L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto

 

 

[È uscita da poco, per Il Saggiatore, una riedizione di Tutto sull’amore. Nuove Visioni, di bell hooks, a cura di Maria Nadotti. Ne pubblico qui un estratto dal primo capitolo, “Chiarezza: dare parole all’amore”, seguito da una mia nota (fg)]

 

 

bell hooks

 

 

La nostra società trova l’amore imbarazzante. Lo

trattiamo come se fosse un’oscenità, siamo riluttanti

ad ammetterne l’esistenza. La sola parola ci

fa balbettare e arrossire […] l’amore è la cosa più

importante della nostra vita, una passione per cui

saremmo pronti a combattere e a morire, eppure

siamo restii a soffermarci sulle parole per nominarlo.

Senza un vocabolario duttile non possiamo nemmeno

pensarlo o parlarne con franchezza.

(Diane Ackerman)

 

 

 

Gli uomini della mia vita sono sempre stati quel tipo d’uomo che ci va piano a usare la parola «amore» alla leggera. Ci vanno piano perché credono che le donne diano troppo peso all’amore. E sanno che il significato che le donne gli attribuiscono non sempre coincide con il loro. La confusione sul significato da dare alla parola «amore» è all’origine della difficoltà di amare. Se nella nostra società tutti intendessero allo stesso modo l’amore, l’atto di amare non sarebbe così disorientante. Le definizioni date dal dizionario tendono a enfatizzare l’amore romantico e lo descrivono in primo luogo come «dedizione appassionata ed esclusiva, istintiva ed intuitiva fra persone, volta ad assicurare reciproca felicità, o la soddisfazione sul piano sessuale». Esistono, certo, altre definizioni che ci informano che si possono provare sentimenti simili anche fuori della sfera sessuale. Ma la definizione di «dedizione appassionata ed esclusiva» non descrive in modo davvero adeguato il significato di questo sentimento.

 

[…]

 

Immaginate quanto sarebbe più semplice imparare ad amare se partissimo da una definizione condivisa. Il lemma love, che nella lingua inglese è sia un nome sia un verbo, è generalmente considerato un sostantivo, eppure tutti i teorici che con maggior perspicacia si sono occupati della materia riconoscono che tutti noi ameremmo meglio se lo usassimo come verbo: non «amore», bensì «amare». Ho cercato per anni una definizione sensata della parola «amore» e ho provato un profondo sollievo quando ne ho trovata una in Voglia di bene, l’ormai classico manuale di auto-aiuto dello psichiatra M. Scott Peck, la cui prima edizione statunitense è del 1978. Facendo eco all’opera di Erich Fromm, l’autore definisce l’amore come «volontà di estendere il proprio sé al fine di favorire la crescita spirituale propria o di un’altra persona». E prosegue: «L’amore sta nei gesti e nei comportamenti attraverso cui si esprime. L’amore è un atto di volontà; più precisamente, è al contempo un’intenzione e un’azione. La volontà implica anche una scelta. Non siamo costretti ad amare. Scegliamo di farlo». Poiché la scelta va fatta per favorire la crescita, questa definizione confuta la tesi più generalmente accettata che amiamo d’istinto.

 

Chi ha seguito il processo di crescita di un bambino a partire dal momento in cui è venuto al mondo, avrà sicuramente notato che, prima di approdare al linguaggio, prima di saper riconoscere l’identità di chi si prende cura di lui, il neonato risponde alle cure amorevoli e affettuose. Di solito i neonati reagiscono con sguardi o gorgoglii di piacere. Man mano che crescono, rispondono all’affettuosità della cura dando a loro volta affetto, emettendo gridolini di gioia alla vista di una figura accudente a loro gradita. L’affetto, tuttavia, non è che una componente dell’amore. Per amare davvero dobbiamo imparare a mettere insieme vari elementi: cura, affetto, riconoscimento, rispetto, impegno e fiducia, oltre a una comunicazione onesta e aperta. Se da piccoli abbiamo fatto nostra una definizione sbagliata dell’amore, una volta adulti ci sarà difficile amare. Partiamo determinati a imboccare la strada giusta, ma andiamo nella direzione sbagliata. In genere si comincia presto a pensare all’amore come a un sentimento. Quando ci si sente profondamente attratti da qualcuno, si investono su di lei o su di lui sentimenti ed emozioni. Il processo di investimento attraverso il quale la persona amata diventa per noi importante si chiama «catessi». Nel suo libro, Peck fa giustamente notare che molti di noi «confondono la catessi con l’amore». Tutti sappiamo quanto sia frequente che individui che si sentono legati «per catessi» a un’altra persona sostengano di amarla, anche se la stanno ferendo o trascurando. Poiché ciò che provano è catessi, insistono a dire che il loro è un sentimento d’amore.

 

Se per amore intendiamo il desiderio di coltivare la crescita spirituale nostra e della persona amata, diventa chiaro che, se la offendiamo e la maltrattiamo, non possiamo sostenere di amarla. Amore e violenza non possono coesistere. L’abuso e la trascuratezza sono, per definizione, l’opposto dell’attenzione affettuosa e della cura. Spesso sentiamo di un tizio che picchia i figli e la moglie e poi va al bar dell’angolo a proclamare con passione quanto li ama. Se parli con sua moglie in una giornata buona, può darsi che sostenga anche lei che il marito, malgrado il comportamento violento, la ama. Moltissimi di noi hanno alle spalle famiglie disfunzionali, che ci hanno convinti che in noi c’era qualcosa che non andava, inculcandoci un senso di vergogna, sottoponendoci a maltrattamenti fisici o verbali e trascurandoci emotivamente, proprio mentre ci insegnavano a credere di essere amati. Per molti di noi è semplicemente troppo pericoloso accettare una definizione dell’amore che non ci permetterebbe più di pensare che nella nostra famiglia ce n’era. Troppi di noi hanno bisogno di aggrapparsi a un’idea d’amore capace di rendere accettabili gli abusi, o che almeno ci consenta di credere che ciò che abbiamo subito non era poi così tremendo.

 

Cresciuta in una famiglia in cui i rimproveri aggressivi e le umiliazioni verbali coesistevano con montagne di affetto e di cura, ho fatto fatica ad accettare il termine «disfunzionale». Siccome ero e sono tuttora affezionata ai miei genitori, a mio fratello e alle mie sorelle, orgogliosa di tutte le dimensioni positive della nostra vita familiare, non volevo descrivere me e i miei cari utilizzando un termine che implicasse che la nostra vita insieme era stata solo negativa o sgradevole. Non volevo che i miei genitori si sentissero denigrati; ero riconoscente per tutte le cose buone che avevano saputo darci. Con l’aiuto della terapia sono riuscita ad accettare il termine «disfunzionale» e a servirmene per descrivere, non per dare giudizi assoluti e negativi. La mia famiglia d’origine ha fornito, durante la mia infanzia, un ambiente disfunzionale e tale rimane. Il che non significa che non sia anche un luogo in cui circolano affetto, gioia e attenzioni.

 

Da bambina poteva capitare che un giorno venissi accudita con affetto, apprezzata per la mia intelligenza e stimolata a coltivarla, e che, qualche ora dopo, mi si dicesse che, proprio perché pensavo di essere tanto in gamba, probabilmente sarei diventata matta e mi avrebbero rinchiusa in un istituto per malati di mente, dove nessuno mi sarebbe venuto a trovare. Non sorprende che questo strano miscuglio di cura e durezza non abbia alimentato positivamente la mia crescita spirituale. Applicando la definizione di Peck alla mia esperienza infantile in seno alla mia famiglia d’origine, onestamente non potrei definirla un’esperienza d’amore.

 

[…]

 

 

Per modificare il vuoto d’amore che aveva contrassegnato i miei rapporti primari dovetti prima imparare di nuovo il significato all’amore, e poi imparare a essere amorevole. […] Mi ci vollero, però, alcuni anni per riuscire a liberarmi dei modelli di comportamento che avevo appreso e che soffocavano la mia capacità di dare e ricevere amore. Un modello che rendeva particolarmente difficile la pratica d’amore era che sceglievo sempre di mettermi con uomini feriti a livello emotivo, non così interessati a dar prova d’amore, pur desiderando che li si amasse.

 

Volevo conoscere l’amore ma avevo paura di abbandonarmi e di fidarmi di un’altra persona. Temevo l’intimità. Scegliendo uomini poco interessati a esprimere il loro affetto, facevo pratica d’amore, ma sempre in situazioni poco appaganti. Va da sé che il mio bisogno di ricevere amore rimaneva insoddisfatto. Ricevevo ciò che ero abituata a ricevere – cure e affetto – solitamente mescolato con un qualche grado di scortesia, disattenzione e, in alcuni casi, di autentica crudeltà. A volte ero io a mostrarmi dura. Ci misi un sacco di tempo ad ammettere che, benché desiderassi conoscere l’amore, avevo paura della vera intimità. Molti di noi scelgono rapporti d’affetto e di cura che non diventeranno mai d’amore, perché così si sentono più al sicuro. Le richieste non hanno la stessa intensità che l’amore esige. Il rischio non è così grande.

 

Sicché molti di noi vagheggiano l’amore, ma non hanno il coraggio di rischiare. Benché siamo ossessionati dall’idea dell’amore, la verità è che molti di noi hanno una vita relativamente accettabile e in qualche modo soddisfacente, anche se spesso avvertiamo un vuoto d’amore. Nelle relazioni sentimentali condividiamo un affetto e/o una cura genuini. A molti di noi può sembrare che basti, poiché di solito è molto più di quanto abbiamo ricevuto nella nostra famiglia d’origine. Senza dubbio molti di noi si sentono più a loro agio con l’idea che l’amore può assumere significati diversi a seconda delle persone, proprio perché, se lo si definisce con precisione e chiarezza, siamo costretti a guardare in faccia il nostro vuoto, la nostra terribile alienazione. La verità è che nella nostra cultura troppi non sanno che cos’è l’amore. E questo non sapere ci appare come un segreto terribile, una mancanza che va dissimulata.

 

[…]

 

Alcuni non vedono di buon occhio la definizione di Peck, perché vi compare il termine «spirituale». Con «spirituale», tuttavia, l’autore intende la dimensione più intima della nostra realtà, là dove mente, corpo e spirito sono una sola cosa. Non è necessario aderire a una religione per far propria l’idea che nel sé ci sia un principio animatore, una forza vitale (che alcuni chiamano anima) che, se nutrita, accresce la nostra capacità di realizzarci più pienamente e di entrare in sintonia con il mondo che ci circonda.

 

Cominciare a considerare sempre l’amore come un’azione piuttosto che come un sentimento è un modo, per chiunque utilizzi la parola in questa forma, di assumersene automaticamente la responsabilità. Spesso ci viene insegnato che non abbiamo alcun controllo sui nostri «sentimenti». Eppure in genere ammettiamo che le azioni che compiamo sono frutto di una scelta, che intenzionalità e volontà informano ciò che facciamo. Nessuno di noi si sogna di negare che le nostre azioni abbiano delle conseguenze. Credere che i sentimenti siano plasmati dalle azioni può servire anche a sbarazzarsi di alcuni luoghi comuni che accettiamo solo per abitudine: per esempio che i genitori amino sempre i propri figli o che l’innamoramento sia una fatalità che non presuppone alcun esercizio della volontà o alcuna scelta, che possa esistere il «delitto passionale», vale a dire che lui l’abbia uccisa perché l’amava così tanto. Se ricordassimo sempre che l’amore è ciò che l’amore fa, non useremmo il termine in modo da svilirne e degradarne il significato. Quando amiamo, esprimiamo apertamente e onestamente cura, affetto, responsabilità, rispetto, impegno e fiducia.

 

Le definizioni sono punti di partenza essenziali per l’immaginazione. Quel che non riusciamo a immaginare non può nascere. Una buona definizione contrassegna il nostro punto di partenza e ci permette di capire dove vogliamo arrivare. Il percorso si delinea e la mappa si traccia man mano che ci avviciniamo alla meta desiderata. Nel nostro viaggio verso l’amore ci serve una mappa che ci indichi la strada: il punto di partenza è sapere che cosa intendiamo quando parliamo d’amore.

 

 

 

*

 

Qualcosa sul tutto dell’amore

 

di Federica Gregoratto

 

 

Tutto sull’amore, addirittura: un libro che ha la folle pretesa di dirci tutta la verità su uno dei fenomeni più studiati e rappresentati nella storia degli esseri umani? Una lettura superficiale sembrerebbe suggerirlo, soprattutto se cediamo al fastidio post-romantico, cinico, e un po’ snob che potrebbero suscitare le note dolci ma dimesse, a tratti pastorali e quasi mistiche, che risuonano in queste pagine. Il quinto capitolo di Tutto sull’amore. Nuove Visioni, in effetti, parla di “amore divino”, il dodicesimo di un “amore che redime”, e nel tredicesimo compaiono addirittura degli “angeli”. Interrogando questa irritazione, che, ammetto, è stata inizialmente anche la mia, si arriva però abbastanza velocemente a sbattere il muso contro i cancelli di un certo contesto storico e culturale: una botta utile e salutare, forse, se riusciamo a riconoscere come questo contesto sia marchiato da una serie di guai seri e profondi, molti dei quali hanno a che fare con la nostra incapacità di capire e dare spazio all’arte di amare, ma anche di parlarne.

 

Tutto sull’amore è un esempio paradigmatico di una tradizione culturale e intellettuale alternativa, che sta nel cuore dell’occidente ma ne mette in discussione l’egemonia bianca: gente come bell hooks, ma anche Martin Luther King, Audre Lorde o Cornel West per esempio, ci insegna a guardare con sospetto la teoria che procede nel distacco dai vortici emotivi e dalle connessioni spirituali, che caldeggia un gesto terapeutico volto all’ottimizzazione e al controllo di sé. La tradizione del pensiero afroamericano statunitense (ora sempre più attuale anche in Europa), che ha come sotto-tradizione quello che potrebbe essere chiamato ‘femminismo black’, ci insegna che i sentimenti e la spiritualità non necessariamente deviano, offuscano e distraggono, non sono oppiacei, ma risorse che sostengono e nutrono il lavoro teorico, e politico, trasformativo.

 

All about love, tutto sull’amore, ma anche: tutto ha a che fare con l’amore (all is about love, it is all about love). bell hooks vuole provare a dirci alcune cose (non tutte) sull’amore, su che cos’è, e dovrebbe ma soprattutto potrebbe diventare. Ci dice anche qualche cosa, a partire dall’amore, sul tutto, o almeno, su tutto l’insieme dei rapporti che costituiscono le nostre esistenze  in comune. Interrogare l’amore, il suo potere benefico o malefico, significa interrogare la società intera.

 

Oggi va di moda la condanna dell’amore ‘tossico’: un termine tuttavia fuorviante, che individualizza e moralizza i problemi, suggerendo soluzioni (l’ascetismo della ‘disintossicazione’, l’allontanamento dalle singole persone ‘intossicate’ e ‘intossicanti’) che finiscono per riprodurli e alimentarli. Le patologie d’amore sono invece patologie sociali: malattie collettive e strutturali di una società che rimuove il dolore della mente-corpo e il vuoto spirituale in nome della prestazione e dell’efficienza costi quel che costi (costi di solito impossibili). Ma la sofferenza umana non sparisce, se non viene affrontata con un desiderio genuino di guarigione, cresce, si compatta in un buco nero sempre più risucchiante. Tutto ha a che fare con l’amore: il soffrire umano, in fondo, è sempre una sofferenza che ha a che fare con questo, il non darsi o il venire meno di quel mondo, comunità, insieme di persone (anche nelle loro dimensioni trascendenti, di altrove, religioso o meno) cui l’‘io’ deve non solo la sua sussistenza materiale ma anche una crescita più compiuta, il fiorire di tutti i suoi poteri umani, sensibili, cognitivi, affettivi, intellettuali.

 

La nostra società ha trovato due modalità principali per trattare questa assenza: il primo è l’esternalizzazione del dolore in apparati medicalizzanti, normalizzanti, ma non sufficientemente riconosciuti (finanziariamente, anche). Tutto chiede salvezza, la serie Netflix tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli (premio Strega Giovani 2020), che segue le vicende di un gruppo assortito di ‘mattə’ rinchiusi in una stanza per il TSO, è una delle più recenti e potenti mise en scene di questa strategia.

 

Il secondo modo è quello che fa’ di un certo modello di famiglia, che una volta si definiva, con disprezzo, “borghese”, il luogo privilegiato della cura e dell’affetto, il rifugio dalla spietatezza del mondo (del lavoro, della politica). Un compito troppo oneroso, per una comunità così ridotta, quello di occuparsi di tutti i bisogni affettivi, psichici, spirituali degli esseri umani, in tutte o quasi le fasi della vita (a parte quella di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, quando si esce di casa e non si ha ancora messo la testa a posto, una fase di sperimentazione e trasformazione, che sembra restringersi sempre di più tra le generazioni più giovani). E infatti l’istituzione della famiglia continua a fallire, richiedendo, per funzionare, quella che Simone de Beauvoir chiamava “mutilazione di sé”, la ossificazioni di ruoli e abitudini, recriminazioni più meno silenziose, occultamento di certe emozioni e verità. Come mostra bell hooks a partire dal suo esempio personale, questo modello di famiglia funziona, ma nel modo della “disfunzionalità”: provvede al sostegno e a un certo tipo di cura, ma impedendo onestà, comunicazione aperta, “commitment” (la capacità di esserci autenticamente e completamente per l’altrə), lascia l’amore ancora fuori dalla porta di casa. La sofferenza, di origine politica e sociale, che la famiglia dovrebbe prendersi in carico, finisce per riprodursi in uno spazio chiuso, isolato, “privato” del suo esterno, da cui è difficile se non impossibile uscire se non con gravi sconquassi. Anche di questo, Tutto chiede salvezza offre esempi paradigmatici: la crisi iniziale del protagonista, che lo manda dritto filato all’ospedale psichiatrico, si esprime in uno scoppio di aggressività devastante contro il padre, e di conseguenza la madre, e nella furia di distruzione della casa in cui è cresciuto.

 

In discontinuità preziosa con gran parte del femminismo (bianco, cishet) contemporaneo, e di altre teorie critiche e politiche, bell hooks crede che, se la malattia sta nella società che ci impedisce di amare, e ci insegna ad amare in forme manchevoli e distorte, è proprio nell’amore, in tutte le sue forme, che si può trovare una cura. È un paradosso, un circolo vizioso? O è percorrendo la spirale di questo circolo che si può coltivare la speranza, radicale, di salvarcene? Ci torneremo. Per il momento, è bene chiarire cosa bell hooks intenda, in generale, per love: non sostantivo ma verbo, non qualcosa di naturale, spontaneo, non solo, non un’emozione o un sentimento, ma piuttosto un’arte, una pratica che possiamo imparare. In altri termini, un’abitudine, che facciamo nostra senza volerlo, ma plastica, da riadattare e migliorare. E possiamo farlo in una serie di contesti diversi, nel passaggio tra questi, nelle comunità (e famiglie) che ci siamo scelte al di là di quelle d’origine, con una serie di partner, con amicə e sconosciutə. In Tutto chiede salvezza, per esempio, è nell’“eterotopia” (Foucault) della camerata e dei corridori ospedalieri che diversi tipi di pazzə si conoscono, e si riconoscono, si parlano, si amano, imparano a prendersi cura di se stessə e l’unə dell’altrə, aprendo così spiragli sull’altrove (di se stessə, di un mondo che potrebbe essere migliore e più bello).

 

Sono diversi anni che apro e chiudo e riapro questo libro semplice e complicato. A volte Tutto sull’amore mi parla di cose che non voglio e non posso sentire, a volte, apre impossibili spiragli di salvezza. Due sono i punti, però, su cui devo sempre tornare con perplessità, e su cui vorrei dunque soffermarmi qui di seguito.

 

Il primo tocca il desideratum della “chiarezza” (vedi Capitolo 1): per imparare ad amare, dice bell hooks, bisogna innanzitutto chiarire che laddove c’è amore, non ci può essere abuso e dominio, e viceversa. Parte dell’educazione all’amore sta nell’imparare a tracciare differenze semantiche e concettuali, e a riconoscere che quello che noi crediamo essere amore è magari qualcosa di diverso: ossessione, desiderio, (co)dipendenza, attaccamento al proprio trauma, “catessi”. bell hooks è consapevole di quanto le nostre pratiche d’amore siano incastonate in dinamiche di oppressione (psicologica, sociale), e dunque impregnate di meccanismi manipolatori e violenti. Per farvi fronte, propone una nuova definizione e concezione, “visione” appunto: solo se ci convinciamo che l’amore è e può essere qualcosa di non ambiguo, pienamente positivo, possiamo ragionevolmente sperare di superare patologie individuali e collettive. Ma in questo bell hooks si dimostra troppo indebitata con una certa tradizione teorica intellettualistica, con una certa filosofia illuminista e razionalista, che qui però rischia di  promuovere il contrario di quello che vorrebbe.

 

In fondo, la storia della filosofia morale e politica occidentale pullula di visioni ideali, pure di amore – nella realtà, continuiamo a prendere fischi per fiaschi, a ferire le persone cui vogliamo bene e permettere loro di ferirci. Tracciare il confine tra oppressione e libertà è fondamentale, teoricamente e praticamente, ma l’amore sta a cavallo del confine. Vi sono amori che opprimono, e amori che liberano, ma è la coscienza della presenza dei primi, e non la loro rimozione in vista di una qualche agognata purificazione, che può liberare i secondi, renderli possibili.

 

Pretendere dall’amore solo luce, negandogli le ombre, rischia di mettere capo a conseguenze non desiderabili. Per esempio, può portare acqua al mulino di quella psicologia mainstream contemporanea (da quella comportamentale alla cosiddetta mindfulness, da salotto hipster, radical chic e neo-borghese), che consiglia caldamente di recidere con nettezza tutte le relazioni dolorose, che impongono vincoli e sacrifici, e di concentrarci prima di tutto su ‘noi stessə’ e i ‘nostri bisogni’. Ma se da una parte dobbiamo trovare il modo di riconoscere e proteggerci da relazioni abusive, dall’altra non possiamo farlo a partire da noi stessə individualmente. “Bisogna amare se stessə prima di imparare ad amare altrə”, recita un mantra molto di moda. Ma l’amore, anche come cura di se, s’impara solo in un contesto affettivo intersoggettivo, insieme ad altre persone. Impariamo ad amarci perché altrə ci hanno amato e ci amano, e nel sentire e praticare il nostro amore per altrə – anche se costoro sono manchevoli, problematicə, ‘mattə’, come lo siamo, in primis, proprio noi.

 

A dire il vero, bell hooks non cede il fianco alle tendenze ultra-individualistiche e egocentriche del pensiero e della pratica terapeutica mainstream. Imparare ad amare è, più di qualsiasi altra cosa, per lei, imparare ad affrontare il rischio, il rischio spaventoso di perdersi per poi (non) ritrovarsi – come diceva Hegel, perdere la propria “personalità astratta” per ritrovarne una “concreta”. Non c’è nessuna garanzia. “Molti di noi vagheggiano l’amore, ma non hanno il coraggio di rischiare”, scrive bell hooks: ma questo non è anche il rischio che ci prendiamo a stare tra chiarezza e non chiarezza, tra luci e ombre? “Volevo conoscere l’amore ma avevo paura di abbandonarmi e di fidarmi di un’altra persona”, scrive: la mancanza di fiducia è razionale e desiderabile, se vogliamo evitare abusi, violenze, ma la fiducia npon può che essere un salto nel buio, al di là del confine tra amore e dominio.

 

Un’altra questione spinosa al centro di Tutto sull’amore riguarda il rapporto tra amore e scelta. Una delle tesi principali di bell hooks è che l’amore non è semplicemente una dichiarazione, un insieme di parole, ma azioni, di cose che facciamo. Questo passaggio ricorda e si allaccia alla famosa teoria di Harry Frankfurt, secondo cui l’amore è una fonte di ragioni (“reasons of love”), che motivano, spingono a fare cose.

 

Il fatto che A ami B da’ ragioni a A per fare x, y, e z, in relazione a B, o ad altro. Per esempio, è l’amore di A per B (e non, per esempio, il senso del dovere) che può spingere A a rinunciare ai suoi piani per la serata per andare a occuparsi di B che sta male. Oppure: è l’amore di A per B che può spingere A a traslocare e trasferirsi in un’altra città, anche se questo può andare contro a un altro ordine di ragioni (al fatto, per esempio, che A ha una vita compiuta e appagante dove sta ora). A sceglie di fare delle cose, cambiare i suoi progetti, trasferirsi, per amore. Ma quali sono le cose che si può davvero chiedere di fare, per amore? È per esempio effettivamente legittimo che B chieda a A, in nome del suo amore per lei, di rinunciare ad altri amori – per esempio alle relazioni importanti e costitutive per lei (la famiglia, gli amici, il lavoro che ama) che A perderebbe a trasferirsi nella città di B? La nostra società, individualistica, egocentrica, sembra spingerci a dare sempre meno peso alle ragioni d’amore.[1]

È questa una forma di salvezza dall’abuso, o la rinuncia a una delle fonti più importanti di ciò che siamo?

 

Ma c’è un altro punto ancora più difficile da sciogliere: che relazione c’è tra l’amore e la scelta – rischiosa – di assumerlo nella propria vita, di farlo diventare quella forza di cui bell hooks vuole farsi portavoce?

 

Ultimamente, ho avuto modo di discutere questo punto a lungo con un’amica (N) – senza, ahimè, riuscire ad arrivare a una soluzione del tutto soddisfacente. N è profondamente abbattuta a causa di un uomo che non vuole o può decidersi a stare con lei (business as usual, si dirà, nelle relazioni eterosessuali, ma evidentemente, come una cospicua serie di discorsi simili con amicə omosessuali e queer mi confermano, non solo): “io credo che mi ami”, conclude N con un moto di tristezza e insieme forza, “ma l’amore non basta, bisogna decidersi a voler amare.” Io obietto che questa decisione per l’amore non può che venire dall’amore stesso, che non c’è un ordine di ragioni esterne che ci può convincere a scegliere l’amore, che l’amore è ‘necessariamente’, per definizione, scelta di sé. N potrebbe, a questo punto, mettere in discussione la mia definizione di amore, troppo inguaiata con certe visioni romantiche – cosa che, in effetti, ha fatto prima e dopo, a più riprese. Ma in quel momento, invece mi chiede, con voce rotta: “Se hai ragione tu, allora significa che non mi ama (abbastanza)?”. “No, io credo davvero che ti ami, e molto.” “Beh, qui c’è qualcosa che non quadra.”

 

L’impasse è evidente. Da una parte, quest’uomo è innamorato di N, dall’altra, il suo dolore, i suoi mostri – quella sofferenza di cui parlavo all’inizio, annidata nelle trappole di un certo tipo di famiglia, di una certa società – gli impediscono di fare proprio quella cosa, continuare a stare con N, che gli permetterebbe, se non di richiudere quelle ferite, almeno provare a medicarle. Non che N sia guarita dalle sue molte ferite, capace di amare secondo l’ideale di bell hooks, “apertamente e onestamente”, con “cura, affetto, responsabilità, rispetto, impegno e fiducia”: chi di noi ne è in grado? Per usare una metafora cara a certə filosofə, forse allora l’amore è come quella barca difettosa in mezzo al mare, che può essere riparata solo a starci sopra, con gli strumenti, pochi, che abbiamo a disposizione.

 

Non c’è un ordine di ragioni che ci può convincere a scegliere di amare, e di assumere l’amore come fonte di ragioni per l’azione, ma ci sono di sicuro grumi e incrostazioni psicologiche, impiantate in e nutrite da ordini sociali, che ci privano della forza e dell’immaginazione necessarie a continuare a viaggiare su quella barca, che ci spingono a tuffarci in acqua, e nuotare da solə (o a lasciarci affogare). Tutto sull’amore, con il suo acume concettuale, spiritualità e saggezza, mi sembra faccia parte degli strumenti che ci possono essere d’aiuto su questa barca, nel “nostro viaggio verso l’amore”.

 

 

[1] Del resto, si potrebbe anche argomentare (come ho fatto in passato) che se A ama B, ma anche C, non è in virtù dell’amore che B potrebbe chiedere a A di lasciar perdere C, che questo non è amore, ma qualcosa d’altro (possesso, controllo), e ciò non ha a che fare semplicemente con la soddisfazione dei bisogni individualistici di A, ma con la possibilità dell’espansione di una capacità di amare, di generare emozioni ed esperienze da cui sia A che B che C, e altrə, possono venire positivamente investite.

4 thoughts on “Dare parole all’amore

  1. Che bello, questo libro è stato tradotto in italiano.

    Sarò approssimativo, ma dai miei anni negli USA ho tratto l’impressione che, quando ci si dedica ai Sexuality Studies, l’attenzione sia rivolta principalmente – di certo non sempre – a fenomeni odiosi come lo stupro e, ad esempio, la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento. L’idea, sacrosanta, è di creare consapevolezza in torno a tutto ciò, e di approntare strumenti d’analisi e possibilmente d’intervento educativo che evitino il perpetuarsi del peggio.

    Sono stato quindi colpito, in quel contesto di studio, ma potrei sbagliarmi, poiché sto ragionando all’ingrosso, dall’assenza d’una riflessione sull’amore, e sul rapporto tra amore e sessualità. Quando ho provato a sollevare la questione, mi è stato suggerito che, forse in quanto italiano, la mia formazione cristiana e cattolica (qualunque cosa volesse dire), mi portava a indulgere in una sorta di ‘spiritualizzazione’ del corpo, che è invece al centro – assieme ai suoi usi culturali, per lo più orientati alla repressione e alla violenza – dei Sexuality Studies.

    Eppure, una volta uno ha scritto un verso (in quasi-italiano corrente), collocandolo (il verso) in una posizione strategica d’una sua poesia molto lunga – una volta uno ha scritto un verso del tipo “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Ora, bisogna capirsi: poiché il tizio in questione prima di dire quella cosa lì era stato all’inferno e poi aveva spurgato quello che doveva spurgare, facendo spurgare anche quelli che gli avevano reso impossibile la vita, ecco, bisognerebbe capire bene come questo amore che muove tutto – piuttosto spirituale e paradisiaco, per dire – si rapporta a tutto il resto (la selva oscura, la compagnia cantante delle belve, etc.).

    Il libro di bell hook mi pare vada a prendere l’amore proprio lì, anche e forse soprattutto quando eccede in lirismo e slancio spirituale: questo amore che, assieme alle sue distorsioni, è la voce di chi chiede salvezza – e tutti, anzi, tutto, pure l’ambiente, la chiede, ‘sta salvezza. Essendo quella voce lì, inoltre, l’amore sembra dare un senso a ciò che viene prima, incluso il corpo e le sue pulsioni, il buio che gli è inerente, et similia.

    A me pare che i Sexuality Studies, ma potrei sbagliarmi – anzi, quasi sicuramente mi sbaglio – rechino con sé ancora un’impronta foucaultiana: tutto quanto è potere e da esso non si sfugge, anzi, più cerchi di sfuggirgli, più t’ingarbugli in strategie di dominio, anche su te stesso/a.

    Eppure, a parte quello che precipitava i suoi nemici sul fondo della Giudecca, c’era un altro che, quando parlava d’amore, Foucault non lo teneva in gran conto. Costui girò un documentario, “Comizi d’amore”, in cui un po’ d’italiani e italiane – con le ‘loro’ parole – dicevano cosa pensavano dell’amore. Forse allora (nel 1965) si era più ingenui e semplici di oggi, ecco quel che si potrebbe obiettare. E però oggi non ci sono gli ingenui? Son tutti dei gatti e delle volpi?

    Oggi, pertanto, una semplicità espressiva come quella dei “Comizi” sarebbe possibile? Cioè, voglio dire, siamo capaci di parlare dell’amore, anche e soprattutto nelle università, intendo, senza tirare in ballo il biopotere, per dire? O la critica alla sovranità, la soggettivazione, le tecnologie del controllo di questo e di quello, anche di sé?

    Quell’apparato concettuale mi sembra molto utile per comprendere il nostro presente di sfrenato darwinismo sociale, in cui la vita è una competizione (in Italia qualcuno lo diceva già alla fine dell’800, che la vita è competizione).

    Tuttavia, se vogliamo pensare all’alternativa a un simile stato di fatto, non ci si può volgere a un paradigma di pensiero diverso?
    Insomma, che cosa “move” l’amore, a partire dal sole e le stelle? Che “move”? Tutto? Qualcuno lo dica, please.

  2. Grazie @Andrea di questa bella riflessione, e di aver tirato in ballo “Comizi d’amore”, in modo molto opportuno in questo contesto! Io credo però che Foucault qualcosa di questo tipo (di quello che dice bell hooks, e lei) sull’amore lo dice, quando parla di amicizia, philia, e, appunto (amo)sessualità. Per capire il rapporto tra sessualità e amore Foucault pure non è da sottovalutare.
    Che cosa mova amor, boh – la vita?

  3. Sono d’accordo con l’Autrice: nel nostro vocabolario non c’è parola più abusata di “amore”, vocabolo unico di cui ci si serve per designare, in realtà, sentimenti svariati. L’amore, infatti, può essere filiale, può essere una profonda amicizia, può essere da noi provato per la moglie del nostro migliore amico… In rarissimi casi è rivolto (dai santi) all’intera umanità, ma più spesso è rivolto al nostro duo amoroso, e in definitiva a noi stessi.
    La Tv ha banalizzato la violenza. Ma oggi è il sentimento dell’amore a saturare ogni trama e a far trionfare sullo schermo un romanticismo da mercato delle pulci. Tutti sono innamorati o stanno per esserlo, del proprio collega di lavoro oppure del partner di qualcun altro. In questo teatrino eccellono i poliziotti, che vediamo impegnati, tra una sparatoria e l’altra, in continue schermaglie amorose tra loro. Da quando poi il capo della polizia è, immancabilmente, una bella donna, per tenere la contabilità degli amori in un commissariato ci vorrebbe, a tempo pieno, un contabile.
    Ma nessuna categoria lavorativa è risparmiata dal virus dell’amore, oggi vera pandemia. Negli sceneggiati del tipo “soap opera” l’indigestione d’amore su schermo è totale, e il loro successo è garantito, perché le telespettatrici sono innamorate di simili programmi produttori di amore all’ingrosso.
    In campo finanziario si parla di “bolla” per designare “l’aumento anomalo del prezzo di un bene o di un’attività, reale o finanziaria, non giustificato dall’andamento dei fondamentali di mercato.” Oggi sono i bollori sentimentali ad aver creato una gigantesca bolla in Tv e al cinema, dove tutti si innamorano per volontà del regista, violando i fondamentali del mercato dei sentimenti.
    Gli attivisti dell’amore ci tengono a farci conoscere, sia vestiti che in mutande o anche senza, il loro nobile impegno sociale. Caduti gli ultimi iniqui tabù, anche gli uomini si amano su scena tra loro, e anche le donne. E lo spettatore paga per il gran privilegio di assistere allo sbocciare dell’altruistico sentimento, e della sua messa in opera generalmente a letto.
    Si usava dire che il giovane americano si trovava a vent’anni ad aver visionato migliaia di omicidi sullo schermo. Oggi, più numerose che gli stessi omicidi sono le scene di amore, ricche di contorsioni, di acrobazie e di baci violenti che nella vera vita provocherebbero una corsa dall’ortopedico e dal dentista. Speriamo solo che in Occidente aumentino le nascite. Finora sono le uccisioni di massa, propagandate per anni da Hollywood, ad aver attecchito.
    Questo coacervo di sentimenti amorosi di varia natura viene nobilitato dall’unicità del solenne termine cui si ricorre con enfasi: “amore”. Per ridimensionare questi amori, tanto celebrati, io proporrei di introdurre il fattore “durata”. Infatti, nella vera vita, i “grandi amori” quasi sempre finiscono, mentre le “storie” durano poco.
    Vi sono invece amori che non finiscono mai e che, preciserei, non devono finire mai: l’altruistico amore materno e quello filiale, e anche l’amore-rispetto-lealtà per la società in cui si vive. Ma ci mancano le giuste parole per poter distinguere le diverse categorie di amori (i greci designavano invece con termini distinti i vari tipi di amore; l’amore famigliare, ad esempio, era chiamato “storge”)
    Ha molto amato, si tende a dire di un uomo che nel corso degli anni ha versato il suo seme senza risparmio su un gran numero di partner, nelle quali talvolta non aveva creduto, ma che ha comunque “amato”, con ardore. Una donna che abbia molto amato è una donna che ha avuto storie amorose con svariati uomini, ai quali all’inizio aveva creduto ma che poi l’hanno delusa.
    “Per amore ho rischiato la vita” ha sentenziato Annapaola Xodo, avvelenata dalla protesi al seno e che racconta la sua storia in un libro – “L’amore perfetto” il cui tema centrale è “la trasformazione fisica per ‘amore’, la chirurgia plastica inseguita come soluzione al sentirsi inadeguata al fianco dell’uomo dei suoi sogni”. Insomma, si cerca il principe azzurro e si ricorre alla chirurgia e al silicone per rendere più appetitosi per lui labbra, seno, pancia e chiappe. Un magnifico esempio anche questo di amore, anzi di “ammore”.
    Ma non tutti abboccano alla sciropposa propaganda amorosa. Secondo il giornalista Massimo Fini, “L’amore è un disturbo psicosomatico creato dalla Natura per costringere a congiungersi due sessi altrimenti incompatibili”. Uno che amò molto fu il romanziere Georges Simenon, che abitualmente aveva in casa due partner femminili sempre disponibili, e che fuori casa conobbe in senso biblico qualche migliaio di donne; stando almeno a quanto rivelò con disinvoltura al nostro Fellini. Simenon, grande esperto dell’amore, scrisse: “In tutti i miei romanzi credo che non ho mai parlato d’amore altrimenti che come un incidente, ossia una malattia, io credo quasi una malattia vergognosa, in ogni modo qualche cosa che non poteva che diminuire l’uomo togliendoli il controllo su sé stesso”. E ancora: “Considero la passione, come d’altronde gli psichiatri e i medici, come una malattia”.
    Neppure Giuseppe Prezzolini ebbe un’idea molto alta dell’amore. Scrisse: “L’amore fra i sessi è, fra tutte le passioni, la più egoistica, la meno sociale di tutti. Non vi è un ostacolo morale, non vi è ritegno di pudore, non vi è preoccupazione del bene comune, non vi è devozione di patria o interesse di stato che non possa essere sorpassato dalla passione amorosa. Non vi è piccolo mondo più chiuso ed esclusivo di quello di due che si amano”.
    Il sociologo Alberoni: “Nel libro ‘Innamoramento e amore’ ho definito l’innamoramento come lo stato nascente di un movimento collettivo formato da due persone”. Ma – aggiungo io – l’affinità dopo un po’ diminuisce, e il collettivo si allarga.
    Non di rado gli amori degenerano in odio. E allora la successione dei partner amorosi viene bloccata, talvolta cruentemente. Il fenomeno della violenza inflitta al proprio partner o ex partner è causato dal fatto che uno dei due non accetta le conseguenze della logica del tanto celebrato amore spontaneo, che è mutevole e spinge l’individuo alla varietà, ai cambiamenti, e ai grandi numeri.
    L’istituto del matrimonio, ormai soppiantato dall’unione libera, avrebbe forse garantito un po’ più di rispetto per il partner. Dopo tutto, persino i matrimoni combinati, tuttora esistenti in certe società retrograde, non creano gli inferni che la libera scelta, abbondante e ripetuta, produce per i partner abbandonati nelle nostre società “liberate” dalle ipocrite convenzioni che ci costringevano, fino a ieri, a rigar dritto.
    Ma concludiamo alla grande, con un accenno all’amore universale in cui i nostri italiani eccellono. Un’infinità di abitanti dello Stivale si proclama amante dell’umanità intera, dello straniero, del Diverso, sostenendo la necessità dell’abbattimento dei muri (forse anche quelli della camera da letto).
    Questi italiani, gran moralisti e predicatori, sono però in perenne conflitto tra loro; tra vicini di casa, tra condomini, tra parenti, tra avversari di squadra di calcio, di setta, di parrocchia, di campanile, di clan… Sono campioni di odi civili. Ma manifestano a parole un grande amore per il diverso, per lo straniero, per l’umanità intera. Purché questa resti lontana.

  4. A @Claudio Antonelli consiglio allora proprio la lettura di Tutto sull’amore. Nuove Visioni, bell hooks, Il Saggiatore 2022 :)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *