di Emanuele Franceschetti
Esercizi di lettura, rubrica a cura di Francesco Brancati
Nell’autunno del 2021 esce per Samuele Editore (nella collana ‘La Gialla’, curata da Pordenonelegge) Tenere insieme, il ‘canzoniere poetico’ di Gabriel Del Sarto. È un volume che raccoglie un numero significativo di testi, che abbracciano l’arco temporale di un venticinquennio (1995-2020) e un percorso poetico già materializzato in tre precedenti libri (I viali [2003], Sul vuoto [2011], Il grande innocente [2017]). L’estensore della breve nota posta nel risvolto di copertina avverte il lettore che quella di Del Sarto corrisponde ad “un’esperienza di scrittura tra le più significative della propria generazione poetica”.
Anche a chi non avesse incontrato, precedentemente, la scrittura poetica di Del Sarto, una lettura di Tenere insieme – persino una lettura non consequenziale e ‘cronologicamente’ disordinata – non può non suggerire un dato, chiaro e (perlomeno nel parere di chi scrive) difficilmente confutabile: una profonda continuità, una uniformità di tono e ‘timbro’, l’idea che la voce che prende la parola e si pronuncia sia sempre la stessa, inconfondibile. Questo, si badi bene, non va inteso in alcun senso come limitatezza di risorse espressive o monotonia: nel viaggio poetico di Del Sarto mutano scenari e interlocutori, circostanze esperienziali e referenti esterni, densità della cifra biografica, scelte di metro e di strutturazione del testo. Ma il parlante è sempre lo stesso: non necessita di palesare fratture stilistiche o di periodizzarsi in diverse maniere. Quella di Del Sarto è una voce elegante, ma estremamente discreta e misurata, frequentemente orientata – laddove la si immagini in una sua effettiva risonanza sonora – a un volume sottile. È una voce estremamente musicale, intendendo eliotianamente la definizione: una spontanea e movimentata fluidità, interna alla lingua naturale, senza che vi siano eccessive ricorsività metriche (pur nell’evidente predisposizione endecasillabica, che però non diventa un ‘tic’ metrico costante). E aggiungerei, consentendo ancora a tentazioni aggettivali, una voce puntuale e integra, esatta. Esente da violenti scarti linguistici e da cedimenti a istinti analogico-immaginativi, Del Sarto possiede invece il talento di una narrazione lineare e attenta, in cui l’’energia poetica’ emerge da movimenti minimi.
La vita non conosco, ma come scorre,
in questi due paesi, la via, uno a valle
l’altro fin quasi sulle cave, alto. Chiusi. Qui
torno, per la mia visita
del silenzio,
come voce della natura, in questo giorno disuguale,
con un diverso peso nei pensieri
e negli atti.[1]
Si può notare a tal proposito, nell’esempio precedente, anzitutto la scelta di anteporre (mettendolo in risalto) il complemento oggetto nel primo verso (la vita); oppure alcune tensioni sul piano ritmico (sapientissima è la costruzione del terzo verso, sia per il suo incedere a larga parte trocaico, sia per la ricchezza finale di ictus, che determina un progressivo rallentamento ‘autoriflessivo’ del verso stesso[2]), così come alcune improvvise illuminazioni (il “disuguale” del giorno, ad esempio, che esalta una possibile unicità contrapposta alla scorrevolezza costante della via [e della vita?]).
Se osservata alla luce di quella che, pare, continua a essere una delle categorie interpretative più dirimenti (anche al netto di recenti tentativi di mappare, in tal senso, lo stato dell’arte della poesia contemporanea[3]), vale a dire il rapporto tra ‘sé’ e ‘mondo’ (laddove, con ‘mondo’, scelgo di includere non soltanto i fenomeni, gli individui e le cose, ma anche il passato e la storia extra-individuale), la poesia di Del Sarto si dimostra capace di un incredibile – e spontaneo – equilibrio. Esistono le cose e i fenomeni, nella loro nuda indipendenza dalla parola che li registra; esiste l’esperienza individuale; ed esiste lo sguardo (e la voce) che vede e nomina, rammenta e trattiene a sé. Uno sguardo mai periferico e ‘laterale’, ma fortemente ‘imbricato’ alle cose stesse e alla stessa esperienza individuale, e costretto dalla sua natura testimoniale a entrarvi in sym-patheia. Ed è affascinante osservare, in certi testi, proprio l’attimo del ‘cambio di direzione’ dello sguardo, quando dalle cose si ritorna a sé (o per dirla altrimenti: il momento esatto in cui fa la sua comparsa la prima persona, singolare o plurale), quando la registrazione del dato lascia per un attimo irrompere il soggetto, il testimone (ho posto in corsivo i momenti cui mi riferisco):
Gli sbadigli e i visi
sul lungomare nelle sere. I coni
gelato e le crépes: la vita qui
è dopo il sole e c’è molto a portata di mano.
Insensibili le palme della marina svettano e in un eccesso
di pensiero mi rigiro senza grazia […][4]
—
Forse resterà solo chimica e bianco
sulla strada, e la polvere
su ogni protocollo, su ogni foglio e atto,
su ogni compensazione impossibile. Solo polvere
e vento, e molecole divise
e bianco negli occhi e sulle foglie
per una festa finita,
fin quando il vento e l’acqua nuovamente
passeranno.
Cammino fra queste pietre
levigate, le vene, i tunnel, i fiumi sotterranei […][5]
Vale la pena notare, riutilizzando ancora il testo precedente, ed ancora in relazione al rapporto tra soggetto e mondo, che in Del Sarto, non di rado, vi è una coscienza quasi ‘remissiva’ verso il destino delle cose del mondo, degli eventi. Ma tale remissività non è presa di coscienza, inflessibile, della non-significanza e della totale alterità delle cose (come è di frequente rilevabile in Guido Mazzoni [«Le foglie gridano. Non è un grido di attenzione divina, / il fumo di eroi tronfi o un grido umano./ È il grido di foglie che non trascendono se stesse/ in assenza di immaginazione/ senza significare più di ciò che sono/»; «Oggi l’aria è libera di tutto/ e non conosce nulla se non la nullità/ e scorre sopra di noi senza significati»[6]], autore per altri versi molto vicino a Del Sarto), quanto più una inermità ‘appassionata’, intensivamente umana. Per questo esiste un ‘cammino’ nonostante la consapevolezza che resterà solo «polvere / e vento», per questo nonostante le «cose che moriranno» è possibile «raccontare qualcosa / del cosmo ancora», e sentirsi parte (mortale) di un’esperienza conoscitiva:
[…] Qui
non c’è più attesa, ma una luna, memoria
e versi, e cose che moriranno.
Una qualsiasi fine
di aprile, in cui raccontare qualcosa
del cosmo ancora, il buio sulle coste
o i confini del vento, adesso che non mi domando
verso dove, né il bene o il male, ma come
aprire e sollevare e conoscere
quanto anche questa notte
sia un’insensatezza, forma della vita.[7]
Ecco: al netto di una certa (sempre vigile e netta) docilità della sua voce poetica, è proprio la tensione conoscitiva a rendere mobile, animata, viva e mai del tutto neutrale la parola di Del Sarto. E ancora: è innegabile che, nelle pieghe dei gesti testimoniali, narrativi e memoriali, abiti persino una speranza, oltre l’insensatezza e la mortalità di cui sopra, oltre gli «attimi» che (mazzonianamente, ancora) «non rivelano nulla ma esistono»[8]. Se angeli[9] e figure «di marca veterotestamentaria»[10], che appaiono nella prima sezione, scivolano e lottano e si confondono tra i segni e le figure della vita reale, allora non si verifica totale e definitiva solitudine: c’è addirittura una «benedizione» che «ammanta» le «imperfezioni»[11], e una prossimità e possibile contiguità fra mondi, creature, destini. E persino fra epoche: nel Grande innocente, secondo ‘capitolo’ della terza sezione di Tenere insieme, la reciprocità tra biografia e storia, tra memoria individuale e memoria collettiva, diventa la forza principale capace di animare la scrittura. Nonostante l’”innesco” sia – per l’appunto – una tragica vicenda personale (l’uccisione del nonno Lino, ventiquattrenne, nel 1944), non si cede al patetico, né – per contrasto – al cronachismo impersonale. Il passato entra in dialogo col presente, il presente trascina a sé il passato sottoponendolo a nuova inchiesta, ‘immemorandolo’.[12] Cercando anche – forse – un’ultima possibile pacificazione. Questo, mi sembra, è uno degli elementi più autentici ravvisabili nella poesia di Del Sarto, e una delle principali ragioni della bellezza (e dell’efficacia) dei testi: la capacità di innestare, con invidiabile naturalezza, un improvviso sguardo di umana innocenza (e umana speranza) all’interno della fitta trama di una scrittura senza compromessi, senza illusioni, senza posture. La si potrebbe definire (specie in relazione a certi testi), con le parole dell’autore, ‘tensione cristica’[13]: ma tutta radicata nelle cose e nella storia, nei destini generali. Ed autenticamente inquieta, ‘terrena’ anche nei più intensi (e non frequentissimi) slanci (in)vocativi («Dove abita, in quale spazio, l’amico/ di tutti di cui parli? Perché Gabriel, / per quanto forte nell’apparizione,/ fulmine che apri e squaderni i mondi,/ non si sa mai dove sei?[…]»[14]). E se è vero che «la vita è questo, alla fine. Quello che puoi conoscere […]»[15], oltre la catastrofe del male e l’indifferenza della storia, oltre il limite dell’orizzonte conoscitivo umano, esiste la gratuità della testimonianza. E la pietà per gli altri.
Guardando quei volti, ormai vecchi, con la minuziosa
fatica della materia che da queste montagne risplende
nelle loro rughe, non ho più rivendicazioni.
Qualcuno verrà per dire: questo
è il tempo dopo l’esperienza. E sempre
dopo il tramonto, lungo i canali fumosi,
fra la corda e il cielo di nuovo dire:
la scrittura del male è solo in chi lo esegue.
Possa poi emergere una profonda e delicata pietà,
che ci accompagni quasi
una preghiera.[16]
Note
[1] Gabriel Del Sarto, Tenere insieme, Samuele Editore (Pordenonelegge), 2021, p. 56.
[2] Per quest’idea di ‘rallentando’ in corrispondenza di un accumulo di accenti mi rifaccio a quanto argomentato da Stefano Dal Bianco in id., Distratti dal silenzio, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 163.
[3] L’esempio più recente ed emblematico è, indubbiamente, Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea (Il Saggiatore, Milano, 2021), di Laura Pugno.
[4]ivi, p. 17.
[5] ivi, p. 77.
[6] Entrambi gli esempi sono tratti da Guido Mazzoni, La pura superficie, Donzelli, Roma, 2017, rispettivamente alle pp. 34 e 46.
[7] Gabriel Del Sarto, Tenere insieme, p. 70.
[8] ivi, p. 112.
[9] Mi riferisco ovviamente alla figura-doppio dell’angelo Gabriel, più volte evocato nel corso del testo.
[10] Rimando ad una recente intervista di Michele Bordoni a Gabriel Del Sarto, disponibile online: https://www.atelierpoesia.it/intervista-a-gabriel-del-sarto-prima-parte/ (ultimo accesso: 23 giugno 2022).
[11] Gabriel Del Sarto, Tenere insieme, p. 20.
[12] Cfr. Ernst Bloch – Walter Benjamin, Ricordare il futuro. Scritti sull’Eingedenken, Mimesis, Milano, 2017, p. 8.
[13] Si veda, a tal proposito, l’intervista a Del Sarto pubblicata su «Pangea»: https://www.pangea.news/gabriel-del-sarto-tenere-insieme-intervista-occhetto/ (ultimo accesso: giugno 2022). Alla luce di quanto suggerito in questo breve intervento, mi sembra rilevante notare che Del Sarto, dovendo menzionare autori significativi per la propria scrittura, scelga di riferirsi a Guido Mazzoni (di cui si è già detto) e Filippo Davoli: due autori apparentemente inconciliabili, se si pensa alla pervasiva importanza, nel poeta maceratese, della dimensione cristica (radicalmente assente dall’orizzonte di Mazzoni) e di quella autobiografica (quasi del tutto assente, se non in misura estremamente opacizzata e parcellizzata).
[14] Gabriel Del Sarto, Tenere insieme, p. 131.
[15] ivi, p. 143.
[16] ivi, p. 146.