Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
di Paul Guillibert e Frédéric Monferrand
(Traduzione dal francese a cura di Giulio Gonella e Matteo Polleri)[1]
Qual è il soggetto politico della crisi ecologica? Il libro di Latour e Schultz parte da un’ipotesi sempre più condivisa: per mantenere le condizioni di abitabilità della Terra è necessario rompere con lo sviluppo irrefrenabile della produzione. Ma al di questa ridefinizione “terrestre” delle classi, gli ecologisti devono diventare la nuova classe dominante, o piuttosto lottare insieme agli altri sfruttati per abolire le classi?
Il problema sollevato dal Memo sur la nouvelle classe ecologiste di Bruno Latour e Nikolaj Schultz, (La Découverte, Paris 2022) è di importanza primaria per le lotte sociali nell’Antropocene: qual è il soggetto politico della rivoluzione ecologista? Attraverso quali lotte, quali alleanze e quali fronti sociali questo soggetto si costituisce? E a partire da quali esperienze comuni? Sfortunatamente, il loro volontarismo politico e la loro miopia economica non consentono di rispondere a queste domande. La pista di una ricomposizione ecologica del proletariato apre a un immaginario politico ben più rivoluzionario e fecondo dell’idea di una classe ecologista incarnata dagli attuali partiti verdi. La ricomposizione del proletariato permette di mantenere la centralità politica del concetto di classe a partire da un’esperienza condivisa da umani e non-umani, che riguarda lo sfruttamento e la messa al lavoro, il dominio e lo spossessamento.
Philippe Pignarre ha ragione: la piccola opera pubblicata recentemente da Bruno Latour e Nikolaj Schultz merita di essere presa sul serio[2].
Gli autori vi condensano in effetti in maniera particolarmente suggestiva, per non dire provocatoria, due idee con le quali non è possibile essere in disaccordo. La prima è che l’ecologia costituisce ora come ora la questione politica principale, quella da cui dipende “il senso della storia”[3] e intorno alla quale si ridefiniscono gli antagonismi socio-politici, i loro attori e il gioco delle loro forze. La seconda è che le tradizioni politiche di cui siamo eredi, in primo luogo il liberalismo e il socialismo, sono ben lontane dal fornire gli strumenti di cui abbiamo bisogno per affrontare seriamente la questione.
Possiamo in effetti concordare con Latour e Schultz sul fatto che queste due tradizioni di pensiero sono state globalmente caratterizzate da un analogo progetto sviluppista e produttivista. Seppur opposte dal punto di vista dagli obiettivi che perseguivano (l’espansione da un lato, e l’addomesticamento, o addirittura l’abolizione del capitalismo, dall’altro) e dei soggetti di riferimento (la borghesia in un caso, il proletariato e i suoi alleati nell’altro), queste ideologie condividono indubbiamente una matrice comune. Invocando i benefici della “crescita” da un lato, e la necessità di “sviluppare le forze produttive” dall’altro, entrambe le ideologie sono state sostanzialmente concordi nel fare dell’accrescimento del volume della produzione la condizione necessaria per l’avvento di una società dell’abbondanza e della libertà: solo la liberazione degli essere umani di fronte alla scarsità naturale, o artificiale, poteva mettere fine alla violenza e alla miseria che affliggeva la maggior parte della popolazione[4]. Questo modello interpretativo è ormai obsoleto, per la semplice ragione che si trova alla base della situazione catastrofica nella quale ci troviamo oggi.
È obsoleto dal punto di vista materiale, perché lo sviluppo a tutto campo della produzione ha perturbato gli equilibri da cui dipende l’abitabilità del pianeta. Ma, secondo Latour e Schultz, lo è anche e soprattutto dal punto di vista intellettuale, perché la focalizzazione dei moderni sulla sola produzione li ha resi incapaci di integrare gli equilibri ecologici nelle loro scelte politiche e spiega l’impotenza nella quale ci troviamo oggi. Da questa constatazione deriva la tesi centrale dell’opera, secondo la quale “l’inflessione decisiva” che impone l’ecologia alla politica è di “mettere al centro il mantenimento delle condizioni di abitabilità del pianeta, e non più lo sviluppo o la produzione”[5]. Da questa tesi, nota fin dal rapporto Meadows del 1972, derivano non soltanto la riformulazione del concetto di classe proposta da Latour e Schultz, ma anche le diverse strategie ecologiste che i due autori cercano di delineare. Cominciamo ad analizzare queste ultime.
Socialismo e produzionismo
Non poter più riporre le nostre speranze nell’espansione economica garantita dalla produzione è una cosa. Ma dobbiamo proprio concluderne che è necessario “abbandonare completamente il concetto di produzione”[6] come sostengono Latour e Schultz? Tutto dipende, evidentemente, da cosa intendiamo per “produzione”. Se la parola ci fa venire in mente un “ideale”, un “orizzonte”, addirittura “un’ossessione”[7], allora possiamo certamente abbandonarla. Per inciso, questa era già la posizione di Marx, principale bersaglio delle critiche rivolte dagli autori del Memo alla tradizione socialista: l’autore del Capitale non dava importanza all’avanzamento tecnologico della produttività del lavoro in sé, ma al fatto che esso avrebbe permesso all’umanità di liberarsi dal lavoro stesso per dedicare il proprio tempo ad altre attività. Il “produttivismo” di Marx puntava perciò all’abolizione della produzione, o perlomeno alla riduzione drastica dei tempi e delle energie che gli esseri umani vi dedicano.
Le cose si complicano non appena la produzione non viene identificata più come un ideale, ma come una realtà che deve essere descritta più precisamente. “Produrre”, spiegano Latour e Schultz, “è assemblare e combinare, e non generare, la continuità degli esseri da cui dipende l’abitabilità del pianeta”[8]. Per quanto sia fondamentale per il Memo, è difficile capire che cosa comporta esattamente questa distinzione. Delle due cose l’una: o Latour e Schultz oppongono due tipi di attività empirica, e allora possiamo dar loro ragione senza problemi, perché non è la stessa cosa assemblare o combinare degli elementi in vista della fabbricazione di un artefatto (una freccia, una casa o un computer) e prendersi cura degli esseri viventi. Oppure stanno opponendo due modi generali di rapportarsi alla realtà – o due ontologie – e risulta allora difficile cogliere la differenza tra un’ontologia della generatività e un’ontologia della produzione.
Certamente, si può dire che la visione cartesiana del mondo ci ha insegnato a considerare la realtà in modo meccanicistico, come un insieme di parti esterne le une alle altre che l’umanità, situata in una posizione di superiorità, può “assemblare e combinare” a suo piacimento, come i mattoncini del Lego. Sarebbe quindi davvero interessante sostituire a questa ontologia meccanicista un’ontologia dinamista per la quale la realtà consiste essenzialmente di un processo generativo di forme di vita umane e non-umane in relazione tra loro e con l’ambiente. È però paradossale constatare che, contrariamente all’uso di questo concetto reso famoso da Latour o Descola, “naturalismo” è il nome che la tradizione filosofica accorda a questo tipo di ontologia. Per l’autore di Politiche della natura, come per l’autore di Al di là di natura e cultura, il naturalismo designa invece la credenza in un ordine meccanico della realtà dal quale gli esseri umani sfuggono misteriosamente[9]. Per un aristotelico come Marx, invece, il naturalismo si riferisce al fatto che l’essere umano è una “parte della natura”, “un essere sofferente, cioè condizionato e limitato, come anche gli animali e le piante”[10]. Più paradossale ancora è notare che Marx mobilita questa ontologia naturalista quando definisce la produzione non come un processo di assemblaggio e combinazione, ma come “generazione pratica di un mondo obiettivo”[11]. Attraverso questa definizione, Marx sottolinea che produrre non è mai creare ex nihilo, ma sempre trasformare quello che la natura stessa produce, cioè influenzare i processi di cui essa è la sede. La sua ontologia della produzione rinvia anche all’idea secondo la quale “tutto quello che è naturale deve essere generato”, cioè a una concezione della natura come potenza di auto-generazione della quale gli esseri umani sono un prodotto alla pari di altri, esprimendosi a modo loro quando trasformano il mondo per soddisfare i propri bisogni. Questa visione rivela già, perciò, un’ontologia della generatività. L’alternativa tra “generazione” e “produzione” proposta da Latour e Schultz perde così di senso.
Le differenze iniziano ad emergere, piuttosto, quando si guarda all’uso che Marx fa della sua ontologia. Dall’idea molto generale secondo la quale la realtà è essenzialmente produttiva, Marx deriva un’antropologia filosofica (l’umanità si distingue dalle altre specie per la sua capacità di trasformare consciamente il proprio ambiente), una teoria sociale (le società si definiscono attraverso i modi in cui si producono i mezzi di sussistenza), una filosofia della storia (la storia coincide con questa trasformazione continua della natura umana e non umana nella produzione) e una teoria politica (i produttori di questo mondo hanno il potere di trasformarlo). Più che come un “produttivismo”, il marxismo è presentato come un “produzionismo”, cioè come una forma di teorizzazione che riconduce allo schema della “produzione” così tante funzioni da perdere il suo potere descrittivo.
Anche le pratiche di sussistenza con le quali gli esseri umani hanno soddisfatto, e in alcuni luoghi continuano a soddisfare, i loro bisogni sono troppo diverse tra loro per essere universalmente descritte in termini di “produzione”. Caccia e raccolta riguardano più che altro il raccogliere, per l’appunto. Quanto all’agricoltura, essa consiste più nel curare le condizioni di sviluppo spontaneo del vivente, piuttosto che nel trasformare l’oggettività naturale attraverso la tecnica in funzione di un obiettivo soggettivo[12].
Due conclusioni sembrano quindi emergere: la prima è che il concetto di produzione perde di valore nel momento in cui lo si allontana dalle attività di fabbricazione degli artefatti. La seconda è che il produttivismo marxista può essere considerato come il risultato di un’indebita generalizzazione dell’esperienza delle società tecniche, “moderne” o “capitaliste”, nelle quali le attività propriamente produttive occupano effettivamente il centro della vita economica[13]. Perciò, se entrambe queste conclusioni fanno appello a una revisione del marxismo, nessuna delle due implica di “abbandonare la produzione”. Esse ci invitano, al contrario, a guardare in faccia l’importanza che la produzione ha acquisito nelle nostre società, e ciò per una ragione così semplice che ci vergogniamo un po’ a ricordarla: non ci si emancipa da un vincolo reale “contestandone la nozione”.
Capitalismo e produttivismo
L’argomentazione sarà probabilmente più convincente se guardiamo a quello che costituisce il vero oggetto della riflessione marxista: non la “produzione in generale”, che in fondo è solo una “astrazione razionale”, o una finzione utile per confrontare le diverse società, ma la produzione specificamente capitalista, che è molto più reale. Ora, tra tutte le diverse caratteristiche del “modo di produzione capitalistico” messe in luce da Marx (la proprietà privata dei mezzi di produzione, la generalizzazione dello scambio attraverso il mercato, lo sfruttamento della forza-lavoro salariata) ce n’è una in particolare che merita la nostra attenzione: esso è il solo modo di produzione emerso nella storia orientato non a soddisfare i bisogni individuali o sociali, ma a valorizzare valore investito in salari e mezzi di produzione. Da questo fatto deriva che, prima di essere un’opzione intellettuale più o meno esaltante, il produttivismo è una proprietà reale del capitalismo: è in quanto fanatico della valorizzazione del valore che egli [il capitalista] costringe spietatamente l’umanità alla produzione per la produzione. Strutturalmente basata sul vincolo della “produzione per la produzione”, l’accumulazione di capitale è allora senza fine né misura: non soltanto non conosce limiti, ma è anche animata da una tendenza a superare qualsiasi ostacolo alla sua espansione.
Latour e Schultz lo riconoscono a modo loro quando indicano la “la passione moderna per il superamento continuo delle barriere”[14]. Ma le ragioni che giustificano l’attribuzione di questa passione ai “moderni”, invece che ai “capitalisti”, non sono chiare. Sperano in questo modo di guadagnarne in intellegibilità? Rischiamo invece di rimanerne delusi, perché il concetto di “modernità” è piuttosto indeterminato, più indeterminato ancora di quello di “produzione”. Esso tiene insieme connotazioni storiche (il periodo che comincia nel XV secolo), geografiche (l’Occidente), sociologiche (la differenziazione della società in sfere di attività relativamente autonome), ontologiche (la grande divisione tra Natura e Cultura), normative (la messa al centro della ragione, della libertà, del lavoro, dell’individualità) e politiche (il progetto di un’autonomia individuale e collettiva). Difficile, dunque, riscontrare l’unità teoretica di questo concetto.
Così, una formazione sociale può essere “capitalista” senza essere compiutamente “moderna” nel senso appena delineato: è il caso dell’India o del Giappone, dove l’accumulazione di capitale prodotta dalla distruzione ambientale non si può attribuire alla “grande divisione” tra Natura e Cultura o alla valorizzazione sfrenata dell’iniziativa individuale. Ma allora, Latour e Schultz sperano forse che sostituire “modernità” a “capitalismo” possa ri-orientare l’azione politica? La scommessa sembra rischiosa anche in questo caso, non soltanto perché gli obiettivi a cui una politica “anti-moderna” può mirare sono ben più vaghi di quelli che propone di perseguire l’anticapitalismo classico (l’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione), ma anche perché una politica di questo tipo presenta potenzialmente degli accenti reazionari di cui gli stessi Latour e Schultz sottolineano il carattere sospetto: “il terreno dei reazionari, scrivono, è ancora più astratto di quello dei globalisti. È definito soltanto dall’identità, dai morti, e non dagli innumerevoli viventi che gli danno spessore”[15]. Malgrado tutte queste difficoltà, il fatto che i due autori evitino accuratamente di parlare di “capitalismo” ha almeno il pregio di costringerci a giustificare ancor più l’importanza che gli accordiamo.
Abbiamo sottolineato che il modo di produzione capitalista si caratterizza per una tendenza strutturale al superamento dei limiti. Alcuni di questi limiti sono sociali – il saper-fare e i mestieri che fanno riferimento alla “manifattura” e alla “grande industria”, le resistenze operaie che vanno superate o integrate come motore dello sviluppo economico – e questi limiti sono quelli che hanno catalizzato l’attenzione dei socialisti del XIX e del XX secolo. Ma altri sono naturali, e sono questi ultimi i più importanti da un punto di vista ecologista. Tra questi limiti naturali, Marx citava prima di tutto quello incarnato dal corpo umano, un corpo che deve nutrirsi e riposare, la cui salute e longevità dipendono dalle condizioni in cui è costretto a spendere le sue forze, e che oppone resistenza al suo sfruttamento[16]. Ma Marx sottolineava anche i limiti che impone la terra alla sua coltivazione intensiva, perché i cicli di rigenerazione dei suoli non coincidono con quelli che governano l’accumulazione. I cicli naturali sono infatti stravolti dal fatto che le sostanze nutritive prelevate dalla terra vengono accumulate nelle città sotto forma di rifiuti e inquinamento, invece di essere restituite alla terra come fertilizzante naturale. È questa l’idea della “frattura metabolica”, un’idea così centrale per l’eco-socialismo che siamo stupiti di non vederla comparire nella breve relazione di Philippe Pignarre sul trattamento che Marx e i marxisti riservano alla natura[17].
Senza dubbio, nessuno di questi limiti è un ostacolo assoluto all’espansione del capitale. In un certo senso, sono anche occasioni che il capitale coglie per riprodursi “su una base più ampia”: il primo limite lo porta ad affinare le sue strategie di sfruttamento (articolazione del lavoro salariato e del lavoro forzato, alternanza del lavoro notturno e diurno, impiego di donne e bambini, meccanizzazione della produzione); il secondo lo spinge sulla via imperialista dell’estrazione di fertilizzante nei paesi del Sud globale (il guano peruviano importato in massa in Inghilterra per arricchire il suolo impoverito). Tuttavia, questi limiti ci restituiscono anche l’immagine di una perenne fuga in avanti, nel corso della quale lo sfruttamento dei corpi e l’impoverimento dei suoli si intensificano e si diversificano. “La produzione capitalista – scrive Marx – sviluppa la tecnica e la combinazione di processi di produzione sociale soltanto distruggendo allo stesso tempo le fonti vive di ogni ricchezza: la terra e i lavoratori”[18]. Se aggiungiamo che questo processo di distruzione perpetua si accompagna all’emissione esponenziale di CO2 nell’atmosfera[19], possiamo concludere che, a differenza di quello che suggerisce Philippe Pignarre, non è banale affermare che il capitale distrugge le nature umane e non umane attraverso l’estrattivismo e l’agricoltura intensiva, l’inquinamento atmosferico e l’accumulo di rifiuti. Dobbiamo essere intellettualmente e politicamente realisti, perché le condizioni di abitabilità del pianeta sono direttamente minacciate dalla continuità della produzione, cioè dall’ingiustizia e dallo sfruttamento. Non c’è alternativa, perciò, tra preservare le prime e interrompere questi processi: le due lotte vanno portate avanti insieme. “L’eco-socialismo”, sul quale Latour e Schultz non dicono una parola, non ha mai detto niente di diverso.
Un’ipotesi metodologica può, d’altro canto, spiegare la singolare assenza di questa tradizione di pensiero nel Memo. Partendo dall’idea di un’incompatibilità fondamentale tra le filosofie della terra e le teorie dell’emancipazione, Latour e Schultz non possono che ignorare i tentativi formulati all’interno di queste coordinate teorico-politico. Riconoscerli significherebbe negare il punto di partenza della loro ricerca. Il silenzio sull’eco-socialismo, allora, è spesso accompagnato da una forma di condiscendenza nei confronti dell’anticapitalismo[20].
Proletariato del vivente o classe ecologica?
Quello che invece possiamo concedere a Philippe Pignarre è che gli eco-socialisti hanno troppo spesso la tendenza ad applicare i propri teoremi marxisti alla catastrofe in corso e a vederla come un’ulteriore ragione per essere anticapitalisti. È come se il degrado ambientale fosse solo un’altra conseguenza negativa da aggiungere alla ben nota logica del capitale. Ora, ci sembra che al contrario, le degradazioni debbano portarci ad una revisione e ad un allargamento della nostra concezione di “modo di produzione capitalista”. A questo proposito, non possiamo che seguire Latour e Schultz quando sottolineano che il “sistema di produzione” è “incastrato” in un insieme molto più vasto che comprende i viventi e gli ambienti che questi hanno contribuito a generare. Ma questo insieme non è lo sfondo entro cui si svolgono le nostre azioni: non soltanto noi dipendiamo dagli esseri che vi abitano e dai processi che avvengono al suo interno (il suolo che lavoriamo è il prodotto di un insieme di relazione ecologiche, il petrolio che brucia è il risultato della degradazione termica della materia organica), ma questi ultimo reagiscono a loro volta alle nostre azioni e diventano quindi degli attori con cui fare i conti. Ecco un’occasione per interrogare il trattamento riservato nel Memo al concetto di “natura”. Questo non rinvia infatti necessariamente ad un “fuori” indifferente, cosa su cui Latour non ha mai smesso di insistere, ma designa allo stesso modo, come abbiamo visto, una potenza di auto-generazione, cioè la produzione di forme di vita in interazione le une con le altre. L’importante è però sottolineare ancora una volta che questa “prodigiosa estensione del materialismo”[21] non è altro che un aggiornamento del naturalismo, che cambia la nostra concezione del capitalismo.
Alla questione sollevata da Latour e Schultz – “che cos’è un’analisi marxista che si concentra anche sulla riproduzione del non umano?”[22] – possiamo rispondere che essa potrebbe consistere nell’analisi del modo in cui il capitale da un lato sfrutta la produttività della natura a proprio vantaggio, e dall’altro intensifica la resistenza. Ora, questo tipo di analisi già esiste o è perlomeno in fase di sviluppo. Si trova in particolare in autrici e autori come Alyssa Battistoni e Jason Moore negli Stati Uniti, o in Léna Balaud e Antoine Chopot in Francia, dalle quali prenderemo semplicemente in prestito un esempio[23]. Quando un’azienda agricola sparge concime animale molto ricco di nitrati, che andrà a finire nell’acqua e inquinerà le zone umide, non sta esternalizzando i propri scarti al di fuori della sfera sociale dell’economia, ma piuttosto integrando in essa le zone umide e i loro abitanti, “internalizzandoli”, per così dire, come subappaltatori e trasformando un intero ecosistema in una fabbrica di riciclaggio. Ora, questa impresa cesserebbe semplicemente di essere competitiva se dovesse pagare per i “servizi” forniti gratuitamente dall’ecosistema in questione o investire in un’infrastruttura artificiale sostitutiva. Alla luce di questo esempio, è chiaro come l’appropriazione della gratuità dell’agency dei non-umani costituisce la condizione dell’accumulazione di profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro umano. Studiare queste condizioni ecologiche non implica “abbandonare la produzione”, ma piuttosto ampliare la comprensione della produzione capitalistica, esponendo l’insieme di pratiche e processi senza i quali essa non potrebbe continuare, alla maniera delle femministe che hanno svelato la dipendenza dello sfruttamento dal lavoro salariato dalla riproduzione della forza-lavoro fornita gratuitamente dalle donne nella sfera domestica[24].
Tocchiamo perciò la questione centrale sollevata dal Memo: la questione della ridefinizione delle classi nell’era dell’Antropocene. Così come il femminismo della riproduzione sociale si è chiesto se le donne confinate nella sfera domestica facessero parte della classe operaia, o se al contrario costituissero un gruppo politico autonomo[25], si pone oggi il problema di sapere se i viventi della cui agency si appropria il capitale possano essere integrati in una concezione allargata del proletariato. Percepiamo subito la difficoltà: da un lato, l’esperienza della messa al lavoro condivisa da umani e non umani (gli abitanti di un ecosistema, le piante geneticamente modificate, gli animali d’allevamento) dà all’idea di un “biotariato”[26] o di un “proletariato del vivente” una certa credibilità. Dall’altra parte, tuttavia, dobbiamo riconoscere che solo i lavoratori umani si esprimono e si organizzano consapevolmente contro il loro sfruttamento. Léna Balaud propone perciò di riutilizzare il vocabolario operaista per riflettere sulla composizione ecologica della classe operaia nell’Antropocene: la “composizione politica” della classe, cioè la soggettività e il comportamento operaio, non è più co-estensiva rispetto alla sua “composizione tecnica”, cioè alle sue modalità di sfruttamento[27]. L’intera natura è messa al lavoro, ma solo una delle sue “parti”, come avrebbe detto Marx, può davvero porre fine a questa situazione.
Possiamo senza dubbio vedere questa difficoltà come un motivo in più per liquidare il patrimonio intellettuale delle lotte moderne per l’emancipazione. Ma possiamo anche vederla come una sfida, un’opportunità per ravvivare, arricchire e trasformare l’immaginario politico ereditato dal movimento operaio. Il problema diventa allora il seguente: come può una frazione del proletariato dei viventi – quella che l’evoluzione ha dotato della capacità di deliberare collettivamente – lottare in modo da portare gli interessi di tutti gli altri, o addirittura in modo da prolungare la resistenza spontanea che le piante che sfuggono ai diserbanti o gli animali non umani che fuggono dagli ecosistemi degradati oppongono già, a modo loro, alla loro messa al lavoro[28]? Si cercherebbero invano i mezzi per affrontare questo problema nel Memo. Perché la “classe ecologica” che Latour e Schultz invocano non fa riferimento ad un’esperienza sociale condivisa – quella del lavoro e del dominio – che quindi determina un interesse comune per l’emancipazione. Essa riunisce semplicemente la somma degli individui che si dicono pronti a impegnarsi per l’ecologia: “parlare di ‘classe’ significa quindi tenersi sempre pronto alla battaglia. Allo stesso modo, parlare dell’emergere di una ‘classe ecologica’ significa necessariamente offrire una nuova descrizione e nuove prospettive di azione. L’operazione di classificazione, per questa classe in formazione che chiamiamo ‘ecologica’, è necessariamente performativa”[29].
Dalle “geoclassi” alla “classe ecologica”
La nostra critica può sembrare severa. Dopotutto, Latour e Schultz sanno bene che l’interesse della nozione di classe è di rendere conto di una esperienza in maniera da permettere a coloro che la vivono di politicizzarla. Essi aprono anche a un’attualizzazione stimolante di questa funzione indissolubilmente “descrittiva e performativa” del concetto di classe. Quello che dobbiamo descrivere d’ora in poi, spiegano i due autori, non è più solo – anzi, ma ci torneremo, non è più tutto – il rapporto con il lavoro o la proprietà. È l’appartenenza a un territorio, la sensibilità a un luogo e le reti di attaccamento materiale ai mezzi di sussistenza che vi si stabiliscono. Ritroviamo così l’intuizione alla base del concetto di “geo-classe” introdotto nei testi precedenti di Latour[30]. Più interessante ancora: egli affida all’inchiesta il compito di portare queste classi geo-sociali alla coscienza di sé, un concetto che riprende dalla filosofia pragmatista di John Dewey[31]. Tuttavia, che lo sappia o meno, il sociologo della scienza si ricollega anche a una delle pratiche fondanti del movimento comunista: la pratica dell’inchiesta operaia che, dal lavoro pionieristico del giovane Engels al movimento autonomo italiano degli anni Settanta passando per il maoismo, è sempre stata una delle principali risorse di auto-formazione del proletariato[32].
Qualunque fosse la loro forma (distribuzione di questionari, racconti in prima persona o discussioni informali con gli operai), queste inchieste miravano sia a raccogliere e condividere le conoscenze sull’esperienza proletaria, sia a unificare i soggetti di questa esperienza in un gruppo sociale antagonista. Per analogia, potremmo quindi sperare che l’inchiesta geo-sociale permetta di far emergere le linee di demarcazione tra usi incompatibili di uno stesso territorio (per esempio, la creazione di un centro di raccolta dei rifiuti o l’apertura di un giardino condiviso) e di organizzare la lotta per la generalizzazione degli usi sostenibili della Terra, contro quelli che invece contribuiscono a renderla inabitabile. Ora, senza avere dei pregiudizi sui risultati di queste inchieste, è altamente probabile che esse mostrino almeno in parte alcune divisioni sociali ben consolidate. Contrariamente a quanto talvolta suggeriscono Latour e Schultz, infatti, gli usi della terra non sono una pura questione di preferenze individuali o di opinioni personali. Rispondono a interessi materiali divergenti, che a loro volta dipendono da posizioni antagoniste occupate all’interno di un rapporto sociale di dominio. Non tutti possono permettersi il lusso di “disabitare i rapporti di produzione da soli”[33].
Prendiamo l’esempio della discarica di cui sopra: possiamo immaginare che la sua creazione sia nell’interesse a lungo termine dei capitalisti che sperano di trarne profitto e nell’interesse a breve termine dei lavoratori che ne riceverebbero un salario. Ma sarebbe sbagliato concludere che capitalisti e operai appartengono alla stessa classe, per una semplice ragione: i primi traggono profitti materiali dal lavoro dei secondi, che soffrono in modo vitale per lo sfruttamento e l’esposizione ai rifiuti. Ciò che fa una classe, in questo caso non è la comune dipendenza dalle infrastrutture del capitale. È il modo in cui questa dipendenza viene vissuta, il fatto che in un caso, ma non nell’altro, assume la forma di una dipendenza forzata e vitale. L’argomento è ancora più valido se, come incoraggiano Latour e Schultz, spostiamo l’attenzione dalla produzione all’abitabilità. A questo proposito, bisogna essere seri e chiedersi: chi vive nei territori dove si trovano le discariche? Non i loro proprietari, ma i lavoratori che vi sono sfruttati e, più in generale, le popolazioni razzializzate esposte in modo sproporzionato ad alti livelli di inquinamento e rifiuti[34]. Negli ambienti degradati, gli esseri umani e i non umani soffrono delle stesse attività industriali. Non avrebbe quindi molto senso sostituire le “geoclassi” alle “classi sociali tradizionalmente definite”[35]. L’interesse di questo concetto sta nel fatto che, al contrario, ci permette sia di dare un nome alla territorializzazione delle classi in aree iniquamente degradate, sia di capire che le ingiustizie ambientali non si riducono al dominio di classe.
Paradossalmente, è questa la forza del concetto di “classi geosociali”. Ciò spiega perché esso sia scomparso dai testi di Latour a favore di quello di “classe ecologica”. Quanto al dominio sociale, non è mai menzionato nel Memo. A questo proposito, l’interesse teorico dei lavori personali di Schultz non ha trovato una degna collocazione nel Memo[36]. Da qui la grande ingenuità politica dimostrata dagli autori. È come se le “vecchie classi dirigenti” avessero “tradito” la loro stessa missione storica[37]. Ricordiamo loro che le classi dirigenti (chi sarebbero? I capitalisti o i leader politici? I proprietari dei mezzi di produzione o i “competenti” ingegneri e funzionari pubblici?) non hanno tradito proprio nulla: hanno seguito coscienziosamente il progetto di un ordoliberalismo e poi di un neoliberalismo autoritario per quasi un secolo. Per i “socialisti” coerenti, l’orizzonte della lotta di classe non è mai stato quello di sostituire una classe dominante con un’altra, ma di rovesciare il modo di produzione capitalistico e abolire, finalmente, le classi stesse.
La classe ecologica contro la lotta di classe
Di contro, facciamo fatica a scrollarci di dosso l’impressione che il progetto politico di Latour e Schultz sia quello del dominio di una classe tecnocratica composta da “attivisti”, ma soprattutto da “industriali” e “inventori”, da buoni dirigenti consapevoli della loro dipendenza dall’abitabilità del pianeta[38]. Dopo il “parlamento delle cose”, dovremmo ora affidarci a una classe ecologica, cioè a un’élite capace di incarnare adeguatamente i bisogni della Terra e dei suoi abitanti. La composizione di questa classe non è molto chiara, ma certamente include “gli innovatori spossessati della loro capacità di invenzione”, “gli intellettuali e gli studiosi” che sarebbero “tutti […] pronti a opporre la loro razionalità all’economia della conoscenza”, e anche “gli ingegneri frustrati nel loro desiderio di innovazione”[39]. Tuttavia, questo progetto tecnocratico non è solo problematico in sé, ma lo è anche in relazione all’ipotesi di Latour e Schultz, sotto due punti di vista: dal punto di vista del rapporto tra la “classe ecologica” e il “partito” a cui il Memo è di fatto indirizzato; e dal punto di vista del rapporto tra questa classe e coloro contro cui dovrebbe lottare. È qui che entra in gioco la questione centrale del rapporto tra classe sociale e partito politico.
Se il partito deve rappresentare la classe, come sembrano pensare Latour e Schultz a proposito dei Verdi europei, allora esso deve emergere da una procedura di rappresentanza (elezione, designazione, nomina, mandato), in cui i rappresentanti nominati personificano la maggioranza o le posizioni più avanzate del gruppo che rappresenta. Pertanto, il gruppo rappresentato (la classe) è considerato diverso dall’organizzazione che lo rappresenta (il partito). L’intera storia del movimento operaio testimonia del fatto che i suoi appartenenti decidono di formare un partito. D’altra parte, non si decide di formare una classe sociale, ma si appartiene a una classe, con una coscienza più o meno chiara di questa appartenenza. Per Latour e Schultz, la classe si riferisce a coloro che decidono di unirsi attorno a un programma ecologico ancora vago, definito sulla base dei loro interessi comuni. Così definita, sembra esserci una confusione tra classe e organizzazione di classe (in questo caso, i partiti Verdi europei). Si potrebbe quindi vedere, in questa riduzione della classe al partito, un dogmatismo che non ha nulla da invidiare agli usi più autoritari del concetto di partito d’avanguardia nel marxismo-leninismo ortodosso. Il partito non è più soltanto l’organizzazione della classe, ma l’incarnazione della classe nel suo complesso. Dopo il feticismo della rappresentanza politica, Latour e Schultz ci offrono un nuovo miracolo: la transustanziazione della classe in partito. In questo modo si evita il problema centrale delle lotte ambientaliste: il problema dell’articolazione tra le diverse tattiche ecologiste (esproprio della terra e azioni di sabotaggio, occupazione dei territori, scioperi sindacali e manifestazioni) e l’organizzazione possibilmente “partitica” che dovrebbe consentirne il coordinamento. È un problema che il tentativo di rifondare una classe antagonista nell’Antropocene non può evitare.
Affinché esista un antagonismo di classe, tuttavia, non basta soltanto che esistano più classi differenti. È anche necessario che queste ultime si definiscano attraverso le relazioni di potere che le oppongono. In altre parole: non c’è classe dominante se non esiste classe subalterna. Che Latour e Schultz non abbiano colto questo punto, è chiaro quando si chiedono: “come possiamo parlare di conflitti di classe se è la classe ecologica stessa a non essere chiaramente definita?”[40]. Per loro le classi non sono relazionali e oppositive come nel marxismo, ma sostanziali: esistono in modo indipendente e stabile perché sono l’effetto di una pura decisione politica, il risultato di un decreto di esistenza. Nel Memo, la lotta di classe è quindi scomparsa insieme ai rapporti di dominio di cui è espressione politica.
A questo proposito, il riferimento a La formazione della classe operaia in Inghilterra dello storico marxista Thompson rivela almeno controsenso, se non una forma di malafede[41]. Thompson mostra chiaramente l’insieme delle pratiche necessarie per la costituzione di una classe proletaria “orgogliosa e cosciente di sé stessa”: la creazione di giornali, le riunioni pubbliche, la formazione dei lavoratori, le convocazioni di scioperi e manifestazioni, l’invenzione di slogan e parole d’ordine, ecc. Ma la costituzione della classe operaia come soggetto politico avviene all’interno di una esperienza condivisa di sfruttamento del lavoro, cioè all’interno di una posizione oggettiva nei rapporti sociali di dominio che sono rapporti di proprietà: essendo proprietaria dei mezzi di produzione, la classe dominante ha il potere di far lavorare la classe dominata per il proprio profitto. L’antagonismo che oppone l’una all’altra è così iscritto nella struttura stessa della società. Da canto suo, invece, il Memo non parla di proprietà così come non parla di dominio, anche se questi concetti determinano gli usi predatori della natura che sono alla base della crisi ecologica. Non ci può essere inquinamento industriale o agricoltura intensiva senza l’appropriazione privata della terra, delle sue risorse e dei suoi abitanti.
Questo è quanto suggerisce Marx quando, nel Capitale, spiega l’emergere delle classi a partire dal conflitto per l’appropriazione e l’uso della natura. Dal momento che i signori vogliono appropriarsi di terre che prima erano utilizzate in comune, essi prendono parte a una lotta politica per diminuire i diritti dei contadini[42]. Da questo conflitto politico emerge una particolare struttura di classe, composta da tre gruppi: i proprietari terrieri, i contadini capitalisti e i salariati agricoli. Il proletariato moderno appare quindi come il risultato di un conflitto di classe che ha portato alla costituzione di una forza-lavoro completamente espropriata dei propri mezzi di sussistenza e che si trova quindi dipendente dal mercato. In altre parole: non c’è nessuna classe possibile senza lotta di classe tra usi opposti della terra[43].
In sintesi: l’oblio del dominio e della proprietà porta Latour e Schultz a una visione completamente eterea delle classi e della loro lotta. La dualità oppositiva e materialista delle classi antagoniste lascia il posto alla dualità metafisica dell’Uno (la classe/il partito ecologista) e del Molteplice (gli individui o i gruppi sparsi che hanno a cuore il destino del pianeta). Ecco perché i nemici di una “classe ecologica”, sempre al singolare, non vengono mai nominati. Una simile designazione sarebbe impossibile, perché rifiutando di parlare di “capitalisti”, Latour e Schultz non si rendono conto che i principali responsabili dell’ecocidio formano già una classe ecologica.
È questo il momento di sottolineare l’ambiguità che la parola “ecologia” ha nel Memo. Una classe ecologica sarebbe la classe di coloro che, vivendo la sofferenza sociale causata dalle ingiustizie ambientali, formano un blocco politico per difendere gli interessi della biosfera. Una classe ecologica si riferisce al fatto che ogni essere vivente o gruppo di esseri viventi esiste sempre in un particolare ambiente, che dipende da un insieme di relazioni ecosistemiche, che “possiede un regime ecologico”, per usare l’espressione di Jason Moore. In questo senso, anche la borghesia è una classe ecologica, nel senso che intrattiene relazioni particolari con i mondi viventi da cui dipende. Si potrebbe addirittura sostenere che la borghesia coloniale sia stata la prima classe ecologica “orgogliosa e consapevole” del mondo. È quanto emerge dal formidabile libro di Jean-Baptiste Fressoz e Fabien Locher: Le rivolte del cielo. I due storici dell’ambiente ci raccontano la testimonianza del figlio di Cristoforo Colombo, Fernando, che avrebbe sentito il padre teorizzare un legame preciso tra estensioni forestali, precipitazioni e deforestazione coloniale. Di fronte alle piogge torrenziali in Giamaica, inadatta ad essere abitata e colonizzata dagli uomini bianchi, Colombo avrebbe affermato che il fenomeno era stato debellato “nelle isole Canarie, a Madeira e nelle Azzorre” grazie alla deforestazione[44]. Fin dagli albori della “modernità”, per usare un concetto caro a Latour e Schultz, i modi di abitare la Terra sono stati organizzati dalle classi dominanti, per i coloni bianchi, contro gli schiavi neri, le popolazioni native e i loro ambienti di vita. A tal punto che ci si può chiedere se il loro appello alla formazione di una “classe ecologica” sia davvero una novità storica come sostengono: lungi dall’essere una rottura con il progetto dei “moderni”, sembra essere l’eredità di una lunga storia di dominio.
Conclusione: quale soggetto rivoluzionario nell’Antropocene?
La chiarezza a volte nasconde una confusione più profonda. Abbiamo cercato di prendere sul serio un testo che, il più delle volte, non è serio. I concetti sono indeterminati, le definizioni passano dall’una all’altra senza alcuna giustificazione e c’è un’abbondanza di tesi senza argomenti. Al termine della lettura, diverse domande continuano quindi ad animare le nostre discussioni[45]. La maggior parte di esse riguarda le tesi e i significati del Memo, ma una riguarda anche l’intenzione degli autori: perché usano il termine classe, che ha le sue origini nella tradizione operaia, quando condannano i movimenti socialisti e comunisti che hanno sostenuto quel termine? Perché mobilitano un vocabolario rivoluzionario quando disprezzano l’anticapitalismo “come un riflesso condizionato” e ignorano le lotte reali che considerano come nient’altro che “reazioni fallimentari”[46]?
Diverse ipotesi meritano di essere prese in considerazione, ma ne proporremo solo una. La riappropriazione dei concetti del movimento operaio è indubbiamente segno di una certa capacità di cogliere lo spirito del tempo, di una consapevolezza della radicalizzazione dell’antagonismo su temi come l’orario di lavoro e il potere d’acquisto. Quest’appropriazione testimonia certo del desiderio di politicizzare l’ecologia, così come della legittima attesa dell’avvento di un nuovo blocco egemonico. Purtroppo, le loro decisioni politiche e la loro miopia economica difficilmente permettono di trasformare questo desiderio in realtà. Abbiamo voluto dimostrare che la pista di una ricomposizione ecologica del proletariato apre un immaginario politico ben più rivoluzionario e fertile dell’idea di una classe ecologica incarnata dai partiti Verdi. Essa permette infatti di mantenere la centralità politica del concetto di classe sulla base di un’esperienza condivisa, tra umani e non umani, di sfruttamento e lavoro, di dominio ed espropriazione.
Complessivamente, però, e a prescindere dalle loro intenzioni, l’effetto di questo libro è di cancellare la vera storia di coloro che hanno lottato per l’emancipazione. Per prendere in prestito una distinzione di Walter Benjamin, l’uso che Latour e Schultz fanno del concetto di classe è più una questione di “conformismo” (che cerca di negare la storia degli sconfitti) che di “tradizione” (che ricorda un passato di sconfitte per mantenere vivo il progetto di emancipazione). “In ogni epoca”, scriveva Benjamin, “si deve cercare di strappare nuovamente la tradizione al conformismo che sta per soggiogarla”.
Note
[1] In fede all’articolo originale, la traduzione di questo testo utilizza il maschile sovraesteso.
[2] https://www.terrestres.org/2022/01/26/la-terre-notre-camarade-lettre-ouverte-a-mes-amis-marxistes/.
[3] Bruno Latour et Nikolaj Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, Paris, La Découverte 2022, p. 19.
[4] Pierre Charbonnier, Abondance et liberté, Paris, La Découverte, 2020.
[5] Bruno Latour et Nikolaj Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 29.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 30.
[9] Philippe Descola, Oltre natura e cultura, Cortina, Milano 2021.
[10] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, Feltrinelli, Milano 2018, p. 78.
[11] Ivi, p.137.
[12] Cfr. Ted Benton, «Marxisme et limites naturelles», Actuel Marx, n. 12, 1992, p. 59-95 et Tim Ingold, The appropriation of nature: essays on human ecology and social relations, Manchester: Manchester University Press, 1986.
[13] Cfr. Jean Baudrillard, Le miroir de la production, Casterman, Paris 1973.
[14] B. Latour et N. Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 42.
[15] Ivi, p. 37.
[16] Karl Marx, Il Capitale, Utet, Torino 2009, capitolo 8.
[17] https://www.terrestres.org/2022/01/26/la-terre-notre-camarade-lettre-ouverte-a-mes-amis-marxistes/
[18] K. Marx, Il Capitale, cit., p. 771.
[19] Andreas Malm, Fossil Capital. The rise of the steam power and the roots of global warming, Verso, London-New York 2016.
[20] B. Latour et N. Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 18.
[21] Ivi, p. 70.
[22] Ivi, p. 23.
[23] Léna Balaud et Antoine Chopot, Nous ne sommes pas seuls, Seuil Paris, 2021, p. 122-123.
[24] Cfr. W. Moore dans Le capitalisme dans la toile de la vie, Editions de l’Asymétrie, Paris 2020, p. 305-330.
[25] Christine Delphy, L’ennemi principal. Économie politique du patriarcat, Syllepses, Paris 2013. Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano 2015.
[26] Stephen Collins, To the Barricades, Talon Books, 2013.
[27] Léna Balaud, «Des alliances pour recomposer une politique dans et contre l’écologie du capital», De(s)générations, n°35, décembre 2021, « attaquer l’attaque », p. 47-56.
[28] Cfr. L. Balaud et A. Chopot, Nous ne sommes pas seuls, op. cit.
[29] B. Latour et N. Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 14.
[30] Bruno Latour, Où atterrir ?, La Découverte, Paris 2017, p. 127 et ss.
[31] http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/downloads/P-202-AOC-03-20.pdf.
[32] Davide Gallo Lassere et Frédéric Monferrand, «Les aventures de l’enquête militante», Rue Descartes, n. 96, 2019/12, p. 93-107.
[33] B. Latour et N. Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 57.
[34] Sul razzismo ambientale, si veda William Acker, Où sont les gens du voyage ?, Éditions du commun, Rennes 2022.
[35] B. Latour, Où atterrir ?, op. cit., p. 133.
[36] «By re-describing, reclassifying and comparing these different networks of conditions of existence we will not only be able to identify the patterns of privilege and non-privilege in the processes of engendering. Furthermore, it would permit us to reconsider our understanding of power and domination. By describing and comparing the material extensions of people’s livelihoods what would become visible is how the networks of existence of some allow or disallow the networks of existence of others to be better or worse. In other words, by identifying geo-social classes we would generate descriptions of who is occupying or exploiting the territory of others, or how some people’s livelihoods disallow the durable existence of other people’s conditions of reproduction». Nikolaj Schultz, «Geo-social classes», in M. Krogh (ed.), Connectedness – An Incomplete Encyclopedia of the Anthropocene, Strandberg Publishing, Copenhague, 2020.
[37] B. Latour et N. Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 36.
[38] Ivi, p. 60.
[39] Ivi, pp. 59-60.
[40] Ivi, p. 13.
[41] Ivi, p. 48.
[42] K. Marx, Il Capitale, cit., capitolo 24.
[43] Paul Guillibert, Terre et capital, Amsterdam, Paris 2022.
[44] Jean-Baptiste Fressoz et Fabien Locher : Les révoltes du ciel. Une histoire du changement climatique xve-xviiie siècle, Seuil, Paris 2020.
[45] Ringraziamo soprattutto Louis Carré e gli studenti dell’Université de Namur per le preziose discussioni che hanno arricchito questo nostro testo. Ringraziamo inoltre il gruppo parigino di ecologia politica marxista e il comitato editoriale della rivista Terrestres.
[46] B. Latour et N.Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, op. cit., p. 18 et 39.
Ieri abbiamo raggiunto la ragguardevole cifra di 8 miliardi di abitanti sulla terra. Nel 1950 eravamo due miliardi e mezzo. Probabilmente ai tempi di Marx eravamo meno di un miliardo. Ma perché, quando si affrontano questi temi urgentissimi e impellenti riguardanti i modelli socio-ecologici, solo pochi, pochissimi fanno riferimento a questo esponenziale incremento demografico? Perchè non si ricorda, come già sottolineava il filosofo Hegel, che una crescita quantitativamente importante si trasforma inevitabilmente in una trasformazione anche qualitativa? Perchè in ultima analisi si continua a ragionare del pianeta e degli esseri che lo popolano con argomentazioni divenute ormai obsolete e fuori tempo?
Grazie per la riflessione, Luciano.
Non sono d’accordo, tuttavia, con la sua analisi.
Il “siamo troppi” sta pericolosamente diventando la facile spiegazione utile a nascondere le reali motivazioni dell’apocalisse socio-ecologica in cui ci troviamo.
Di fatto:
-produciamo cibo a sufficienza per 10 miliardi di persone, tuttavia più del 10% delle persone soffre la fame e allo stesso tempo circa il 25% è in sovrappeso o obeso (https://www.unep.org/news-and-stories/story/how-feed-10-billion-people).
-ogni miliardario emette un milione di volte più gas serra rispetto alla persona media (https://www.oxfam.org/en/press-releases/billionaire-emits-million-times-more-greenhouse-gases-average-person) e dal 1990 il 50% più povero della popolazione mondiale è stato responsabile solo del 16% di tutta la crescita delle emissioni, mentre l’1% più ricco è stato responsabile del 23% del totale (https://www.nature.com/articles/s41893-022-00955-z).
– in media un cittadino statunitense ha un’impronta ecologica circa il 50% più grande di quella della persona media nella maggior parte dei paesi europei (https://worldpopulationreview.com/country-rankings/ecological-footprint-by-country).
Insomma, direi che le argomentazioni di Guillibert e Monferrand siano tutt’altro che “obsolete e fuori tempo massimo”.
Non ho per ovvie ragioni modo di contestare i dati che lei mi fornisce. Ma lei sa meglio di me che le cifre sono astrattamente precise ma spesso non riescono a dare un’immagine esatta di quel che succede sul nosro pianeta. Voglio però porre la questione in termini molto più semplici, comprensibili e chiari. Poi Le pongo una domanda alla quale Lei deve darmi una risposta assolutamente sintetica, SI o NO, e se sarà SI mi trasmetterà una gioia ed una consolazione che non può immaginare.
Io non sono ricco e non ho conti in banca ereditati dallo zio d’America, mi considero però una persona che gode di uno standard di vita accettabile, non ho vizi o tantomeno stravizi, ho una casa in proprietà che ora sto riscaldando con il gas (e quindi inquina), godo di una pensione decente ma certamente non straordinaria (2000 euro), possiedo una macchina di media cilindrata che funziona a diesel (e quindi inquina) con la quale faccio di tanto in tanto una scampagnata, mi prendo un mese di ferie al mare, mangio con una dieta abbastanza sana e variata, (carne, pesce, pasta, verdure di vario tipo), ho un cellulare, una televisione, un abbonamento ad una TV privata, spendo anche dei soldi per ragioni sanitarie (di routine, non per particolari patologie), produco purtroppo ed inevitabilmente qualche kg di rifiuti a settimana (e quindi inquino), altri dettagli li tralascio perchè meno significativi. La domanda è questa: POSSONO 10 MILIARDI DI PERSONE, salvaguardando la salute del pianeta, condurre una vita come la mia che penso, a ragione, debba spettare a tutti e non solo a me?
Le profezie di sventura riguardo alla sovrappopolazione sono state moltissime e tutte smentite dai fatti. Uno per tutti: “The Population Bomb” del 1968, (espressione che qualcuno ha il coraggio di tirar fuori ancora). Paul Ehrlich e altri ecologisti prospettavano una morte per fame a miliardi di esseri umani e carestie apocalittiche. I profeti di sventura della sovrappopolazione non considerano un fatto acclarato da anni, e cioè che aumentando la ricchezza e il benessere della popolazione (cosa che avviene costantemente a livello globale) diminuisce la propensione a fare figli. Difatti, il tasso di crescita della popolazione ha avuto il suo massimo (2.1% annuo) nel 1962 ed è poi costantemente declinato fino allo 0,8% attuale, e così sarà in futuro. In conseguenza di ciò si prevede che la popolazione mondiale crescerà fino a un massimo che non supererà gli undici miliardi di persone per poi decrescere. Tutto ciò grazie allo sviluppo economico, argomento idiosincratico per una certa sinistra decrescitista.
Tutti i dati sono ampiamente disponibili, p.es.
https://www.un.org/development/desa/pd/sites/www.un.org.development.desa.pd/files/wpp2022_summary_of_results.pdf
Latour in conseguenza del fatto che ritenesse la verità, i fatti, la realtà, non esistenti ma mere costruzioni sociali, arrivò a dire stupidaggini come quella che Ramsete II non sarebbe potuto morire di tubercolosi, come attestato da recenti autopsie, in quanto a quel tempo il bacillo della tubercolosi non era ancora stato isolato, non rendendosi conto di confondere pateticamente il piano ontologico con quello epistemologico.
Di queste affermazioni strampalate, imprecisioni, estrapolazione ardite di risultati da altri campi scientifici sono pieni gli scritti di Latour e dei suoi colleghi sociologi. Particolarmente spassose sono le valutazioni sul relativismo einsteiniano (che Latour non ha evidentemente compreso) applicate per analogia al suo presunto campo del sapere.
con minimi aggiustamenti sul piano dei suoi consumi, e radicali modifiche alle modalità di investimento di una ristretta cerchia di miliardari, la risposta alla sua domanda è: sì.
due fonti per approfondire (nel 2023 su questa rubrica approfondiremo):
https://oxfamilibrary.openrepository.com/bitstream/handle/10546/621052/mb-confronting-carbon-inequality-210920-en.pdf
https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2022/11/bn-carbon-billlionaires-071122-en_EMBARGOED-1.pdf
mi auguro che possa concordare con l’argomento brevemente esposto, ma a prescindere da ciò mi preme sottolineare un punto: è lo stile di vita sostenibile o vale per tutte e tutti o, semplicemente, è odioso privilegio.
grazie di nuovo per gli spunti