di Andrea Cortellessa
Una decina d’anni fa a Napoli, nell’ipogeo terribilistico delle Fontanelle, vado ad ascoltare Serge Latouche, il Saint-Just della «decrescita serena». Quello che dice in parte mi sento di condividerlo; senonché, all’apice della concione, il tribuno fa una pausa teatrale e si rivolge all’uditorio (il quale, nonché sereno, pare già un po’ contuso). «Tutti voi avete in tasca il vostro cellulare, vero?». Già sentendomi in colpa, il pensiero corre al mio nokietto da quaranta euro. «Tiratelo fuori! Guardatelo!», altra pausa: «Gronda sangue!». Aveva ragione, il profeta di sventure, a dire che le «terre rare» delle nostre batterie sono fra le cause più inconfessabili delle guerre in corso. Però il mese dopo lo smartphone me lo vado a comprare senza troppi pensieri. È un esempio di come i moniti più da malaugurio dell’ambientalismo rischino un effetto opposto a quello auspicato: Pinocchio spiaccica il Grillo Parlante e poi, bel bello, se ne va incontro alla catastrofe.
Un effetto simile mi fanno i saggi spesso acuti (a volte, invece, pensosissime scoperte dell’acqua calda), dei pensatori dell’ecological turn più in voga nelle gated communities accademiche. Leggendo Serenella Iovino ho capito perché: quando dice – lei che dell’Ecocriticism è oggi fra le voci più ascoltate – che «di fronte alla scomparsa dei luoghi, discorsi importanti come quello dell’Antropocene sembrano allo stesso tempo necessari e terribilmente astratti». Lei invece non solo teorizza l’«embodiment cognitivo»: lo pratica. Perché «per vedere davvero l’Antropocene dobbiamo imparare a collocarlo nei luoghi, a riconoscerne i volti: e questi luoghi e questi volti spesso sono i nostri». Per questo il libro (che avevo letto nell’edizione americana del 2016, ma ora – nella lingua madre dell’autrice, e «uscito dalle aule universitarie» – è tutto un’altra cosa) alterna e anzi ibrida, in modo quasi perturbante, un’acuminata griglia teorica – biologia geologia vulcanologia, e poi enologia pirotecnica e ogni «cultura materiale», ma anche filosofia semiotica e, immancabili, i gender studies – a riferimenti autobiografici quasi da personal essay. In specie nel capitolo sulla Napoli «porosa» delle celebri pagine di Walter Benjamin e Asja Lacis (a Torre Annunziata è nata cinquant’anni fa, Iovino, che ricorda quando adulta riconosce, nella spiaggia amata da Goethe, quella dove faceva il bagno da bambina) ma sempre in scena, il suo «io» non vuole «sovrapporre la sua voce a quella delle cose, dei luoghi o degli autori» che tratta, bensì mostrarsi «in un processo di negoziazione con un “non-io”» che è l’ambiente, certo, ma anche la concreta storia delle collettività che da quell’ambiente non possono essere disgiunte (come con intenzioni opposte fanno i negazionisti climatici e gli ambientalisti radicali che vagheggiano il suicidio di specie): perché «siamo nella maglia di materia e discorsi della realtà: non è possibile nessun fuori».
Proprio l’astrazione è l’idolo polemico di Iovino. La nostalgia dei «letterati» (non è citato Pasolini, ma è a lui che pensa la studiosa di Calvino) per un Eden rurale mai esistito (valorizzando invece le voci contadine raccolte nelle Langhe da Nuto Revelli; ingiusta però la riduzione di Fenoglio – autore non solo epico e metafisico, ma materiale ed “elementale” – al suo aspetto «mitologico»). La reazione «sublime», ma appunto calata dall’alto, degli architetti e artisti chiamati da Ludovico Corrao a ricostruire Gibellina dopo il terremoto del Belice del ’68 (apologo che non cessa di interrogarci, ma del quale Iovino infine riconosce l’«esorcismo antropologico»). In generale l’astrazione di un’arte, una letteratura e un pensiero incuranti del loro palinsesto materiale (non sono nominati Derrida e Lacan, ma è a loro che pensa la cultrice di Gilles Deleuze e Donna Haraway).
E poi soprattutto, certo, il modo col quale a suo tempo abbiamo impiantato la fabbrica moderna, con tutto il suo potenziale di emancipazione, in spregio del suo contesto: così trasformandola nel suo doppio horror, «meccanismo cannibale» di «rimozione cognitiva del mondo fisico». La storia della SADE del conte Volpi di Misurata (un acronimo che certo faceva sorridere il mecenate delle Biennali veneziane), col disastro del petrolchimico di Marghera (ma già quello del Vajont) «astratto, senza mondo, completamente disconnesso dall’evidenza testuale della realtà», è davvero «un film dell’orrore». Proprio il capitolo sulla Laguna mostra bene come Iovino riesca a far reagire – in accezione chimica – l’opera di poeti, narratori e drammaturghi con gli scenari simbolici, ma in primo luogo materiali, di quel «paesaggio come teatro» (per dirla con Eugenio Turri) che chiamiamo Italia. Esemplari le pagine su Andrea Zanzotto: del quale non si usano tanto le polemiche “civili” sul «progresso scorsoio» quanto – in «diffrazione», non certo il piatto «rispecchiamento» del vecchio storicismo – i suoi testi più alti: le pagine scintillanti sulla Venezia, forse «fantasma di se stessa» non meno di quelle abbrunate d’aere perso di Conglomerati, sulla «mortevita» di un «paesaggio» fattosi «purulento, cancerese, cannibalese».
Nessun autore quanto quello del Galateo in Bosco dimostra, contro le astrazioni dello spatial turn meno avvertito, l’assunto di Kant per cui la Storia «non è altro che una ininterrotta geografia»: perché segna a dito come vera sia pure la reciproca. Quella dell’Italia dell’ultimo secolo è una storia traumatica, sì, ma in conseguenza di scelte umane, economiche politiche culturali. Quello percorso da una catena di disastri idrogeologici – da Casamicciola sino alla cronaca delle scorse settimane – è un paese catastrofico e apocalittico, in senso etimologico. Che si rivolta, cioè, contro il suo corso (katà strophé) così rivelando il proprio rimosso (apò calýpto): inherent vice che al trauma preesiste, e quando si produce contribuisce a ingigantirlo. Se poco o nulla si può fare contro vulnera come quelli sismici, molto o tutto si deve fare dopo; le vere apocalissi culturali (quello di de Martino è un altro pensiero che Iovino mette a frutto) sono le ricostruzioni, le vampirizzazioni, le smemoratezze.
I paesaggi sono civili – cioè atti di cittadinanza – quando non solo sono vissuti, ma interpretati in un «racconto comune» (perché «l’impersonale è politico»): pena il restare lettera morta, come un canovaccio che non si traduca in spettacolo. Il dolore, diceva Primo Levi, «è il nostro guardiano»; ma perché si faccia cognizione del dolore (con genitivo soggettivo, non solo oggettivo) deve anche, scrive Iovino, «riabilitarsi come segno»: e così tradursi in «fatto storico», non più essere «subito come un destino». L’arte e la letteratura hanno dunque una funzione cognitiva, oltre che espressiva: sono memoria incarnata. In un’immagine presa a L’Aquila nell’aprile del 2009 dal fotografo Mario Amura (riprodotta nell’inserto a colori del libro), si vedono solo le mani spezzate dei soccorritori che si passano il documento di uno studente trovato fra le macerie: «una fotografia nella fotografia» che si fa «turbolenza» emotiva e «rende visibili le ferite nascoste».
Le pagine più belle sono quelle dedicate al Grande Cretto di Gibellina, di Alberto Burri. Che negli anni Ottanta spiana sotto un’immensa colata di cemento, manto funebre crudele quanto colossale, le rovine del paese maciullato. Non solo «sublime» opera di land art, ma monumento funebre «inumano» – aniconico e astratto com’è – «eppure totalmente intimo». La «porosità» è quella insolubile fra storia e geografia, cultura e natura, «io» e «noi». Cioè fra memoria del lutto e rinascita possibile.
Serenella Iovino,Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza, il Saggiatore, 2022, 276 pp. con ill. a col., € 22
[Una versione più breve di questo articolo è uscita su «La Lettura» il 2 ottobre].