di Paolo Zublena
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la dua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 22 aprile 2012].
Con Giuliano Mesa se ne è andato forse l’ultimo dei modernisti. E – intendiamoci – non si vuol dire “l’ultimo” secondo la vulgata di un’elegia della fine che vede dappertutto epigoni esausti o svagati postmodernisti: “l’ultimo” intende designare colui che, con radicalità, ha compiuto un estremo tentativo di rappresentare l’istanza modernista in modo adeguato ai tempi.
Al centro di ogni modernismo sta un progetto di ricerca della verità, verità ontologica in primo luogo. Secondo una movenza non certo maggioritaria in questi anni, Mesa non ha dissolto il concetto di verità in una semplice accoglienza nei confronti della venuta dell’altro, ma ha preteso che la poesia dicesse quel che il linguaggio ordinario non sembra più in grado di dire: non la verità dell’oggetto, ma la verità dell’evento: una verità etica. Nell’indistinzione ontologica dei fatti, la scrittura punta a risemantizzare con cura le tessere del linguaggio per restituirle a una nuova vita relazionale, etica.
La poesia di Mesa è una poesia materialista (corporale), politica (etica) e tragica (dolorosa). L’ultimo attributo può sembrare il più scabroso: è possibile il tragico nel tempo – sancito dalle avanguardie – dell’impossibilità del tragico (al limite proponibile solo con la maschera del grottesco)? Si direbbe di sì: perché Mesa mette in forma la negatività inconsolabile e inconciliabile della vita offesa. Del resto è proprio Adorno, spesso citato – e pour cause – da Mesa, a garantire (nella Dialettica negativa) il diritto di espressione artistica della sofferenza. Il rispetto della dialettica negativa per la contraddizione, per l’aconcettuale è esattamente quanto di adorniano Mesa usa per correggere il pur amato finale “mistico” del Tractatus di Wittgenstein. Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere: ma la poesia può tacerne rappresentandolo, articolandolo dialetticamente attraverso il suo peculiare silenzio scritto. Tragedia dolorosa della dialettica, tragedia del soccombente: «Tragico è soltanto quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione. Ma tragico è anche soltanto il soccombere di qualcosa cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si chiude». Così Szondi nel Saggio sul tragico, e allo stesso modo il Tiresia di Mesa: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapito».
Il tragico di Mesa nasce dal tentativo di attingere una verità etica, verità che è in rapporto dialettico di negazione con il falso vero del linguaggio. L’arte, per operare una critica dialettica del negativo, deve essere qualitativamente enigmatica. Il contenuto di verità dell’opera d’arte risiede proprio nel suo carattere di enigma, nell’inesauribilità della sua presenza formale negata alla concettualità. Questa verità, che alberga solo nella concretezza del sensibile, può essere etica e politica: solo l’arte è in grado di dare voce ai vinti, ai sofferenti cui la storiografia non rende mai positivamente giustizia.
Siccome Mesa ritiene che il legame (sociale, etico, politico) tra linguaggio e verità si sia definitivamente spezzato, anche le operazioni di demistificazione del falso che smascherano il discorso ideologico dominante (la poetica delle avanguardie, per semplificare al massimo) non appaiono più praticabili. Resta la possibilità di ricominciare da capo, di rimotivare un lessico, di metterlo in comune con un interlocutore, di pronunciare una minima verità relazionale, etica: «(di una vita non rimane quasi niente / e quello che rimane, spesso, non è vero) / (prendi a misura, adesso, cos’è il rumore, / fuori, della notte) // (di più falso non c’è nulla / che il voler dire il vero) / (è vero questo approssimarsi. / è vero che a qualcosa, sempre, / noi ci approssimiamo / – anzi, ci avviciniamo, / che suona meglio, / ed è meglio di niente)». In questo testo memorabile dei Quattro quaderni si esprimono alcuni temi cardine: la frattura tra esistenza e scrittura, il venir meno del rapporto fiduciario tra parole e cose, l’intrinseca falsità di un dire puramente tetico, la verità unicamente relazionale (non per caso il soggetto qui si manifesta grammaticalmente attraverso un noi), e perciò etica, di un tentativo di approssimazione all’evento.
Se prendiamo in mano il prezioso volume uscito presso La camera verde nel 2010 – Giuliano Mesa, Poesie 1973-2008 –, possiamo ripercorrere il cammino che ha portato a un testo così perfetto.
Gli esordi del giovanissimo Mesa (Schedario, 1978) sono legati a una rappresentazione del caos vicina alla neoavanguardia (complessità lessicale, frammentazione sintattica): di quegli anni è, tra l’altro, il forte legame con Adriano Spatola. Nel successivo Poesie per un romanzo d’avventura gli sparsi brani di un conato di narrazione non destinato a cristallizzarsi in storia esprimono, in una sintassi meno frammentaria ma tendente all’esitazione, le prime strutture di ripetizione. I loro scritti (che unisce i volumi I loro scritti del 1992 e Improvviso e dopo del 1997) raccoglie la presenza di un profluvio di voci attraverso una sintassi ancora giustappositiva e slabbrata (anche se più vicina allo standard) e una testualità governata da una coerenza opaca. Si afferma il tema beckettiano della necessità-impossibilità di finire, come si legge in perfetta sintesi autonimica in questi versi: «vita, che dopo vita finisce e non fa somma, / qui non fa più che sottrarre poco al nulla, / qui si fa un’altra parlata, rifinta e rifinita, ancora, ancora». L’interminabile finire si lega a quel sottrarre poco al nulla che – metaletterariamente – designa l’operazione della scrittura, il cui fine è appunto rimotivare la lingua finta attraverso la finzione. Il ruolo di testimonianza verso il grido di sofferenza dei soccombenti trova una manifestazione esplicita in (ballata): «muschio muscolo mucosa / l’avvenimento avviene, non va a credito di ipotesi: / muore il cavallo in guerra, dilaniato / il fante e il cavaliere, / il pupo senza la carne equina, la nonnina. / numanzia kronstadt barcellona / l’avvenimento avviene e si dimentica / (queste parole qui non lo ricordano). / oswiecim mostar bhopal / hiroshima dresda, vanno bene? / nome non dice cosa / cosa non fa spessore / e tutto questo un giorno non farà più rumore). / santiago kigali baghdad / la filastrocca nota: / muschio muscolo mucosa / la materia muore, la storia non si duole». La declinazione corporale di un’attenzione alla materia pressoché lucreziana, l’inefficacia del linguaggio del discorso pubblico (i nomi propri della tragedia storica da soli non fanno memoria), l’indifferenza della storia agli eventi: tutti temi centrali della poesia di Mesa. Qui si raccolgono attorno a un istituto formale decisivo, e da questo libro in poi sempre più importante, che è l’iterazione fonica (cellule che si ripetono): allitterazione o paronomasia tendenti alla alta stringenza di una figura etimologica, anche quando essa non sia storico-linguisticamente fondata («muschio muscolo mucosa»). Nessuna autonomia del significante, appunto: in Mesa la ripetizione di suoni ha un carattere necessitato, etico, in quanto stabilisce una relazione semantica di tipo appunto etico tra le tessere lessicali interessate.
Il fenomeno si riscontra al meglio nei già citati Quattro quaderni (2000) – e il discorso potrebbe essere allargato al livello metrico-ritmico (nonché macrotestuale). La controllatissima ripetizione di temi sempre variati ha alla sua radice il tema fondamentale del «suono della fine»: beckettianamente «è già finita, / non resta che finire». Una voce desoggettivata (anche se di quando in quando ricomposta eticamente in un noi) rimusica di continuo – nella corta svolta del respiro dei versi brevi – la vanità del linguaggio, la negazione dialettica del negativo, attraverso una testualità più compatta, un lessico centrato su poche parole-chiave.
Lo stesso controllo, ma con un potente personaggio-poeta al centro (non locutore, ma allocutario: caricato dalle tragedie della storia della responsabilità di testimone), lo si trova nel successivo, mirabile Tiresia. oracoli riflessi (2008, stesura risalente al 2000-2001). Il cieco indovino resistente in vita a suo discapito è una chiara figura del poeta che deve farsi carico delle violenze sui senza parte, sui vinti (una voce, la loro voce morta gli dà del tu, lo evoca e convoca): deve attestarne, in uno sfinimento immanente, la muta presenza, il dolore senza riscatto: testimonianza che è implicitamente sfida radicale all’ideologia dominante, fedeltà a un destino di finitezza senza rassegnazione.
Il presente, l’ora (nunc) attuale dell’emergenza campeggia fin dal titolo nel più recente nun. Un ulteriore e più radicale processo di sottrazione, un beckettismo senza riserve – attraverso le consuete ripetizioni e variazioni di un tema – registra pietosamente, ma adesso anche più espressionisticamente (a livello fonico e lessicale), la ferocia impietosa della negazione calcificata nel fuoco dell’immanenza.
Al fuoco di quella immanenza per sempre incisa nel presente, le tue poesie continueranno a dirci la sofferta e sofferente pietas del non finire. Addio, Tiresia.
[Questo articolo è già apparso su «Alfabeta2»]
[Immagine: Giuliano Mesa].
Bello e necessario.
(Ma Giuliano Mesa meritava quelle due facce odiose in cima a un articolo che lo riguarda?)
Per Manganelli: si è trattato di un problema tecnico, ora risolto.
Benissimo. Stonavano, quei due.
Concordo: bello e necessario e una preghiera: continuate a pubblicare interventi su Giuliano Mesa. Un grazie anche per aver pubblicato il suo TIRESIA qualche mese addietro.
Intervento eccellente, che – forse per la giusta enfasi sull’aspetto linguistico e ciò che sta a monte di esso – più di altri letti in passato su Mesa mi ha consentito di “essere introdotto” a questo importante autore, di cui colpevolmente finora ho letto solo poco e sulla rete. Rimedierò presto.
va ringraziato Zublena per la sua attenta sintesi dell’opera e della voce del poeta… che chi non ha conosciuto può ancora scoprire con la guida di uno scritto come questo o come il saggio “Voce e paesaggio” dedicato a Mesa da Andrea Inglese a margine dell’antologia edita in «Atti impuri», n. 3, giu. 2011, pp. 114-125 [ fascicolo disponibile per esempio qui: http://www.bol.it/libri/Atti-impuri.-3.Luogo-scritture/na/ea978888915557/%5D
Una nota a margine.
La foto in home è di Mario Fancello, direttore della rivista “Cantarena”, e risale al 2002, in occasione di un incontro di Giuliano con gli studenti di una scuola media di Genova.
Qui, per chi fosse interessato, c’è il reconto della giornata:
http://rebstein.files.wordpress.com/2011/08/giuliano-mesa-interazioni-genova-2002.pdf
Un grazie a Paolo Zublena per la sua interessantissima analisi.
fm
Questo articolo mi sembra piuttosto confuso nell’uso della terminologia. Anzitutto, verità ontologica o etica? Ontologia ed etica non sono la stessa cosa, e soprattutto non è detto che ci sia una verità etica, visto che, secondo alcuni filosofi, il giusto e il buono sono distinti dal vero. Inoltre – questione più importante ancora – la poesia è aconcettuale? La musica senz’altro lo è: il suo linguaggio non è linguistico-verbale, infatti: il che la sgancia da qualsiasi rapporto con il concetto, che invece si esprime sempre in maniera linguistico-verbale. Neanche per le arti visive, dove predomina l’immagine, sarei sicuro che siamo in un campo del tutto aconcettuale, tanto è vero che c’è un’arte “concettuale”. E allora? La poesia può sembrare aconcettuale solo nel caso del genere lirico (quello su cui era modellata, del resto, la fallace concezione crociana dell’intuizione-espressione). Appena si esce dalla lirica – con la poesia epica o gnomica, o magari “didattica” alla Brecht -, il momento concettuale, sia pure in modo diverso da quello che si può trovare in un’opera saggistica, salta fuori chiaramente.
nel volto stesso di Mesa era scolpito l’inconciliabile, di chi sa la sofferenza. Ricordiamolo, grazie a Zublena (confuso solo per gli insensibili pedanti, per noi più che lucido).
ringrazio di cuore tutti coloro che hanno trovato l’intervento stimolante e utile per tenere viva la memoria di Mesa e per dare un contributo all’interpretazione della sua poesia.
@rino genovese: non mi pare che la terminologia sia confusa. Che ontologia e etica non siano la stessa cosa, lo hanno spiegato anche a me. Che una linea della filosofia novecentesca tenda a sussumere l’ontologia all’etica, sembra d’altronde fatto tanto discutibile quanto piuttosto risaputo. Ma il punto è un altro: Mesa aveva una poetica (di cui – è ovvio – rg può essere del tutto legittimamente ignaro). Io, con un implicitezza non poi così implicita (alcuni segnali ci sono), riprendo nella prima parte del mio testo le posizioni del Mesa interprete di sé medesimo: “verità etica” è sintagma e concetto caro a Mesa (si veda qui http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/DialoTes.pdf , ma i luoghi da allegare potrebbero essere molti). So anch’io che non tutti concordano sull’esistenza di una verità etica: ma per Mesa era un concetto decisivo e fondamentale come oggetto di ricerca nella scrittura.
(Tra l’altro, per una sintesi dell’estetica e della poetica di Mesa rimando volentieri a un recente saggio di Gian Luca Picconi: L’epoca di un’epoché: Giuliano Mesa e la storia, «il verri», 46, giugno 2011.
Non vedo poi dove mai avrei parlato di “poesia aconcettuale” (sulla quale il ragionamento pianamente didattico di Genovese è per altro condivisibile). Ho scritto, invece, che la dialettica negativa adorniana fornisce a Mesa uno strumento per il rispetto della contraddizione, dell’aconcettuale che alberga nella realtà, e – attr. ciò – avalla il diritto alla rappresentazione artistica della sofferenza. Dove allora la “poesia aconcettuale”? Ho parlato semmai, sempre adornianamente, di enigma: il contenuto di verità dell’opera d’arte sta nell’inesauribilità della sua presenza formale che si nega alla (piena) concettualità: questo non vuol dire che un testo poetico o – poniamo – un manufatto artistico debbano o anche solo possano essere interamente aconcettuali. Non lo erano per Adorno, non lo sono per me, né credo lo fossero per Mesa.
mi pare d’altronde – se posso concedermi questa piccola autoglossa – che la parte più interessante dell’intervento (recensione diventata purtroppo in itinere necrologio) sia quella in cui cerco di mettere in rapporto un insieme di tratti formali ricorrenti con il complesso di idee che nella sua forte autocoscienza Mesa esprimeva in poetica, e sia pure en artiste (ma non in modo vago, impreciso o corrivo): un singolare rigore tra pensiero e prassi di scrittura, non il meno rilevante tra i tanti motivi della grandezza di questo autore che oggi ancora piangiamo. E che spero, anche attraverso i nostri perfettibili tentativi di interpretazione, sia nel futuro sempre più letto e amato.
Grazie delle precisazioni, caro Zublena. Ammetto che la seconda delle mie obiezioni possa essere nata da un fraintendimento da parte mia.
Per proseguire eventualmente nella discussione, faccio notare che per Adorno l’arte in quanto arte, non soltanto la poesia, prende le parti del non-identico (o dell’aconcettuale). Il problema è che questa poetica “modernista” è proprio soltanto una poetica, e serve tutt’al più a interpretare un certo numero di opere del Novecento; non è una teoria dell’arte capace di rendere conto di tutta l’arte (anche di quella che ad Adorno non piaceva o nei confronti della quale aveva serie obiezioni: tra le avanguardie, per esempio il surrealismo). È proprio il momento di identificazione del non-identico, presente in una certa arte per così dire concettuale, che ad Adorno non va bene. Questo limita, sia pure dall’interno, persino il modernismo.
caro Genovese, la ringrazio a mia volta della replica. In effetti la posizione adorniana di Mesa è molto radicale, e per questo parlavo di un radicalismo modernista di Mesa in tempi di postmodernismo. In effetti la teoria dell’arte di Adorno è fortemente centrata sulle esperienze delle avanguardie e del modernismo maturo, in cui prevale la rappresentazione della contraddizione, dell’aconcettuale nella realtà (e come tale esercitava un grande fascino su Mesa, e poteva certo costituire un alimento teorico della sua prassi). Del resto è vero che molta arte novecentesca, al di fuori del rivo avanguardie-radicalismo modernista è basata sul “momento di identificazione del non-identico”: per Adorno forse arte troppo incline alla conciliazione, a quella serenità impossibile nel tempo dell’industria culturale. Certo il fatto che Mesa fosse su queste posizioni adorniane non fa di esse l’unica prospettiva estetica per leggere la modernità e il suo dopo.
saggi e appunti di Giuliano Mesa, implicanti anche le questioni rilevate da Zublena, escono in questi giorni su “punto critico”. penso di far cosa utile linkandoli qui, via via.
ringrazio Zublena poi per questo suo contributo importante. Se l’autore è d’accordo, sarei peraltro felice di poterlo ripubblicare-archiviare anche su “punto critico”.
qui intanto Frasi dal finimondo, tratto da Ákusma. Forme della poesia contemporanea.
http://puntocritico.eu/?p=3879
Un caro saluto a tutti,
f.t.
“Dire il vero”. Appunti, http://puntocritico.eu/?p=3885
Complimenti per il breve saggio. Chiarissimo, profondo. Pur essendo un lettore di poesia, anche contemporanea, per me Mesa era solo un nome. Ora scopro che devo assolutamente leggerlo.
C’è una tensione etica sovrumana, che ingloba anche il linguaggio della neoavanguardia ma, come dice benissimo l’autore, ne spunta i compiacimenti ludici. Chissà, se supereremo mai le categorie di modernismo e post modernismo (ce ne libereremo, forse è ora), una poesia come questa resterà proprio per questa dimensione umana e morale.
Non si finisce mai di imparare (ed è molto bello). Grazie
“Tre lemmi”. http://puntocritico.eu/?p=3872
“Domande. Da Samuel Beckett”. http://puntocritico.eu/?p=3931