di Lello Voce
[È uscito in questi giorni per La Nave di Teseo Razos, il nuovo libro del poeta Lello Voce. Ne anticipiamo un estratto pubblicando una delle razos della prima parte (brevi componimenti in prosa di epoca trobadorica che illustravano le ragioni, lo scopo e le istruzioni di esecuzione della poesia che faceva loro seguito) e tre dei madrigali della seconda parte.]
1
(…)
quindi Cocito tutto s’aggelava
Inferno, XXXIV, 52
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
(…)
sovenha vos a temps de ma dolor!
Purgatorio, XXVI, 142-147
Questa poesia nasce dal freddo, perciò vuole parlare del freddo. E non vuole pronunciarlo.
Essa nasce dal freddo in quanto disordine e fine. E vuole farne iscrizione e graffio sulla roccia. Per ridargli ordine. Iniziando dagli oggetti.
Gli oggetti usualmente sono freddi, anche quando scottano. Essi sono freddi poiché non hanno linguaggio. Né intercapedini, ma solo massa.
Un’intercapedine è un luogo da cui l’oggetto è assente, è ciò che lo costringe a esistere in quanto massa e realtà. Poiché un’intercapedine è sempre la culla del linguaggio che gli dà nome.
Gli oggetti non sanno dirsi, né hanno una lingua che li nomini: essi sanno soltanto riflettersi.
Ma cos’altro è ogni lingua, se non residuo freddo e acuto di una vita che è già altrove, un codice, il nutrimento morto d’ogni coscienza e d’ogni poesia?
Questa poesia vuole parlare del freddo. Vuole farlo senza allegria, senza maestria. Vuole per sé semplicemente la parola freddo e pretende che essa dica tutto ciò che c’è da dire. Vuole ripeterla all’infinito. Vuole stabilirne tempo e ritmo. Vuole immaginarne la melodia. E vuole pensare di non poterla sussurrare, neanche a denti stretti. Freddo. Soltanto la parola freddo.
Vuole una parola che sia un oggetto. Morta. Fredda. Impronunciabile. Immobile. Che non ammetta sussurro che popoli d’ali l’aria, né intimità che imbarazzi l’animo. Ma che sia sotto gli occhi di tutti. A disposizione di chiunque.
Una poesia fatta da una sola parola. La parola freddo. Immobile. Scritta, ma sul dorso del foglio. Una parola illeggibile. Una parola fatta di una sola poesia: freddo. Una poesia fatta di una sola parola: freddo.
Una parola sequestrata da questa poesia. Che non la rilascia. Non la dice e non la scrive. La tiene per sé.
Questa poesia che nasce dal freddo è una poesia che serve a rubare parole.
È una poesia fredda, tagliente, efficace, ma inutilizzabile. Che balbetta una sola parola, lasciandola sospesa senza dirla. Vana. Sorda come se fosse muta.
Questa poesia, quindi, inizia dagli oggetti.
Gli oggetti sono: una scarpa, un guanto, una sedia, un coltello, un cappello, una penna, un anello, una serratura.
Ciò che manca dunque è: una scarpa, un guanto, un tavolo, un fodero, una piuma, un foglio, una catena, una chiave.
Questa poesia per comporsi ha dovuto rendere la parola freddo sinonimo di tutti questi oggetti, o anche soltanto di quelli che mancano. Così ne è risultata una poesia fatta da una sola parola. La parola freddo. Che ne sarà la chiave per il suo lettore.
Questa poesia vuole parlare del freddo. Per raffreddarlo, prima che evapori. Vuole immaginarlo come un gas, un gas che si espande come un suono, un gas che risuona, senza che sia possibile ascoltarlo.
Un gas non gelido, né bollente. Ma freddo. Un disordine che ha ancora qualche parvenza d’ordine, che inganna a sufficienza da rassicurare. Come se non avesse contrario e non ci fosse mai stato caldo, ma freddo soltanto. Senza caos.
Questa poesia vuole che il suo lettore possa pronunciare la parola freddo, senza immaginare la parola morte.
A questo deve servire questa poesia che parla del freddo. A non parlare della morte.
Questa poesia vuole parlare del freddo. Dunque ha bisogno di una lingua, del fiato, della glottide di un lettore che sia adeguatamente bassa nella faringe, di un orecchio che la ascolti, di un dispositivo che la registri.
Ma senza un software l’operazione risulterà impossibile. Non ci saranno relazioni tra tutti gli elementi del progetto e la poesia fallirà. Perché non esiste più una voce che non sia il respiro di una macchina di silicio. Ed essa resterà un’intenzione, anche se correttamente programmata.
Dunque ha bisogno di un software. Ma che sia muto. E che non sia in grado di codificare la parola morte.
Dunque ha bisogno di un bug che le permetta di crackare il sistema. Di interromperlo.
Ma per inserire il bug essa ha bisogno di un virus. Di un linguaggio di una sola parola e che non sia morte. Ma solo freddo. Cioè ha bisogno delle lettere effe-erre-e-di-di-o. E di farne un unico file che il lettore nominerà: freddo.
Questa poesia vuole parlare del freddo.
Vuole farlo come se fosse una voce distratta, che perde le parole. Le dimentica. Le frantuma e poi non è più capace di ricomporle. Una lingua di lettere senza parole. In cui non si possa costruire alcunché, ma soltanto scegliere, separare, distinguere, identificare, differenziare, disunire, dividere, dissociare, smembrare. E farne una soluzione.
Senza che ci sia il problema di ciò che accadrà dopo, quando le lettere torneranno a essere lettere.
La parola non è la soluzione per comprendere questa poesia, né il mondo freddo da cui essa nasce.
Se non è possibile farne poesia, perciò, la parola freddo non esiste. E non esiste questa poesia che il lettore ha appena terminato di leggere.
1
Le parole sono finte file, furbe feste del senso,
strade cieche, legacci prepotenti, fame e stenti,
sono tessuti e pelle senza pori, specchi di tappi,
si annodano sciogliendo e ordiscono calappi,
sono le gambe lunghe e le bugie che menti,
trucchi strucchi, falsi, melensi, e fango denso.
Tu resta muta e cruda, non lo dire, non pensarlo:
ascoltane l’odore e carezzando il verso, a respirarlo.
4
Le lettere, gli alfabeti e i segni muti
le carni crude e i gesti già avvenuti
afflitti, smemorati, distratti, consolàti,
immobili, lisci, impressi, inquadernati
come coscritti, burbe, accenti caduti
in fila, coperti d’inchiostro, feriti a morte,
a mano tremante, ad arte, riconosciuti:
lettere tolte a sorte dal sillabario delle aorte.
8
a Giacomo Verde, artivista
La sassaiola fitta che frantuma il cuore,
la gragnuola dura che voce dà al dolore
che dura e tamburella, il timpano sordo,
il rumore che toglie sale a ciò che mordo,
la lingua che lecca in punta d’alfabeto,
la pena lieta d’una vita che s’è arresa:
tempo e silenzio e il respiro che ripeto
supino mentre ogni domani si fa offesa.