di Gilda Policastro
Avati è uno che trova il Medioevo pure dove non c’è. Dice così la persona con cui ho visto il biopic (o così lo pensavo), sulla vita di Dante (che argomento più medievale di così non ce n’è). In realtà, diciamolo subito, è il Dante del Trattatello in laude di Dante e dei ricordi di Boccaccio, quello che soprattutto vedremo: e difatti la scelta narrativamente più azzeccata è quella (già al centro del romanzo di Avati L’alta fantasia, uscito lo scorso anno per Solferino) di presentarne la vita attraverso la memoria del viaggio che il certaldese compie alla volta di Ravenna su mandato del Comune di Firenze per consegnare alla figlia del poeta, Antonia, divenuta suor Beatrice, la somma stanziata a mo’ di (beffardo) risarcimento per l’esilio comminato al padre. Esilio, come viene detto e ripetuto nel film, particolarmente duro (con obbligo di fuoriuscita immediata e devastazione di ogni bene, e addirittura rogo in caso di cattura per sé e i suoi familiari), provocato dalla scelta di militanza nella parte bianca della fazione dei Guelfi e dai tentativi di Dante di rendere Firenze una città più giusta, anche a costo di sacrificare l’amicizia con Cavalcanti. Il film è effettivamente suggestivo, tanto sul piano dell’ambientazione, ricostruita con fedeltà scrupolosissima, quanto per la messinscena di veri e propri quadri all’interno della narrazione. Se la “meravigliosa visione” del cuore mangiato (come da terzo capitolo della Vita Nova) risulta nella resa cinematografica un po’ osé per Dante e decisamente splatter per lo spettatore debole di stomaco (come chi scrive), il poeta steso nella basilica ravennate in contemplazione della volta stellata è davvero mozzafiato. Resta però uno sbilanciamento netto tra la parte fiorentina, che è tutta incentrata sull’incontro fatale con Beatrice e l’impegno cittadino del priore Dante, e la seconda parte, quella dell’esilio, rivissuta attraverso il faticoso itinerario di un Boccaccio piagato ma fervido e l’incontro con alcuni dei personaggi che avevano protetto o incontrato l’esule nel suo tormentoso peregrinare. Se la parte fiorentina è dominata da un’ispirazione preraffaellita, a partire dalla scelta dell’attrice che impersona Beatrice, e a tratti calca un po’ troppo la mano sulla sua paralizzante vitalità e sensualità sfiorando il kitsch (implausibile la danza menadica con sorelle e bambolotto propiziatore di maternità, e piuttosto sopra le righe la recita con Dante in sync come su tiktok del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare), la parte odeporica ha il pregio di essere rivissuta in presa diretta, con Boccaccio che si carica dell’onere del viaggio impervio (tanto che si preoccupa di fare testamento) e si propone di incontrare, oltre a suor Beatrice, la sua stessa figlia.
Come già nel biopic su Leopardi di Martone, dal punto di vista dell’attendibilità non solo filologico-storico-scenografica ma letteraria funziona molto bene l’idea di far parlare Dante con le sue stesse parole, citando o parafrasandone passi dalla Commedia e dalla Vita Nova: così per il proposito di “dicer di lei” (ovvero di Beatrice dopo la sua morte) “quello che mai non fue detto d’alcuna”, o, ancor più suggestivamente, per l’autodefinizione di sé come sommo poeta e soprattutto l’autocelebrazione del “poema sacro” (da Paradiso XXV) “al quale ha posto mano e cielo e terra” e a cui si consegnano l’aspirazione e la speranza di tornare a Firenze “laureato”, ricevendo l’incoronazione nel battistero di San Giovanni. Si presentano con coraggio anche questioni più controverse sul piano filologico, come le modalità del ritrovamento degli ultimi tredici canti del Paradiso da parte del figlio Iacopo (attraverso il quanto meno dubbio “sogno” che gliene avrebbe rivelato il nascondiglio) o quelle con cui Dante apprende alcune delle vicende del tempo che ripropone nel poema. Su tutte, la storia di Paolo e Francesca, sorta di femminicidio ante litteram, di cui nel film pare Dante abbia saputo in una topica scena di racconti attorno al fuoco. In realtà come il fatto fosse giunto alle orecchie di Dante rimane dubbio. A ricostruire questo aspetto ci aveva pensato qualche tempo fa Maurizio Fiorilla (tra i consulenti alla sceneggiatura del film di Avati) nella trasmissione di Radio Tre Ma dimmi chi tu se’ (qui), osservando anzitutto come le notizie contenute nel canto V dell’Inferno non fossero sufficienti a identificarne precisamente i protagonisti (a partire dai nomi, visto che abbiamo solo quello dell’adultera Francesca, vittima dell’amore per il “cognato”, che però è qualificato come tale solo nel canto successivo). Si suppone che il poeta potesse averne avuto notizia durante il suo esilio, frequentando la corte dei conti Guidi e incontrando due cugine Malatesta, anche se altri studiosi propendono per un’origine fiorentina della notizia, dal momento che Paolo e il padre di Francesca avevano svolto incarichi a Firenze proprio negli anni dell’impegno politico di Dante. Nella testimonianza resa nel Trattatello e ripresa dal racconto cinematografico, Boccaccio ritiene tra l’altro Francesca vittima anzitutto del padre, che le avrebbe promesso in sposo Paolo, il fratello bello, per poi rifilarle lo “sciancato” (questo il significato di “ciotto”, appellativo posto a mo’ di suffisso al nome di Gianni, marito di Francesca). Un po’ di gossip medievale, su cui Avati, giustamente, taglia corto. Forse sarebbe stato meglio però che come già Martone scegliesse un titolo meno secco e più evocativo, e anche più esplicativo di quel che fa il film. Non ricostruisce, con ogni evidenza, la vita di Dante per com’è possibile farlo secondo gli elementi che lui stesso, prima ancora dei suoi commentatori e chiosatori, ci consegna: ad esempio nella profezia di Cacciaguida, all’interno del trittico dei canti XV-XVII del Paradiso, che contiene notizie dettagliate e precise sulle origini familiari e sulle corti dell’esilio. Il racconto procede in forza di due spinte allo stesso modo pertinenti e feconde: l’immaginazione che colma i buchi della memoria (come del resto avviene nello stesso poema dantesco) e il debito di devozione amicale (dove quell’amico è Boccaccio ma pure il regista, che ha cercato in tutti i modi, parrebbe, di togliere al Dante monumentale la patina di classicone irraggiungibile e di trasformarlo in giovinetto tenero, focoso e impegnato per caso, per fame più che per fama). Si direbbe, infine, un film sugli affetti, familiari e poetici (particolarmente toccante il ricordo della madre che Dante perse giovanissimo, nel dialogo immaginario di Boccaccio con suor Beatrice), più che sulla letteratura e su una delle sue opere più canoniche, lette, studiate, tradotte (riconvertita perfino in videogame, oltre un decennio fa). Del poema a cui Dante consegnava tutte le sue energie e speranze e con cui identificava totalmente la sua missione terrena (e ultraterrena, nella fictio del viaggio oltremondano), c’è assai poco. È un Dante che Boccaccio pardon Avati vuole ricordare a modo suo: e ne ha certo non solo il diritto, ma anche la passione, che trasmette, alla lettera, spudoratamente.
Cara Gilda, lasciati baciare. Anche se non avessi scritto una bella recensione, come hai fatto, a me basterebbe quel Vita nova, che, quasi sola fra i tanti, hai l’incommensurabile merito di scrivere, per dichiararti la mia sincera ammirazione. Mi piace anche che l’ultima parola del tuo scritto sia ” spudoratamente “. Perché non ne scrivi un altro, cominciando proprio da lì?
“Del poema a cui Dante consegnava tutte le sue energie e speranze e con cui identificava totalmente la sua missione terrena (e ultraterrena, nella fictio del viaggio oltremondano), c’è assai poco. ” (Policastro)
E allora di che ci riempiamo gli occhi? Per me è come Il giovane Marx senza Il Capitale…
Grazie agli articoli di Gilda Policastro, invecchio imparando sempre qualche parola nuova. In questo caso l’aggettivo ‘odeporico’. Mai più senza.
CINEMA, LETTERATURA, FILOLOGIA, E CRITICA:
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BOCCACCIO, “IL MIO DANTE” E “DIECI FIORINI D’ORO“.
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Un omaggio a Pupi Avati…
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Se è vero, come Pupi Avati scrive (“Il mio Dante”, “Insula europea”, 3 febbraio 2020: https://www.insulaeuropea.eu/2020/02/03/il-mio-dante-di-pupi-avati/), che «”L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» …. allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza (sveglia da un sonno storiografico di lunga durata!) e, al contempo, prendere atto che, con il suo film “il mio Dante”, si assiste solo all’ennesimo ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per “dieci fiorini d’oro”, si compra lo spirito fondante (“l’amor che move il sole e le altre stelle”) e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di Boccaccio (non di Dante Alighieri): “Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film” (Pupi Avati)!
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Ma non è il caso e il tempo di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94) e ricordare che la primavera è già arrivata e che uscire dall’inferno è possibile?!
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Dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare, all’altezza del Dantedì ( 25 marzo 2023 ), che Dante tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice?
(Sul tema, forse, può essere utile tenere presente una mia “vecchia” ipotesi di ri-lettura della vita e delle opere di Dante: http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1205).
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Federico La Sala