di Ottiero Ottieri

 

[Esce oggi per Interno Poesia la riedizione di Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri, con la postfazione di Edoardo Albinati e una nota filologica di Demetrio Marra. Pubblichiamo in anteprima alcune poesie].

 

Deve affrontare la vita senza le spalle
coperte dall’arte
e l’arte con le turbe della vita.
Tramontata l’euforia postcreativa
che lo accompagnava a farsi la barba,
in ascensore e in garage, maestro.
Rimpianto narcisismo! dinamitardo.
Caddero le difese come muri
nell’assedio. Il subdolo pirico
narcisismo d’un tratto
faceva a pezzi il periodo soddisfatto,
si scoperchiava la vita dopo l’artistico tratto
fantasmatico, produttivo, rimovente.
Ora esiste la quotidiana distinzione
fra il mestiere e il piacere:
l’esistenza senza l’artistico puntello
deve arrangiarsi da sé senza gloria.
Ogni sera ricomincia da capo,
l’ansia è senza storia.
Esce fiacco, privo dell’erezione della penna.
Al pirla tocca trovarsi
il suo autodiretto destino.
E la penna ha i pensosi disturbi del pirla.

 

*

 

Quando la giornata attimo per attimo
è dedicata – e lo sa perfettamente,
è la terra, quinta giornata –
alla soluzione non possibile del rebus,
la mattina non si sveglia.
Tira su il sonno con il lenzuolo
ma o si scopre la testa o si scopre
da piedi. Si riaddormenta,
si risveglia. Sa molto bene
che tutto deve essere fatto per allontanare
la coscienza, scongiura il risveglio
che porta l’inizio dell’interminabile esecuzione
e la infinita sentenza.
Alternanza di sonno e risveglio,
di qualche dolcezza, d’un gonfiore
di vergogna e di colpa. Così dorme fino
alle quindici, le sedici e trenta.
Pigro? Ma egli salta
su come un angelletto
al primo lucore dell’aurora se il risveglio
non è lavoro mortale.
Se il risveglio è gioia.
Ma mortale è il rebus.

 

*

 

La depressione del mattino
non ha miraggi di riscatto,
si attesta ormai come una vita infinita.
Ha dinanzi l’insano
vagolar del pomeriggio,
e la sera non fiesolana,
la sera che sbrana.
Non v’è confine a lei, dura
da quando furono alzati i muri
contro la speme.
Si disputa se sia cronico o ciclico:
prima affogava poi nuotava.
Ora fa sempre il morto
e vivacchia a una distanza remota, corta.
Aveva una volta il temporaneo
esaurimento, ora la decisione immensa
si avventa, avvolge in una fascia
ferma, eterna densa
il lavoro, l’ozio, lo spasso.
Non sa
cosa fare di sé.
Il filo lungo e teso
che tira i carri dei viventi
e li avvia a saziate catarsi
è diventato un gomitolo morbido.
Egli è molle come la nebulosa
sciolta se non fosse per la molla
che continuamente scatta verso una meta che si spenge,
pugno di mosche, angoscie fosche.
Quale mano lontana
lo dardeggerà verso un felice
fuoco che dura?
Nella paura il temporale è grigio,
non sprizza un litigio,
si passeggia in tondo nel cortile
servile, si deambula nell’oceanico
senso del mondo. Questo girare è detto
il metafisico cerchio dell’assenza,
giusto viene considerato (invidiato!),
no, non è metafisica né lirica,
è lo sgocciolio perenne dell’assenza,
presenza d’epatite, noiosa sopravvivenza,
sarebbe il tempo d’afferrare
la lancia e la lenza.

 

[Immagine: Anish Kapoor, Descent Into Limbo].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *