di Paola Giacomoni

 

La questione del merito va affrontata in modo meno superficiale di quanto non facciano le analisi giornalistiche. Tra lo sconcerto di chi, a sinistra, si preoccupa del destino dei sottoprivilegiati in una scuola basata sul valore del merito e l’orgoglio di chi, a destra, ne afferma invece l’importanza in un’istituzione troppo dedita all’inclusività, alcune idee vanno approfondite con più attenzione. Anzitutto, come ha scritto Paolo Giordano sul Corriere della sera – tra i pochi a proporre interessanti riflessioni sui quotidiani – la nostalgia di molti (baby boomers) per il vecchio liceo o addirittura per la vecchia scuola media pre-riforma andrebbe davvero messa da parte. Occorre riconoscere che quelle erano istituzioni in cui non sempre la preparazione fornita era di livello superiore rispetto a quella delle scuole attuali, e che inoltre erano basate su una selezione allora davvero legata alle origini socio-economiche e familiari degli allievi: la bellezza del latino era deturpata dal suo essere strumento di selezione nelle scuole medie in cui ancora si bocciava. La Lettera a una professoressa e simili pamphlet dell’epoca, oggi considerati pezzi di antiquariato, fotografavano una situazione effettiva. Era una scuola del merito quella degli anni Sessanta? È a quella istituzione elitista cui si vuole tornare? Io credo che questo sia anzitutto contro la realtà.

 

Da allora il rapporto individuo-società è cambiato in modo essenziale. Le battaglie della generazione nata dopo la seconda guerra mondiale si svolgevano contro i divieti e le costrizioni, che imbrigliavano e normavano rigidamente le vite di tutti, in famiglia come nella scuola e nelle altre “istituzioni totali”. La costruzione di sé di un ragazzo o una ragazza negli anni Sessanta comprendeva la dura impresa di individuare nuovi valori violando – senza sentirsi in colpa – norme sociali considerate fino a quel momento “naturali”, facendone la base di un processo di emancipazione sentito come indispensabile. Si liberavano così intere generazioni dai lacci di antiche regole sentite ormai inadeguate per personalità emancipate e in grado di orientare se stesse, riallacciandosi agli ideali della «fuoriuscita dallo stato di minorità», valendosi del proprio intelletto senza la guida di un altro, tipici dell’illuminismo storico.

 

Ognuno recuperava così la possibilità di formarsi da sé, senza subire la propria esistenza come un destino, e senza costrizioni esteriori. Il benessere economico crescente consentiva di pensare che si sarebbe potuto fare a meno delle vecchie regole del vivere comune, trovando individualmente e creativamente la propria strada di libertà e di realizzazione personale. Ed è stato così per molti di noi, soprattutto per le donne, che hanno trovato nel lavoro un luogo di costruzione o anche di invenzione di sé – dato che i modelli mancavano – mettendo alla prova i propri talenti e le proprie legittime aspirazioni, sconosciute alle donne delle generazioni precedenti.

 

Da allora le cose sono molto cambiate e, proprio in seguito a quei sommovimenti generazionali, il ruolo delle norme e dei divieti si è progressivamente ma decisamente attenuato, consentendo alle singole individualità di essere al centro di molteplici scelte possibili, molte delle quali facilmente accessibili a molti di coloro che prima ne sarebbero stati esclusi. L’ottenimento di una libertà inimmaginabile agli occhi delle generazioni precedenti ha però prodotto un esito inaspettato e finora poco concettualizzato. Come osservano raffinati sociologi come Eva Illouz e Alain Ehrenberg, l’individuo si trova ora di fronte a una liberta illimitata e per questo sacrosanta, che fornisce un numero infinito di opportunità, rispetto alle quali tuttavia non sempre si è attrezzati con criteri d’azione e di comportamento che consentano di compiere le scelte più efficaci. Ci si trova cioè in una situazione di “incertezza ontologica”, cioè al centro di un mondo di scelte per orientarsi tra le quali non bastano istruzioni tecniche o indicazioni specifiche in questa o in quella situazione, ma serve un’attrezzatura psichica e valoriale molto complessa.

 

Si deve saper rispondere a un insieme di richieste che esigono anzitutto un’assunzione di responsabilità personale che non può più fare affidamento ai punti di riferimento religiosi o morali comuni considerati un tempo indiscutibili e nemmeno al supporto dei pari, della generazione cui si appartiene o della famiglia da cui si proviene, spesso impreparata a queste nuove sfide. L’individuo si trova quindi a far conto solo sulla propria personale capacità di individuare obiettivi e fini che consentano di attribuire un senso e una dignità alla propria vita; per questo deve disporre anche di un alto grado di resilienza, cioè della capacità di incassare insuccessi imparando da questi senza disintegrarsi al primo tentativo fallito. In altre parole: il problema per le nuove generazioni non è più se si ha il diritto di fare qualcosa nonostante le norme che lo vietano, ma se si ha la capacità di farlo, se si è all’altezza della scelta autonomamente compiuta.

 

L’ansia da prestazione prende il posto del vecchio senso di colpa: ogni volta devo poter dimostrare a me stesso/a e agli altri di essere in grado di assumere il comportamento adeguato, affrontando situazioni sempre nuove, solo in parte riferibili ad esperienze precedenti. Inutile richiamarsi ai vecchi valori o lamentarsi della loro scomparsa. La società di oggi, aperta a illimitate possibilità, non può far conto su criteri di orientamento tipici delle società tradizionali, ma non ha ancora trovato altri punti di riferimento comuni che funzionino da supporto nelle scelte dei singoli. Ne viene che qualcuno riesce nella costruzione di un sé forte e attrezzato alle diverse sfide, mentre altri, privi di punti di riferimento comuni robusti, restano indietro: sono i “vinti” di questa competizione, di questa lotta di tutti contro tutti, che, come nell’immagine di Hobbes, implica che, se alcuni riescono, altri necessariamente non ce la faranno e potranno soffrire di depressione o di ansia cronica, oppure si troveranno in casi estremi a rifiutare i legami sociali come nel caso degli Hikikomori.

 

Quello che a questo punto ci si deve chiedere è se in questo contesto le istituzioni educative debbano concentrarsi principalmente sul supporto di chi vince queste difficili sfide, i meritevoli appunto, o se debba porsi anche il problema di chi, per origine sociale, culturale, o anche per limiti individuali, non ce la fa, e tende a rinunciare sottraendo energie preziose alla società. A meno di non scegliere una sorta di atteggiamento turbo-liberista, in cui solo alla competizione più spinta spetta la costruzione di un assetto sociale accettabile, la questione si pone. Del resto lo stesso Hobbes, grande interprete dei nuovi problemi della modernità, sapeva bene che la guerra di tutti contro tutti è una situazione precaria e pericolosa e pensava che l’unica soluzione possibile, ma oggi impraticabile, al problema dell’insicurezza fosse quella garantibile da una gestione tirannica del potere sociale e politico, sottratta cioè all’arbitrio dei singoli.

 

Oggi le questioni vanno poste in modo diverso, ovviamente, e l’idea che il merito, da aggiungere alla denominazione di un ministero, possa presentarsi come criterio per orientarsi nel mondo di oggi, sembra davvero semplicistica. Il merito è elemento essenziale nella scuola e nell’università di oggi come lo era in passato e sono davvero esecrabili gli atteggiamenti indulgenti o falsamente egualitari che prevalgono nella mentalità di alcuni insegnanti disimpegnati che preferiscono alte votazioni immeritate proprio perché poco disponibili per primi a dare il massimo. Ma questo è controbilanciato da docenti preparatissimi e motivati, anche tra i giovani, non certo rari nella scuola italiana, a torto tanto deprecata. Chi eccelle normalmente trova comunque la propria strada, come è successo a molti, nonostante insegnanti mediocri quando non impresentabili, che – l’esperienza personale lo conferma – ci sono sempre stati, ma che andrebbero avviati ad altre professioni. I libri buoni ci sono e i molteplici strumenti di oggi pure: l’autoformazione è una parte essenziale di ogni percorso. Ma che facciamo degli altri? Dei modesti, degli ordinari, di quelli che non eccellono o di quelli che per contesto di origine non riescono a forgiare se stessi all’altezza delle sfide attuali, o anche degli sghembi, di quelli che presentano un’intelligenza di tipo non scolastico, spesso non compresa? Accedere all’università è una scelta e non un obbligo, ma di sicuro nella scuola deve esserci posto anche per loro e per le loro esigenze, per la loro formazione che deve essere sostenuta in maniera particolare, in modo da evitare che si disperdano e soccombano nella competizione per il merito e svuotino le loro vite senza alcun guadagno per la società.

 

Non credo che parole d’ordine come Dio, patria e famiglia possano in alcun modo aiutare a trovare l’approccio giusto nella vita della tarda modernità, dove i ragazzi girano il mondo fin da piccoli, conoscono bene altri modi di vita – o ne provengono – e non si limitano a riprodurre passivamente esperienze del passato, sia nelle scelte lavorative, sia in quelle esistenziali e affettive. Nonostante tutte le difficoltà accennate sopra, da questo non si torna indietro, e i tentativi di ripristinare antichi standard non hanno futuro. Una possibile direzione positiva che mi pare di intravedere è quella che sposta di nuovo la prospettiva da quella del singolo disarmato e disorientato verso i nuovi approcci globali – con cui peraltro saremo comunque costretti a fare i conti – in cui il nostro rapporto con la natura e con le nuove tecnologie digitali e informatiche necessitano di nuovi punti di riferimento universali. Un’etica della natura, che pur evitando nuove sacralizzazioni, indichi la via di comportamenti evoluti e rispettosi può essere molto di aiuto anche nelle scelte individuali; una riflessione epistemologica ma anche etica sulle opportunità straordinarie ma anche sui limiti dell’uso delle tecnologie informatiche e di comunicazioni riguarda tutti e deve essere perseguita proprio nelle diverse agenzie educative che formino l’essere umano del nuovo millennio senza nostalgie per il vecchio.

 

Questi aspetti, che oggi invece vengono lasciati alle scelte individuali senza orientamenti generali, forniscono il vero terreno di formazione su cui investire urgentemente, anche se in gran parte da inventare, ma in modo creativo e in chiave interdisciplinare. La ricerca su questi temi è vivace a livello internazionale e sempre più dovrà essere sviluppata, considerando non solo gli aspetti tecnico-pratici delle questioni ma anche quelli epistemologici e morali, che devono servire da supporto per le scelte di individui emancipati. Ci si può chiedere che cosa esattamente un governo che si presenta come “conservatore” vuole conservare in un’epoca di cambiamento veloce e radicale come la nostra. Il merito, la famiglia tradizionale e la nazione non sembrano essere una risposta all’altezza dei tempi.

6 thoughts on “Il merito e l’incertezza ontologica

  1. Innanzitutto negli anni sessanta la vita pareva ai malriusciti, sin troppo bella! C’era come primo problema la contestazione del fatto che si illudeva la gente; e chi lo faceva? I padroni, coloro i quali, secondo il più bieco marxismo, erano i responsabili della lotta di classe. Già allora si identificava, e ci si identificava secondo questa ideologia, con le classi meno abbienti individuate erroneamente con la classe operaia in generale. Ma si può dire che già la classe operaia non c’era più, scomparsa proprio sul più bello delle rivendicazioni internazionaliste; sembra infatti che Marx avesse organizzato le cose in modo tale da fare di Cesare il capro espiatorio della situazione degli schiavi (perchè a quel tempo si chiamavano così), in una sorta di redde rationem a posteriori nel quale le parti dovevano essere invertite, secondo la clausola fondamentale della religione della compassione nata dal positivismo nascente nel tardo ottocento.. Cosa c’entra col merito? Ma è chiaro, il filisteismo non aveva più armi e tutto fu….

  2. Articolo apprezzabile, ma molto generico. Si parla di sfide nuove, ma non si capisce che sfide siano, anche perché sembra che cambino di continuo. Si capisce invece che ci saranno sempre più sommersi e sempre meno salvati e che la scuola, ancora una volta, sarà sempre più impotente, perché dovrà farsi carico sia di proteggere i sommersi dall’emarginazione totale sia di garantire il successo ai salvati. Non si vedono ipotesi di soluzioni, ma solo problemi aperti.

  3. Il problema oggi non è quello, da tutti enunciato, di sostenere “chi, per origine sociale, culturale, o anche per limiti individuali, non ce la fa, e tende a rinunciare sottraendo energie preziose alla società” come dice l’autore del testo, cosa meritevole in sé ma poco realizzata, ma di chi ritenere meritevole e per ciò degno di essere premiato. Immaginiamo degli “Open” di tennis dove tutti possono iscriversi alle gare, ma la coppa viene data solo a chi non supera un certo quorum di ISEE, oppure proviene da certi paesi e contesti ritenuti bisognosi. Pensate che Federer o Djokovic onorerebbero il torneo con la loro presenza, sia pure come ospiti d’onore? Ti diamo una borsa di studio, ma solo a condizione che dimostri di essere nullatenente in una famiglia di nullatenenti, possibilmente con un fratello disabile o un nonno invalido a carico. Un premio è un premio e se, per caso, il destinatario è anche bisognoso, sarà ancora più gradito, ma non facciamone una questione di riposizionamento sui gradini sociali. Per quello si devono attivare altri strumenti. Una coppia di docenti in Lombardia, alcuni anni fa, per onorare la memoria del figlio morto prematuramente, mentre era ricercatore del Max Planck Institut, ha scelto di non inserire criteri di valutazione economica per concorrere alla borsa di studio intitolatagli nel liceo di provenienza, per non dare corsie preferenziali agli evasori e perché, soprattutto, il più bravo è il più bravo. Perché quando si parla di merito non si deve dare spazio al “benaltrismo” che ben altri sono i problemi della scuola, o ben altri sono quelli che vanno aiutati e così via. Fichte e Fraunhofer erano poveri, eppure riuscirono a studiare e lasciare il segno, ma Manzoni era un conte milanese e Leopardi pure, nelle Marche, ma entrambi non hanno tolto il posto a nessuno.

  4. Grazie per il commento. Nell’articolo ho scritto che il merito è essenziale nella scuola e nell’università e io sono tra quelli che non regalano voti per nessun motivo (insegno all’Università), e sostengo in tutti i modi gli allievi migliori, che meritano di proseguire gli studi e di trovare la strada più consona per loro. Qualunque docente è tenuto a farlo. Ma nella scuola chi non è altezza per vari motivi va sostenuto: la competizione spinta al massimo e il culto della performance può avere conseguenze nefaste. Coloro che eccellono sono sempre pochi. Gli altri – non solo i più svantaggiati socialmente, ma anche figli di insegnanti o professionisti che semplicemente sono mediocri o hanno un’intelligenza non scolastica – non possono essere “sprecati”. Certo, le borse di studio. cioè i premi per chi eccelle fuori dall’obbligo scolastico, vanno senz’altro al migliore, e basta.

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