di Paolo Costa
1. Giunti sulla soglia della vecchiaia immagino che capiti a molti di chiedersi chi ce l’abbia fatto fare.
Fare cosa, esattamente? Se, come me, siete persone che si sono impegnate molto nella vita con risultati inferiori alle vostre attese e ai vostri sforzi, la domanda riguarda precisamente la fatica, l’impegno, la cura che ci avete messo.
«Wozu?», si chiederebbe un tedesco con la giusta perentorietà – a che scopo, insomma?
Quando me la sono posta un pomeriggio d’aprile, mentre pedalavo accanto ad alcuni capannoni malmessi che esponevano orgogliosamente il nome dei loro proprietari, mi sono risposto senza indugio con una di quelle affermazioni generali che costituiscono il succo di ogni antropologia filosofica:
«Be’, volevo lasciare una traccia della mia esistenza – come tutti».
Sembra una spiegazione plausibile: siamo venuti al mondo senza un desiderio inequivocabile di esserci, ma una volta presa confidenza col contesto, è bastato un attimo perché si radicasse in noi la convinzione che non ce ne saremmo andati così come siamo arrivati, senza un perché. Da qui l’impulso a lasciare una testimonianza non effimera del nostro passaggio.
2. Accantoniamo, per un attimo, il chiodo fisso dei Bastian contrari da che mondo è mondo – la ricerca del fatale controesempio – e abbandoniamoci alla sequenza associativa più spontanea. Accettata la premessa, se non sbaglio, il passo successivo non sarà dirsi: «va bene, volevi lasciare una traccia: ma pensavi forse che sarebbe stata una passeggiata?» (una domanda che rischia di dare adito solo a sterili recriminazioni), bensì porsi un quesito più basilare: «ma, a conti fatti, ne valeva poi davvero la pena? Era davvero così essenziale lasciare un segno del proprio passaggio? È qualcosa di cui andare orgogliosi?»
3. Prima di rispondere all’interrogativo con un sì o un no cristallino, vorrei assicurarmi che esistesse un’alternativa. Voglio dire: è davvero possibile vivere una vita umanamente ricca senza provare almeno un briciolo di desiderio di autoaffermazione?
Il quesito è più insidioso di quanto non possa apparire a prima vista se nel porselo ci concentriamo sulla vita intellettuale, dove l’«io» empirico viene guardato spesso con sospetto. Il vero, il giusto, il bello, non bastano forse a sé stessi? Non sono perseguiti da chi ne riconosce l’importanza come fini in sé? Mi spiego meglio: l’astrofisico che desidera ardentemente comprendere la natura della materia oscura; il filosofo morale convinto che esistano principi morali assoluti; il poeta che aspira a far parlare la realtà da sé, liberandola dai sedimenti del linguaggio quotidiano, stanno forse cercando il modo più efficace per lasciare la propria impronta nel mondo?
Sembrerebbe di no. Tuttavia, non si può negare che alla base di questo tipo di sforzi vi sia non solo un senso del valore speciale del proprio impegno, ma anche l’aspettativa che tale valore sia riconoscibile pubblicamente senza sforzo. Certo, lo possiamo considerare come un mero gioco di luce riflessa, ma resta il fatto che occupandosi di cose elevate è naturale provare un sentimento di elevazione e, con esso, l’attesa di un segno, di una conferma sensibile della forza sui generis di cui si fa esperienza in questo campo. È in quest’ottica che merita di essere soppesata con la dovuta attenzione la forza dell’impulso intellettuale a durare (chiamiamolo pure, con un omaggio obliquo a Spinoza, il «conatus mentis»).
4. Probabilmente è stato così in ogni epoca, ma ai nostri giorni è particolarmente evidente che il mero sopravvivere allo scorrere del tempo sembra essere per la quasi totalità delle persone la principale conferma pubblica e il segno per eccellenza del proprio valore. Così come, nascendo, cadiamo sotto il giogo dell’istinto di sopravvivenza, di quel grado minimo di volontà di potenza che ci sorregge nella quotidiana lotta per l’esistenza, allo stesso modo i frutti del nostro ingegno (pensieri, invenzioni, opere d’arte, insomma i vari modi in cui si realizza in noi la creatività intellettuale) lottano per emergere dalla massa, aspirano a distinguersi, farsi notare, si sforzano di resistere al potere corrosivo del tempo e non sono mai sazi di riconoscimenti privati e pubblici.
Questa frenesia autoriale ha notoriamente vantaggi e svantaggi. Il sogno di un’immortalità terrena dell’anima è alla base, infatti, sia di quella forma di perfezionismo mentale in cui si manifesta un genuino desiderio di eccellere sia la ben più sterile vanagloria intellettuale, che ha gli stessi difetti di qualsiasi forma di esagerato amor proprio. Per altro, lo spietato criterio del successo (il «risultatismo») contro cui è destinata prima o poi a naufragare la vanità dei dotti è una delle poche espressioni della normatività della vita umana che non ha alcuna difesa contro il rasoio dell’argomento della fallacia naturalistica. In sostanza, basta avere superato la metà del cammino della vita per maturare un’opinione granitica circa la distinzione tra successo e merito, ivi compreso il successo cronologicamente più duraturo. Il semplice fatto che qualcosa piaccia o non piaccia non basta cioè per stabilire se meriti o no il gradimento che riceve, come pure il valore che le viene attribuito tramite tale gradimento. Non solo. Come se non bastasse, il merito ha inoltre un nesso labilissimo con la nostra vita personale. Voglio dire, è assodato che se qualche briciola di ciò che abbiamo prodotto nelle nostre vite ci sopravvivrà sarà non per le persone che siamo, ma a dispetto delle persone che siamo.
5. Esiste una possibile spiegazione alternativa della spinta intellettuale a durare, a immortalarsi. Questa, anziché chiamare in causa un presunto impulso originario di autoaffermazione, non bisognoso di ulteriore giustificazione – il conatus spinoziano, per l’appunto – fa appello a un altro aspetto della faccenda. Per molti, in effetti, la «scelta» di impegnarsi senza condizioni in quella che è diventata poi, col tempo, qualcosa di molto simile a una missione non è stata affatto una decisione deliberata. È venuta, per così dire, da sé, come se fosse un’appendice o, meglio, una regola costitutiva del campo intellettuale in cui ci si è avventurati in maniera non del tutto consapevole. In questo senso, non è sbagliato dire che nemmeno dopo la nascita dell’industria culturale e, oggi, dell’aziendalismo accademico, il lavoro intellettuale ha mai perso del tutto il suo legame genetico con il gioco. Se ci si pensa bene, nella dedizione maniacale per un tema di ricerca o per un autore si possono sempre scorgere tracce del vincolo che si annida nella terribile serietà del gioco (qualità che abbiamo sperimentato fin dall’infanzia).
Chi non ricorda il livello di assorbimento che poteva scaturire dalla formulazione delle parole magiche con cui hanno in genere inizio i giochi infantili – «facciamo finta che…» – e quanto potesse essere doloroso uscire da quella condizione di estasi individuale o di gruppo? In questo senso non sorprende più di tanto scoprire che esiste un legame sotterraneo tra studio, stupore e istupidimento, di cui registriamo per lo più solo i danni collaterali che non di rado esso causa nella relazione degli studiosi col mondo fisico e sociale.[1] La risata proverbiale della servetta tracia è in fondo una risposta innocua alle bizzarrie della pensosità (la «polarità soteriologica dello studio», come viene definita con un perdonabile eccesso di enfasi da Agamben) e alla sequenza di urti e traumi che da sempre l’accompagna.[2]
Ci si scontra con la vita, si studia, si diventa talmente assorti da sembrare talvolta stupidi e si muore constatando che anche le opere che sembravano più compiute altro non erano che studi preparatori se paragonati alle cose veramente importanti.[3] Ma come sarebbe potuto andare diversamente?
6. La questione, tirate le somme, resta aperta. Malgrado lo sforzo, non abbiamo fatto grandi passi avanti nella direzione auspicata. Il desiderio di lasciare tracce sembra essere effettivamente un corollario della gravitas – della «serietà», onestà, Redlichkeit – intellettuale. Avendo preso sul serio il «gioco» in cui siamo stati gettati, a quel punto non potevamo fare altro che lasciare una traccia «vincendo», dimostrando cioè nei e coi fatti il nostro valore, facendo onore al nostro nome.
Si tratta forse di un piccolo progresso nella direzione di una migliore comprensione di ciò che accade quando sperimentiamo sulla nostra pelle la forza di una vocazione artistica o intellettuale, ma non è esattamente quello che avevo in mente quando quel pomeriggio di primavera mi sono messo a rimuginare su chi me l’avesse fatto fare. In fondo, lo sapevo già che, essendo la persona che sono, mi sarei speso senza risparmio per fare al mio meglio ciò a cui ho scelto (più o meno consapevolmente) di dedicare una parte consistente del mio tempo. Ma il senso autentico di questo impulso era davvero lasciare un segno il più possibile duraturo del proprio passaggio su questo pianeta?
Quando in Centochiodi Ermanno Olmi fa dire allo stralunato protagonista della storia che «tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico» era sicuramente consapevole di dare voce a una tesi stravagante. Prescindendo per un attimo dallo sfondo cristologico del film, è proprio il paragone che sembra francamente oltraggioso. Sulla base di quale logica perversa si può mettere sullo stesso piano il valore della Divina commedia o di Guerra e pace con quello di una conversazione tra amici al bar? L’accostamento pare insensato da tutti i punti di vista.
A distanza di anni, devo ammettere, però, che l’idea che mi aveva scandalizzato al tempo, oggi non mi sembra poi così peregrina. Provo a spiegarmi rapidamente portando a conclusione il ragionamento prima che si ingarbugli ulteriormente.
La mia impressione è che, con la sua iperbole, Olmi ci stesse tacitamente suggerendo di cambiare metafora per placare il sospetto, non meno iperbolico, che il nostro impegno intellettuale sia stato prodigato invano. Nelle vite umane il punto, se ho capito bene, non è tanto «lasciare una traccia», quanto «trovare la propria voce».
Quando parla di «caffè», Olmi ha evidentemente in mente quelle chiacchierate a ruota libera che di tanto in tanto ci capita di fare quando invitiamo un amico o un’amica, appunto, a «prendere un caffè». La scena la conosciamo tutti: ci sediamo l’una di fronte all’altro, cominciamo parlando del più e del meno finché, senza che ce ne accorgiamo, veniamo a tal punto assorbiti dalla conversazione che ci dimentichiamo di noi stessi e quando diamo un’occhiata all’orologio è passata un’ora o magari, nel caso dei più giovani o più fortunati, un intero pomeriggio. La tesi che vorrei suggerire in conclusione, perciò, è che il tipo di condivisione intellettuale che Olmi aveva in mente proclamando, contro l’opinione prevalente nella comunità dei dotti, il valore incommensurabile di un «caffè con un amico» è effettivamente uno dei pochi beni puri dell’esistenza umana e che tale forma di fioritura dell’esistenza non sia possibile o, quantomeno, non sarebbe altrettanto gratificante, se prima le persone che si incontrano non avessero trovato la propria voce.
Questa, ridotta all’osso, è la mia risposta alla domanda da cui ha preso le mosse il mio ragionamento: non c’è modo di trovare la propria voce senza quell’impegno incondizionato. Quindi: per la durata, no, ma per quel caffè, sì, ne è valsa la pena, tutto sommato.
Note
[1] Il nesso è stato segnalato qualche anno fa da Giorgio Agamben con la consueta erudizione. Cfr. G. Agamben, Idea dello studio, in Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 43-45.
[2] Cfr. Ibidem, p. 43.
[3] Cfr. Ibidem, p. 45. Per una riflessione dello stesso tenore cfr. B. Lerner, Odiare la poesia, trad. it. di M. Testa, Sellerio, Palermo 2017.
È una riflessione notevole. Grazie.
Sì, capita a molti.
Ma anche in quel finale “trovare la propria voce” c’è un inghippo, perché “voce” non può non chiamare a sé non poche espressioni, tipo, per fare un solo esempio, “avere voce in capitolo” – avere valore: l’io valgo.
Ecco, in quel “caffè con un amico” la questione dell’io valgo viene meno
Circa così
Invece del fancazzismo del trovare la propria voce in un pomeriggio davanti a un caffè, affidare la propria voce al prossimo (anche nel senso di “colei o colui che viene dopo”). L’eredità e la memoria sono la continuità della propria voce. Per questo mi pare che le donne -in verità- questo problema non se lo pongano, per la certezza di trasmettersi in corpo e anima. O quelle che invece se lo pongono mantengano una specie di fiducia ontologica in uno scambio o trasmissione di tipo “necessario”.