento alla patria, alla sua forza ispiratrice, c’è il desiderio di mostrarsi all’altezza della situazione nei momenti di pericolo: quanto valgan gli italiani | al cimento si vedrà.  Erano gli anni di Napoleone e si poteva dire la parola Italia, anche se a caratterizzare l’italianità poi è il carattere dei pappataci, l’uso dei cicisbei, il servire e tacer, anzi il servire e l’approvare. Ma appunto, negli anni di Napoleone e di Murat, le critiche si potevano fare, soprattutto se rivolte agli italiani e non ai francesi. Ma negli anni francesi, e proprio nel Viaggio a Reims Rossini saprà prendere in giro gli inni delle nazioni,  qui  la sua parodia, in chiave legittimista, di quello inglese.

 

Il Guillaume Tell chiude la parabola. Siamo nel 1829: è l’ultima opera, quella della metamorfosi, quella in cui a meno di cinquant’anni, Rossini prova a cambiare tutto, riuscendoci in parte, ma sicuramente aprendosi alle richieste della nuova generazione. Si era già confrontato col Walter Scott mettendo in musica La donna del Lago che però appartiene più alla fase dello Scott poeta folklorico che a quello del romanziere storico, ma col Guillaume Tell Rossini si confrontava con un’idea diversa della Storia. Non solo il medioevo pittoresco, ma la fusione fra Natura e cultura, la lotta per la libertà, l’abominio dello straniero, le esigenze della nazione. Insomma il collettivo.

 

Chi lo conosce sa che il Tell è un Kolossal e per questo poco rappresentato. Ad ogni allestimento si organizzano pullman da ovunque per vederlo. Credo che il Tell sia la prima opera composta da un italiano che trasforma il coro da corte di pettegoli in entità riconoscibile: polifonia che esprime una sola volontà, appunto quel popolo attraverso il quale parla il Dio della storia.

È un’operazione difficile, uno sforzo che prelude al silenzio più che ad uno stile nuovo. Entusiasmò anche i nemici di Rossini che gli tributarono pubbliche lodi accompagnate, come sempre avviene, da private perplessità ed accuse di sostanziale immobilismo.  Nel Tell, la voce del popolo si sente in momenti come questo : il giuramento solenne di morire per la libertà di tutti. I toni sono apocalittici (nella versione italiana: «se qualche vil è mai fra noi | lo privi il sol de raggi suoi | non oda il ciel la sua preghiera | e giunto al fin di sua carriera |gli neghi tomba la terra ancor»).

 

Mi sembra che il grande fine d’opera sia imparentato con i finali di pazzia di cu si è parlato solo. Un’aria di famiglia li unisce. Certo, se torniamo al primo atto dell’Italiana, lì tutto incalza, tutto punge, tutto fa male e dà piacere, qui tutto rallenta, si ferma, è estatico: questi svizzeri stanno per entrare nell’epoca della responsabilità. Inizia la Repubblica e loro che, vi svelo un segreto, non sono proprio svizzeri del medio evo ma più borghesi parigini dell’Ottocento, sanno che vogliono dire Repubblica, indipendenza, autogestione.

È un tempo esaltante che però fa paura, come sempre prendere da soli delle scelte (cosa sconsigliatissima!) e tutto si ferma. Ne parla benissimo un giovane Alessandro Baricco in una mezzoretta che vale la pena ascoltare (sta qui) perché dà davvero il senso di cosa significhi questo brano.

 

 Però magari prima di ascoltare Baricco, prendiamoci ancora un minuto, torniamo a Rossini. Siamo all’inizio di un mondo nuovo: la Natura e la Storia si fondono, la musica occupa tutto lo spazio possibile andando verso un’altra direzione. È un flusso sonoro così coinvolgente che un tempo la Rai l’aveva usato per l’inizio mattutino delle trasmissioni (i più nostalgici e i curiosi possono sentirlo qui ma magari non subito, restiamo in attesa). Scrivendo su Beethoven, Theodor Adorno ha parlato dello stile tardo : dell’ultima maniera delle composizioni definitive, gli ultimi quartetti, le ultime sonate per pianoforte, quelle il cui tutto sembra disfarsi, ogni orpello, ogni sovrastruttura cade, resta la creatura, violenta e smarrita. Ma questo non è Beethoven, è il prosaico Rossini (e ovviamente prosaico è un complimento). Il Tell è solo l’ultimo melodramma, la stagione tarda, sorprendente sarebbe arrivata dopo: un tempo di di frammenti, di pezzi sparsi, di peccati di vecchiaia dei quali il compositore era gelosissimo. Forse l’ultimo melodramma, travestito da musica sacra, è lo Stabat Mater, ma quello che l’ultima zampata del vecchio leone, l’ultima spiazzante sperimentazione è la Petite Messe Solennelle, con la sua religiosità da camera.

 

Una messa da salotto, da poltrone di velluto e legno dorato, una messa per persone per bene e di certo non una messa rassicurante. Come il Kyrie che alterna toni teatrali, soddisfazione del vivere a improvvisi smarrimenti e incertezze (eccolo).

Aprire abissi dentro i salotti: lo faceva anche la letteratura e l’avrebbe continuato a fare.

 

Ma qui, in questo finale siamo prima della Storia, alla vigilia di quello che può succedere. Nessuno sa cosa sta per accadere, tutti sanno che da domani saranno adulti, liberi, tutti assorti nel novo destino e certi in côr dell’antica virtù, cantano, ma in fondo sono tutti soli. Le voci seguono la loro individualità, non si fondono davvero.

Rossini resta sulla riva di un mondo e di un secolo passato, è il Napoleone della musica, come Napoleone sta a cavallo fra due secoli, ma a differenza dell’Imperatore, sembra non riuscire davvero a intestarsi nessuno di questi secoli.

 

C’è in questo pesarese arguto, pigro, vanesio, un sostanziale pessimismo sulla natura degli uomini. Succede anche nella Cenerentola, dove l’eroina esordisce con un’aria struggente, semplice, purissima. Eccola . La nenia di un mondo contadino che racconta la fiaba del re ipocondriaco che si sceglie una moglie per non stare solo, e delle tre candidate spregia il fasto e sceglie l’innocenza – di fatto racconta quella che sarà la sua storia – ma poi nel finale, quando è diventata principessa, si perde nei gorgheggi, come gli altri, e gorgheggiando fa svanire tutto il suo vecchio mondo. È diventata il personaggio della sua fiaba, è la moglie del sovrano, può baroccheggiare anche lei, può intamarrire: vivere la sua gioia vuol dire osteggiare la sua ricchezza. Tremendo apogeo del grande compositore borghese: Non più mesta | accanto al fuoco | sarò sola | a gorgheggiar….

 

E così, nel finale d’opera, anche Guglielmo Tell e i suoi non si fondono. Forse per questo è un finale stupefacente, perché si ferma prima di quello che sarebbe stato, si ferma prima dei totalitarismi, prima delle masse, prima delle nazioni. Sta sulla riva di una libertà che ovviamente esalta, ovviamente fa paura. E nel libretto italiano questa libertà arriva per la prima volta, nel libretto francese, si canta grossomodo ‘che il tuo regno ricominci’. Differenze fra una nazione di cicliche e sanguinose libertà e una nazione di continua e assetata attesa di una apocalisse che non arriva mai.

L’ho fatta lunga, ma ora possiamo sentirla e sentire, spero, un’aria di famiglia con l’Italiana: voilà.

 

Avete visto? La Scala, gli anni dell’illusione di benessere del pentapartito, Ronconi che mette grandi schermi con paesaggi elvetici, la regìa televisiva che fa di Muti un oltre individuo, un mago che ci tiene tutti sospesi, gioca coi nostri nervi, ci porta in un mondo nuovo. Un mago che muove masse musicali senza paura della retorica in un’Italia che si guardava superficialmente trovandosi opulenta. Questo allestimento è parte della storia della Repubblica e della sua agonia, come del resto ogni prima della Scala, col suo lusso un po’ pacchiani anni ’80, il potere pentapartitico, i gioielli. Anche le voci testimoniano come si cantava trent’anni fa, quando i tenori rossiniani erano un piccolo drappello mentre ora ce ne sono molti che spesso mostrano disinvoltura e grande estensione vocale.

Tutte cose passate. Resta questa musica che non è musica del futuro, come quella dell’ultimo Beethoven, né musica del passato come quella di alcuni parnassiani. Ma è musica del presente, ci siamo ancora dentro. Dentro il fracasso delle opere buffe che mostrano la perdita del sé, del senso, fino a decostruire la nostra pretesa di agire, di fare imprese, e dentro questo sogno di un’età nuova che da quasi due secoli sta per iniziare, della quale non ci sono giunte notizie più concrete.

 

E intanto : «Va sossopra il mio cervello | sbalordito in tanti imbrogli; | qual vascel fra l’onde e scogli | io sto presso a naufragar».

 

 

[Immagine: Marie Françoise Costance Mayer, Ritratto di Gioacchino Rossini].

1 thought on “Rossini, la follia borghese

  1. Veramente un articolo illuminante e lo scrivo da studente universitario che si appresta a scrivere la sua prima tesi su Rossini e la sua nevrosi musicale che, come guarda al passato Settecento individualista, è pur sempre spinta motrice del processo di nascita di una nazione. Ne farò saggio e prezioso uso. Davvero complimenti!

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