di Emanuele Canzaniello
[I testi che seguono sono parte di un progetto, Il breviario delle Indie o Yndiario, che in forma di brevi narrazioni, tra il saggio e l’allucinazione, prova a ripercorrere e condensare i fatti, le teorie, il sangue e le meraviglie del secolo del contatto dell’Occidente con le Americhe]
Breviario delle Indie 12
Un uomo preordina il suo viaggio nella mente. E poi registra tutto in un diario, tutto quello che deve avvenire o essere visto, prima che si realizzi quello che deve realizzarsi. Prima che il viaggio risulti completo come lo è nella misura della mente.
Quell’uomo ha i suoi calcoli e le sue letture, che noi conosceremo solo in parte e che nessuno, anche allora, conosceva a pieno.
Quell’uomo sarà stordito dal profumo degli alberi, dal modo di accoppiarsi di uomini in altri mondi, quell’uomo non riuscirà ad enumerare tutti i generi e le specie, e ne soffrirà come un bambino.
«Ci sono poi alberi di mille specie, con vari frutti e tutti così profumati che è un vero piacere. Io sono l’uomo più triste del mondo perché non li riconosco, ma sono ben sicuro che hanno un certo pregio» (21 ottobre 1492). Prima di vedere quella luce, di sentire quei profumi, quell’uomo è sospeso in una vastità oscura. Non dorme, veglia, fissa e registra stelle.
Sa che le alghe molto verdi e abbondanti che hanno visto vogliono dire che la terra prevista è vicina, perché non molto tempo prima dovevano essersi staccate dalla terra per essere ancora così verdi. Ed era solo il 16 settembre 1492.
Delle nubi scure appaiono a nord, chiaro segno che la terra non è lontana, ed era il 18 settembre. Il giorno dopo gocce di pioggia ma in assenza di vento, la terra non poteva essere lontana. I pellicani sopra la nave, due e forse tre, erano segno sicuro.
Il 21 settembre viene avvistata una balena, e questi animali non si allontanano dalla terraferma. Tutto era falso ma era segno e questo è tutto. Segno che preordina la mente e che solo è vero. In quel mare c’è un uomo che sa, per averlo letto, che dopo settecentocinquanta leghe arriveranno alla terra.
La trova lì dove sa che ci sarebbe stata, là dove avrebbero visto la costa orientale dell’Asia. Lo scrive anche Las Casas: «Aveva sempre pensato in fondo all’animo, quali che fossero le ragioni di questa sua opinione, che – attraversando l’oceano al di là dell’isola di Hierro – a una distanza di circa settecentocinquanta leghe avrebbe finito con lo scoprire la terra» (Historia, I, 139).
Ma non ha importanza questo, quello che conta è che quell’uomo vieta la navigazione di notte, al raggiungimento delle settecento leghe. A partire dalle settecento leghe di mare percorso quelle navi non si muovono più di notte, sono all’àncora nel mare Oceano col buio. Oppure nessuno può più dormire. La terra può emergere dall’orizzonte in qualsiasi attimo, per evitare che accada non si naviga con la notte quando il sonno potrebbe far perdere il momento fatto per la vista.
«Quel che ci avevate annunciato si è realizzato come se l’aveste visto prima di parlarne con noi» scrivono i Sovrani di Spagna, Ferdinando ed Isabella, il 16 agosto 1494. Qualcuno che non vede in quelle notti immobili, con il caldo umido delle stelle di altri mari, qualcuno si comporta come se avesse visto prima. Cosa? Qualcosa che si aspetta, a lungo, e ancora. La terra arriva come luce di una candela all’orizzonte, che appare e poi scompare. «Ho già detto che, per la realizzazione dell’impresa delle Indie, la ragione, la matematica e il mappamondo non mi furono di alcuna utilità. Si trattava solo di compiere quel che Isaia aveva predetto» (Prefazione al Libro delle profezie, 1501).
Per ragioni di simmetria quattro erano le parti del mondo, le terre emerse, e quattro dovevano essere trovate. Questo Colombo sa perché è scritto nelle sue carte, nella difficile biblioteca della sua mente. Pierre d’Ailly, che ha annotato, riporta questa idea, che i continenti debbano essere quattro. Europa e Africa erano note, l’Asia era la terza estensione, la quarta dimensione doveva essere trovata.
Breviario delle Indie 13
Se non il paradiso dalla forma di seno, altri paradisi furono trovati. Immense vegetazioni, stupori continuamente annotati, gioie di una natura inaudita e mai descritta prima. Tutto apparve nuovo, da ottobre a dicembre, nei primi mesi, nei primi anni, nei primi viaggi. Le acque innumerevoli, le foglie innumerabili, i pesci inclassificabili, le analogie impossibili tra i profumi, i venti, i sapori, le piante, gli animali, le acque. L’uomo della scoperta non era indifferente agli splendori di quella natura. I diari e le lettere del navigatore sono ricchi di descrizioni stupefatte di quel nuovo pianeta.
La bellezza di quei luoghi, come gli appare, resta abbagliante al punto che basterebbe goderne, senza ricavarne nulla, per esserne paghi. Stormi di pappagalli oscurano il cielo, tutto appare ornato dei colori più belli noti fino a quel momento sulla terra. Superfici, montagne, valli, tutto è percorso con lo sguardo, risalito dalle prime imbarcazioni sui primi fiumi. I pini, gli uccelli, l’aria vibra intorno ad ogni cosa come aria del paradiso. E dev’essere stato così. Gli alberi crescono così vivi, e raggianti, che le loro foglie non sono tanto verdi quanto di un colore oscuro (16 dicembre 1492).
Profumi di fiori e alberi salgono come nebbie dalle isole e dall’oceano, profumano le navi come mai era stato sentito. E l’isola è la più bella che occhio umano abbia mai visto e nessun’altra sotto il sole può sembrare migliore.
Come le valli, le cave, le rocce, così gli uomini, le donne, i corpi, i bambini, i nudi che sembrano aderire al mare, e gli armati, che sembrano ai primi venire dal cielo. Colombo vede quei corpi, non ha nessuna percezione della loro lingua, li crede e li pensa muti, come gli animali. Ne ammira la bellezza come ammira la bellezza degli alberi, più di ogni altra cosa gli alberi ammira. Li riconosce alti, dolci, come appartenenti a un altro tempo cosmico, lontani dal tempo delle scritture e degli uomini.
Non sapremo mai dire quali e quanti paradisi siano discesi da quei primi contatti, da quelle prime acque, dolci e salate mescolate insieme. Non sapremo calcolare quale immane sommovimento di forze la ricchezza benefica di quelle terre evocò. All’inizio fu il profumo, la freschezza senza segni se non di legni e busti, e tronchi, e dorsi, e uomini e dèi, e mani, e spalle, e natiche, e conchiglie, e seni ritrovati sulla spiaggia, con i capezzoli d’oro bruno appena emersi dalla sabbia. Eppure sappiamo che quello che videro fu soltanto per lo sguardo, la meraviglia che annotarono non era fatta per la lingua né per i suoni umani. Qualcosa in lui dimenticava ogni cartografia, ogni segno, ogni interpretazione degli uomini e delle correnti, solo per l’alito di un albero, per la bellezza di aver spiato qualcosa che non doveva essere toccato.
«Risalendo il fiume, erano davvero cosa meravigliosa a vedersi gli alberi, la vegetazione, l’acqua limpidissima e gli uccelli, di tale bellezza che, come dice, non avrebbe voluto staccarsene» (27 novembre 1492).
Avrebbe forse voluto morire lì, senza più stelle né nomi, abbandonando il desiderio di dare nome a tutte le cose, per un ultimo desiderio più intimo. Scomparire nelle acque, essere nella freschezza, essere le foglie non verdi ma quasi tenebre scura. Ma i viaggi proseguirono, si tornò e si ripartì, e furono tre diverse rotte, fino a lambire il continente e non solo le isole.
Degli uomini di quelle isole Colombo non ha conoscenza, per loro non ha nomi e non ha una lingua da condividere, non ha una natura terrestre da condividere ma solo una mappa celeste. Le rotte e le posizioni delle stelle sono veicolo e scambio, segno e semiosi per Colombo.
Otto mesi arenate e ferme sulla costa giamaicana restarono le sue navi. Non c’è più scambio, né baratto che regga, le navi sono senza viveri e non arriva più nulla dall’interno, dalle terre ricchissime e verdi. Gli indigeni che avrebbero dovuto continuare a procurare rifornimenti si fermano.
Gli abissi delle cose sono questi.
Da un lato Colombo non comprende che per gli indigeni l’oro non ha un valore di conio o di moneta, ma solo un valore di scambio come qualunque altro bene, vede scambiare oro per cappelli spagnoli e mantelli, ma non ha la rivelazione di cosa sia la pura convenzione dei segni e delle monete. Non comprende Faust, Faust è sulle acque e nello spirito delle acque.
Dall’altra Colombo conosce i segni e prevede e legge gli eventi astronomici.
È la notte del 29 febbraio 1504 e sa che ci sarà un’eclissi lunare. Colombo avverte gli indigeni del suo potere sulla luna e le stelle, minaccia di cancellare la luna dal loro emisfero se non avessero continuato a fornire beni e acqua e cibo. I nudi, i senza lingua, i corpi come alberi, profumati e miti, conducono viveri in abbondanza e pelli vive e glabre sulle navi.
E così la luna scomparve.
Breviario delle Indie 16
Il genocidio più esteso e profondo della storia è avvenuto su influenza preponderante di Aristotele. Il maestro di color che sanno ha tinto l’aria di sangue di molte latitudini ed emisferi. Anche questo si potrà dire. Che è ancora colpa di Aristotele il modo in cui gli europei hanno trattato gli indigeni delle Americhe. I giuristi europei si rifacevano alla teoria aristotelica dei diversi gradi di umanità quando videro sulle spiagge i primi uomini. E dopo poco si ricordarono che la massima espressione dell’umano era stata possibile solo nelle città greche, tutto il resto era un decrescere del venire in atto dell’umano in potenza presente in tutti gli individui che hanno forma umana. Quindi, anche se di forma umana, gli indigeni sembrarono agli europei come il grado più basso dell’appartenenza all’umano, vicini agli schiavi per natura, che trovano vantaggio nell’essere guidati, di cui parla Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Politica. Per inversione raffinata in questi testi fondativi si racconta che la crudeltà è una caratteristica della barbarie, cioè degli uomini nati fuori da tutti i gradi dell’umano. Un’ingenuità che non ha tenuto conto del nodo gordiano che avrebbe portato con sé, insolubile. Più alta è la forma della civiltà più ramificate, raffinate e complesse diventano le forme della crudeltà.
Gli indiani d’America erano gli animali parlanti che gli europei videro e valutarono nelle foreste. Li considerarono schiavi per natura, di forma umana ma non dotati di pienezza umana. Loro era la barbarie di questa nuda semplicità di cui in Spagna discutevano giuristi e commissioni, già un decennio dopo il primo contatto.
Le più alte forme della civiltà, la Sistina, le Stanze Vaticane, coeve dei mari fatti densi di sangue, dall’altra parte dell’Atlantico. Tutto era contemporaneo. L’Occidente è stato condannato ad essere Aristotele, il più alto grado dell’umano, e l’eccidio, lo sterminio, endemico e allo stesso tempo solo accessorio, collaterale.
Gli schiavi per natura, che dovevano essere guidati e portati alla pienezza umana, erano bruciati in branchi, impiccati in mandrie, scuoiati, vissuti come strumenti parlanti anche per la soddisfazione sessuale, dovevano essere corretti dalla loro barbarie, dai banchetti di carne umana, dai crani sfondati da cui bevevano. E sfondati furono i loro crani, dati ai cani i loro corpi, mentre i guerrieri con le calze di seta li guardavano spaventati di doverli ricondurre a un ordine divino.
Poi ci sarà un po’ di mondo asiatico (che ci aspetta) a cui faremo fatica ad abituarci. Una certa rinnovata e diversa crudeltà ma soprattutto una certa passività feroce e anonima delle vittime, degli individui. L’individuo come lo intendiamo noi è una cosa così occidentale, è ancora Aristotele in fondo che parla con Alessandro in una notte millenaria.
Aristotele che parla con l’uomo che invase l’Asia e bruciò Persepoli. L’uomo che vendicò le guerre persiane sulla terra asiatica. È ancora lì, quando le navi spagnole visitano i Caraibi e l’Asia di nessuno. Le teologie, le cattedrali, le università, i giuristi, e poi le navi, gli uomini, Hispaniola, Navidad, l’idea che quelli non siano uomini o non appartengano al grado pieno di umanità che era stato possibile solo per le polis, per la Grecia di Alessandro.
Breviario delle Indie 20
Quello che fu visto assomiglia alle terre dipinte dai Cranach, dell’età dell’oro dell’umanità, in cui si era nudi prima della Caduta, e si era umani o forse più che umani. E nuda era l’innocenza. E la terra da cui sgorgava il miele.
Quello che fu visto assomigliava anche ai dipinti di Brueghel, quelli in cui è possibile vedere come si andava a caccia di esseri di natura inferiore all’umano, selvaggi, nudi o coperti di pelliccia, inseguiti e trafitti dalla lancia di chi aveva dimora, di chi abitava dentro le mura.
Questo è ciò che avvenne.
La terra prima della Caduta era il giardino dell’Eden e il genovese amava vedere le terre oltre l’oceano come giardini del paradiso. Allo stesso modo, in quelle terre ricche di ogni colore e di ogni acqua, c’era l’originaria nudità dell’innocenza, ma quella nudità era duplice, assomigliava anche alla nudità dei selvaggi, degli esseri di natura inferiore all’umano, inseguiti e trafitti dalla lancia di chi aveva dimora, di chi abitava dentro le mura. Anche se aveva solcato il mare Oceano, lasciandosi quelle mura alle spalle.
I teologi, dentro le mura delle città spagnole, non potevano accettare l’immaginazione di popoli umani che erano sopravvissuti intatti alla cacciata dal paradiso, e vi erano rimasti. E tuttavia fu possibile, per alcuni decenni di febbre, i sogni degli uomini in Europa avvertivano la possibilità che il peccato non avesse intaccato tutti i corpi, che alcune moltitudini fossero rimaste dentro i giardini dell’Eden, selvatiche e nude, senza mura né città, ma prive del peccato e nude per innocenza. Fu possibile allora pensarlo.
Ma in fondo nel paradiso terrestre solo un uomo e una donna avevano abitato, come sarebbe stato possibile far discendere da loro milioni di indiani sulle isole del mare Oceano? E lo stesso Colombo ammetteva che il giardino, di cui le sue isole erano lo specchio, come specchi erano i dipinti di Cranach e di Brueghel, era inaccessibile agli uomini, per volere di Dio.
Eppure, anche tra le montagne dell’Asia di nessuno, tra il Caucaso e l’India, dopo il diluvio, sopravvivevano orde di un’altra umanità, giganti di cui parla la Bibbia, orde di Gog e Magog, sopravvissute, discendenti dalle dieci tribù d’Israele. Anche loro sarebbero state scoperte un giorno, nel giorno dell’avvento dell’Anticristo, scatenate come un flagello sull’umanità.
Eppure, anche gli ebrei sopravvivevano all’avvento di Cristo, come una diversa specie umana, cannibale o meno, sanguinaria o meno nei suoi rituali, gli ebrei non avevano dimora anche se vivevano dentro le mura. Gli ebrei erano certo, come sosteneva Heinrich von Hesler, nel XIV secolo, una razza maledetta non interamente umana e non convertita all’umano.
Eppure, un secolo dopo, arrivarono altri popoli selvaggi, senza dimora, che non conoscevano cosa volesse dire abitare dentro le mura, arrivarono dall’est, come nomadi, dissero di essere dei cristiani espulsi da un piccolo Egitto d’oriente, per questo furono chiamati gitani o egiziani. Anche per loro sappiamo che l’origine era l’India, la vera India dell’Asia.
Anche per loro, come nel dipinto della scuola di Brueghel, fu avvertita una caccia nelle foreste d’Europa, e furono inseguiti e furono trafitti dalla lancia di chi viveva dentro le mura.
Nelle Indie ad occidente, furono viste queste scene, di bestiari, di enciclopedie, di torrida fantasia. Erano i selvaggi dell’età dell’oro ed erano i selvaggi che mangiavano bacche e radici, e vivevano a quattro zampe nelle incisioni di Dürer.
«Avevano forma come d’uomo, ma erano primitivi e selvaggi al punto da non aver mai sentito la parola di Dio». Alcuni teologi avvertivano, esistevano di certo diverse categorie e tassonomie di selvaggi nel mondo: alcuni non appartenevano all’umano, erano diaboli, satiri o demoni, creati da Satana. Altri erano invece selvaggi che appartenevano al genere umano, erano i santi nel deserto, i pigmei, gli hispani, i folli e gli zingari, i gitani fuggiti da un piccolo Egitto orientale. I selvaggi delle foreste, coloro che vivevano fuori dalle mura, nei giardini ancora rimasti, si concentravano ai margini dell’Europa, in una delle regioni che custodiva nel nome la sua natura, la Transilvania.
Breviario delle Indie 24
«Andate per il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». È in fondo possibile pensare, ed esistono teologie e biologie che persistono nel pensarlo, che la vita nell’universo, la vita fondata sul Dna, sia così incommensurabile e complessa da essere impossibile anche in miliardi di galassie. La sua esistenza solo su un pianeta, non sarebbe fatto una improbabilità, improbabile e quasi impossibile sarebbe il fatto stesso che la vita che conosciamo, basata sul Dna, esista o sarà esistita in un momento del cosmo. Come i bestiari e gli arazzi fantastici del Medioevo immaginavano le forme della vita ai confini del mondo, così le previsioni di altre configurazioni della vita in altre galassie o in altri universi dell’universo.
Nel 1492 furono lanciate sul mare Oceano dei documenti destinati ad altre civiltà in altri mondi. Altri documenti furono spediti dopo, la targa delle sonde Pioneer 10 e 11 o il disco d’oro delle Voyager 1 e 2. Queste missioni erano le prime destinate all’esplorazione dello spazio profondo. Questi sono gli oggetti che ad oggi hanno lasciato il Sistema Solare. Le sonde Pioneer portano con loro delle placche metalliche con incisi lo spazio e il tempo d’origine. Le sonde Voyager portano nello spazio profondo, dall’anno 1977, e dal giorno del loro lancio, prima di raggiungere fra 40.000 anni la stella più prossima, 115 immagini della Terra, e i suoni delle onde, del tuono, della pioggia terrestri, e il saluto di 55 lingue umane, dall’accadico antico di 5 mila anni alla lingua wu, che ad oggi è ancora parlata in Cina.
I documenti di Colombo si sono conservati, intatti, fino ad oggi, resi pubblici solo nel 1985. Una prima lettera contiene una richiesta di salvacondotto per l’Ammiraglio, una raccomandazione per lui e per il suo viaggio attraverso le Indie. Nella prima lettera, Ferdinando ed Isabella chiedono ad ogni sovrano, principe, signore, ufficiale, di far passare quell’uomo che viaggiava «per il Mare Oceano verso le regioni dell’India».
Un’altra lettera è stata redatta in tre copie, due senza destinatario, che è stato lasciato in bianco, come il termine della rotta tracciata sulle carte. Così è scritto nel testo: al «serenissimo principe [spazio vuoto] nostro carissimo amico». Due delle tre copie recano lo spazio bianco, per scegliere, nel novero dell’ignoto, quale forma, quale nome sarebbe apparso sul cammino. Una terza copia fu invece predisposta per un destinatario preciso: il Gran Khan, era l’ignoto sotto un’altra forma, l’ignoto reso nominabile. Colombo, i sovrani spagnoli, il loro mondo, si figuravano quello che avrebbero trovato attraverso un libro, vecchio già di due secoli. Sapevano che avrebbero trovato ciò di cui parlava Marco Polo.
Il diario di bordo di Colombo non è sopravvissuto senza profonde modifiche e aggiunte posteriori alla Scoperta. La copia de Il Milione che Colombo e suo figlio Fernando possedevano, quella su cui si leggono le loro annotazioni, si è conservata intatta, e ora, è ferma in una biblioteca nella città di Siviglia.
Breviario delle Indie 25
Dal diario di bordo di Colombo, che ci è pervenuto non nello stato originario, i passi immediatamente prima e subito dopo lo sbarco. Non ci parlano, non riguardano, né pertengono a noi e al nostro dire. Sono e restano. Stanno, come le alberature e il sartiame, queste parole, e interrogano la noia, quale possa essere il peso e la percezione della noia, nella vita e come venga considerata, in fondo, la vita.
Perché parlare di questo, mi dirai e mi dici? Non possiamo parlare della nostra vita? Della comune, della vita senz’altra pretesa. Ma chiunque sa che è per ignorare questa vita che le alberature stanno e le vele sono state alzate. Chiunque sa che dentro il campo la vita sparisce, recinto sacro o azione. Ed è per questo che l’uomo ha creato il rito e di quel recinto, di quell’esperienza, questo è il sacro.
«Pero Gutiérrez: Così che, in realtà, hai rischiato la tua vita e quella dei tuoi compagni senza altro fondamento che una supposizione?
Colombo: È vero: non lo posso negare. Ma rifletti un attimo. Se oggi tu e io, e tutti i nostri compagni, non fossimo su questa imbarcazione, in mezzo a questo mare, in questa solitudine sconosciuta, in uno stato incerto e pericoloso al di là di ogni immaginazione; in quale altro stato passeremmo questi giorni? Forse più allegramente? Non ci troveremmo piuttosto in guai e ambasce maggiori, oppure saturi di tedio? Non voglio parlare della gloria e dell’utile che riporteremo indietro, se l’impresa riesce secondo le nostre speranze. Se questa navigazione non dovesse sortire altri frutti, a me sembra altamente profittevole, in quanto per un periodo di tempo ci libera dal tedio, ci rende la vita cara e preziose per noi molte cose che diversamente non prenderemmo in considerazione.
Venerdì, cinque ottobre, cinquantasette leghe, ma non ne dichiarai che quarantacinque. Il mare era in bonaccia e liscio. A Dio siano rese molte grazie, l’aria essendo molto dolce e temperata; erba, nessuna; uccelli, procellarie, molti; molti pesce-rondine caddero volando sul ponte».
Se oggi non fossimo in questo mare, in questa solitudine sconosciuta, cosa avremmo di meglio? Cosa potrebbe essere più degno di essere vissuto, di avere vita?
Saremmo forse più allegri, se non davanti alla morte? Questo sta dicendo l’Ammiraglio del suo mare Oceano e continua a dirlo, per sempre. A sette giorni dal contatto degli occhi, in una notte ferma, con la linea di una costa di terra.
«Giovedì, undici ottobre. Navigammo verso Ovest Sud Ovest. Mare grosso più che in tutto il viaggio. Vedemmo alcune procellarie e un giunco verde passare vicino alla nave. E allora ringraziai Iddio perché era un segno sicuro di terra. Quelli della Pinta scorsero una canna e un bastone, e pescarono un altro bastone lavorato, a quel che pareva, col ferro, e videro ancora un pezzo di canna, ed erba diversa dalla solita e che nasce in terra, e una tavoletta. Anche quelli della Niña videro altri segni di terra e un tronco di spine carico di frutti rossi. Dopo il tramonto tornai alla mia rotta di Occidente. Fino alle due dopo mezzanotte avevamo fatto novanta miglia: poiché la caravella Pinta era più veloce delle altre due, e ci precedeva, essa scoprì la terra e fece i segnali che avevo ordinato. Questa terra vide per primo un marinaio che si chiamava Rodrigo de Triana. Sebbene io stesso, la sera, alle dieci avessi visto una luce; chiamai Pero Gutièrrez e gli dissi che mi pareva una luce e che anch’egli guardasse, e così fece. Lo stesso dissi a Rodrigo Sánchez, il quale dapprima non vide nulla, ma dopo la vide una volta o due, come una candela di cera che si alzava e abbassava. Quando gli uomini ebbero detto il Salve Regina, che tutti i marinai sono soliti cantare a modo loro, li consigliai di fare buona guardia sul castello di prua e di far attenzione all’apparire della terra, e al primo che mi dicesse di veder terra gli avrei fatto subito il dono di un giubbone di seta, senza pregiudizio delle altre ricompense che i Sovrani avevano promesso, e cioè diecimila maravedis di pensione perpetua. Alle due dopo mezzanotte, mentre la luna, che si era levata alle undici, splendeva nel cielo, essendo nel suo terzo quarto, e alquanto dietro a Rodrigo de Triana, apparve la terra, a una distanza di due leghe circa. Subito ordinai di ammainare le vele, e avanzammo solo col trevo, che è la vela maggiore senza coltellacci; e così temporeggiammo, in panna, fino al giorno seguente. Il dodici ottobre, venerdì, calammo l’ancora davanti all’isola e ci preparammo a sbarcare. Subito vedemmo gente nuda sulla spiaggia. […] In questo frattempo camminai tra alberi che erano la cosa più bella che mai avessi vista…».
Eccola la notte che precede la veglia o il risveglio, la scoperta. Queste sono state le ore che hanno posto fine alla necessità di nascondere le leghe percorse, di sottrarre mare a chi si cibava della paura di avanzare. Queste le ore che hanno fatto esistere per l’ultima volta quell’erba verde nel mare come un mistero, una promessa, hanno fatto cessare di esistere quei tronchi lavorati, quel legno come qualcosa che proviene e risucchia, viene dall’incontrollato, né confine né perimetro, né carta.
Solo per una congettura avete fatto tutto questo? Sì, non posso negarlo. E questa terra vide per primo un marinaio che si chiamava Rodrigo de Triana. Nulla può essere detto con una lingua più marinara di questa. E questa terra, quale? E questa brevità cosa nasconde e non dirà mai? E cosa non dirà mai il nome di Rodrigo de Triana, quale la sua vita, dal primo all’ultimo dei giorni? con al centro il momento, in quella notte, verso le due, in cui nel suo silenzio, quel ragazzo ha visto qualcosa sulla linea dell’orizzonte. Come una candela di cera che si alzava e abbassava. E il modo in cui si aspetta il giorno dopo, per vedere in piena luce e scivolare sull’acqua con il primo sole tropicale. E camminai tra gli alberi, che non erano belli erano la cosa più bella che avessimo mai visto.
Breviario delle Indie 28
Gli uomini e le donne delle isole, degli arcipelaghi di queste Indie occidentali, sono nudi, lo sono perché letteralmente non sono mai stati cacciati dal Paradiso. La vergogna, il coprirsi, gli abiti, discendono dalla cacciata dal Paradiso. E da quell’evento ogni altra identità e forma di identità deriva, dalla soggettività, alle leggi, a Dio.
E quegli uomini e quelle donne appaiono nudi sulla spiaggia come nel primo giorno della Creazione. La loro nudità è la prima parola annotata su di loro nel giornale di bordo di Colombo, nel giorno dello sbarco, quel 12 di ottobre. Primo giorno della Creazione, ai suoi occhi, che si ambientano alla luce del Paradiso.
In quel paradiso, come in tutti, esistono solo alberi, uccelli e nudi. Senza armi né leggi. Senza religioni né idoli, come annota Colombo, sin dal primo giorno. Non possono, quegli uomini e quelle donne, avere un culto, avere una religione. Se sono nudi, sono anche privi di qualunque segno su di loro, qualunque determinazione. E sono nudi perché non macchiati da alcun segno su di loro. Se non sono stati espulsi dal Paradiso appartengono alla stessa discendenza di Adamo? Se non appartengono a quella discendenza, che comporta l’eredità della caduta, della colpa, del vestirsi, allora chi sono? A quale discendenza e a quale tempo appartengono?
«Tutti gli abitanti di quelle isole e della terraferma, pur avendo aspetto animalesco e andando in giro nudi, (…) sembravano loro molto ragionevoli e dotati di acuta intelligenza». Se pure nudi quei corpi sono dipinti, come dipinta appare la natura rigogliosa, efflorescente. In quanto nudi, quegli uomini appaiono corpi pronti per essere iscritti nella storia, che è il tempo e che è la salvezza per mezzo di Cristo. La loro nudità è la prima apparizione dell’idea di poter fare tabula rasa che si apparsa all’Occidente, alla sua imperante ascesa. Davanti agli uomini mai cacciati dal Paradiso e senza colpa, si muove e s’inalbera la colpa su tutte dell’Occidente. Se quegli uomini sono nudi disattendono un’aspettativa, essi non sono ricoperti di seta, come gli abitanti di Cipango, delle isole del Giappone più orientale, le prime che dovevano essere intercettate viaggiando verso ovest. Non assomigliano nemmeno ai sudditi del Gran Khan e della Cina ricca d’oro. Essi sono nudi e non hanno in nessun conto l’oro. Sono due volte nudi, anche nella semplicità dello spirito. E non posseggono davvero una lingua, perché non partecipano della storia in cui Babele è stata. Essi parlano ma non si riesce a capire perché non parlino lo spagnolo o il latino. Quei corpi non hanno lingue. Essi hanno statura, e colore della pelle, e bellezza. E alcune di queste donne tra loro sono molto belle, viene annotato, e alcune anche «bianche come spagnole». I loro re, non meno che i loro dèi inesistenti, sono nudi e non si distinguono che per la statura e la bella corporatura. I loro re impareranno a barattare l’oro per una giubba o un indumento di scarto.
Viceversa, già all’altezza del 3 dicembre 1492, si annota nel giornale di bordo, che tutti questi indiani credono che gli spagnoli siano arrivati dal cielo.