di Paolo Febbraro
Leggendo le poesie di Scherzi della natura (Valigie rosse 2022), ho trovato nei versi di Matteo Marchesini qualcosa di “vociano”, ovvero di strenuamente sincero. Sono testi che della poesia hanno le qualità ma non la supponenza, il non detto pre-poetico. C’è un pudore che si autodenuncia e che svergogna (come complici che si sarebbe potuto avere, e che non si sono voluti) gli automatismi e i fideismi che la Lirica ancora riesce a fomentare, zittendo le ragioni non della Storia, ma della dignità.
Se poi volessi trovare un singolo autore di riferimento, sceglierei Sbarbaro, le sue dimissioni perfettamente simulate, le sue esigenze di rastremazione del vero che diventano canto del vacuo e della delusione: «Ogni giorno così – niente rimane o passa. / Occhi allarmati, riflessi torpidi / trattieni appena i rimorsi». Certo Marchesini ha un Pianissimo complicato da molti sedicenti specchi. L’età di mezzo raccontata in questo libro (e non solo nella terza sezione che ad essa s’intitola) vede sbiadire le bisognose incompletezze dell’infanzia ma viaggia in un presente – per non dire del futuro – che non riesce a essere davvero consistente. La virtualità, così “assediante” in tutto il libro, è un orizzonte totale, un’immensa palizzata retroilluminata. Gli stessi umanistici libri, che il poeta scrive e legge, assumono nella loro pluralità un aspetto infestante e immateriale. Così, l’odissea di Marchesini è quella di chi, in prima istanza, non ha più radici o attriti formanti perché non si fida più del fatto che la terra sia tale.
Questo dice, e questo nega Marchesini, con il suo orecchio poetico ricco di memorie ancora attive, di consonanze e di potenze: afferma in Karma che «Le mura sono una bolla di sapone, / le sbarre una trovata / per esibire la rivalsa / in rima alternata»; ma limiti virtuali e poesia virtuale ancora sanno intrecciarsi più che abbastanza per far apparire il pesce d’oro della vita: «Di ciò che scrivo, nessuno qui ha mai parlato»; o anche «Il mondo ci offende per natura; / naturalmente lo provochiamo. / Eppure a volte siamo stati felici».
Ciò che offende, irrita e allergizza pure si fa imitare e dà forma, e la forma è sempre il nostro più astuto riscatto dalla scarsità dell’esistere. Per questo Marchesini ospita molta forma, ne è letteralmente capace: rime, rimealmezzo, versi canonici nella misura e nell’accentazione, anafore, “canzoni”, cabalette. La struttura in Marchesini ha quasi sempre un carattere tagliente come un enjambement («la tela sempre metafora di troppe / cose […] / la tela emblema di tutto ciò che non vale / la pena perché è troppo tardi»). Ci sono poesie che sono ordinatissime crisi d’ansia causate dagli ingombri dell’insensatezza, dalla loro capacità di cingere e circuire. In due poesie disposte fra loro a distanza, la neve è osservata nella mente e rimpianta come una sordina elegantissima che sia stata prosciugata e infranta da pascoliane “péste”, ormai ubique, pestilenziali. L’allegoria di Fortini cade all’indietro e – sfiorando Montale («sulla porta di casa ti assedia / solo il mondo in cui ci si vede / così bene che non ci si crede») – si ritrova a camminare accanto al dissonante e falso-solo Sbarbaro, come dicevo, Odisseo senza più sirene.
Il tema della forma torna anche in una delle sei traduzioni/tradimenti sistemate in Appendice, la celebre In viaggio per Bisanzio di Yeats, in cui alle sacre mura a mosaico dorato della città che fu porta d’Oriente il poeta chiede «accoglietemi / Nell’artificio dell’eternità», promettendo a sé stesso «Appena libero dalla natura, mai più prenderò / Da una creatura naturale un corpo».
Liberarsi del corpo, desquamarsi velo a velo fino a sbugiardarlo come seduzione altrui, teatro: c’è in queste poesie un desiderio di sparizione e rigenerazione, da ottenersi grazie al risalire indietro del Tempo, a quella illusoria scelta se vivere o meno che è contenuta nel feto, fino al “mito personale” dell’origine. L’infanzia è già in ritardo, è già una preda offesa e offensiva. Il poeta cerca un’anteriorità radicale, cerca I segni del destino a ritroso, in un «da sempre»: «Malati e morti / è come se lo fossero da sempre. / Fin da quel primo incontro su un campo di pallone / bisognava capirlo / da come il sole gli cadeva sulla nuca / raso dalla traversa». Sembra quasi che il poeta stia illustrando allegoricamente il significato profondo dei già notati enjambements, quelle spezzature che espongono i punti fragili, le esitazioni del senso. Ma l’origine è anche Storiografia (titolo della IV sezione), la cui prima sentenza è questa:
Immaginatevi il dinosauro:
seduto nella foresta
che sarà un giorno Epidauro
progetta il teatro futuro
e sulla testa
vede già il lauro
che al suo posto raccoglierà
un animale più piccolo e impuro.
Quel dinosauro è il poeta stesso, stavolta più gozzaniano che sbarbariano, attirato e come concentrato irresistibilmente dalla rima con Epidauro e lauro (e più in là, nella seconda strofa, con restauro), in una sequenza di illuministico straniamento, tramite cui l’origine brucia i tempi (dato che la Storia brucia le foreste) e appare in primo piano, satiricamente enorme. All’uomo, «animale più piccolo e impuro», spetterà la spettacolarizzazione pretestuosamente diversificata, la mise en scène, identica a quella che il poeta rimprovera a sé stesso.
Peraltro, lo straniamento percorre l’intero libro, a cominciare dai titoli di diverse liriche (Karma, Signifying Nothing, Weibliche, Setting, Forma futuri, Boomers, e l’italiano ma già berardinelliano Lezione all’aperto), in cui la lingua madre viene come sgambettata preventivamente, e messa in condizione di rialzarsi. Questo accredita anche in Marchesini la verità secondo cui la tradizione va conquistata e non semplicemente ricevuta. Uomo coltissimo, Marchesini deve confrontarsi con le vistose aporie della Raison, cosicché nel paradosso, nella rima stretta, nella contestazione in eco si attiva tutta una serie di contravveleni e – sempre illuministicamente – di selvatiche nostalgie.
Le poesie notevoli sono numerose; quelle decisamente belle poche non sono. Nessuna crisi d’inesistenza sembra in grado di sbiadire i tratti di questo poeta, la cui forza sta nella debolezza con cui afferra i propri indiscutibili presupposti. Per questo ho parlato di vociani, e giammai di crepuscolari. Marchesini fa benissimo ad andare fino in fondo, a non fidarsi di convenzioni che non sarebbero convincenti se rispettate, e che lo diventano se usate anche contro di sé, a titolo oneroso. C’è poi, nel libro, un capolavoro, una canzone libera leopardiana in otto strofe che merita di figurare tra i componimenti poetici maggiori scritti in italiano in questo secolo. S’intitola goethianamente Più luce, e Marchesini l’ha posta significativamente al centro del proprio volume, in limine alla terza delle cinque sezioni, come un pivot dell’intera opera. In altre occasioni, molto meno presenti in questo libro, Marchesini ha come il crampo stilistico dell’auto-delazione: nell’ansia di un lavoro ben fatto, esauriente, il filo d’acciaio inossidabile del suo ingegno persegue il nodo che pure sta aggrovigliando. In Più luce, invece, sintesi magnifica di un libro complessivamente più arioso, la lingua cede e concede, si ombreggia in dialogo, prende ampiezze e musica, s’innalza a ipotesi. Lo spazio-tempo si fa comprensivo, stavolta il pianeta non è percepito a secco, ma dotato di spessori atmosferici: gli oggetti e i gesti hanno una temperatura, la dolente comunione umana si apre a sentimenti purissimi, perché eventuali, non causati. È come se il poeta qui avesse letto La ginestra e L’infinito, in questa inversa successione e a brevissima distanza; l’idillio gemma dalla spietata consapevolezza, l’apprendimento dall’apprensione:
È un tempo senza rime né metafore.
Le cose ridiventano le cose,
canzoni d’estate le utopie,
blockbuster le speranze […]
Eppure ancora il mondo non ha perso
la sua aura, ancora non fa resistenza:
neanche adesso la vita
prende una forma chiara, una durata.
Calde le pietre, tiepide le pelli,
le frasi ironiche, angosciati i baci,
e dunque loro
non possono più essere che loro:
innamorati
di miraggi diversi ogni stagione […]
Da questo mondo che, nel due della coppia, «non fa resistenza», sorge in rima distante la domanda di «indulgenza» per i protagonisti, per le loro «rughe di bambini», e per il «tremito di figli / a cui tutte le cose / sono state di colpo note e inutili». La richiesta è rivolta al futuro, a un futuro probabile di servitù severe e di sacrifici umani, pienamente corporei. Ad esso, il poeta Marchesini si presenterà con una “dote” ormai definitivamente dimostrata, anche se mai del tutto passata in giudicato: è quella delle sue Relazioni, che lottano nella seconda sezione del libro, assai più sabiana che sbarbariana, e che incidono in lui delle sonore sconfitte domestiche, dolci e felicissime.