di Marco Fazzini

 

[Della poetessa scozzese Liz Lochhead, Argolibri ha pubblicato di recente Una scelta, con prefazione di Carol Ann Duffy e traduzione di Bernardino Nera].

 

Nata a Motherwell, nel Lanarkshire, nel 1947, Liz Lochhead crebbe a ridosso della metropoli scozzese di Glasgow quando questa conteneva tutte le contraddizioni e le ferite del periodo post-bellico. All’inizio, la sua carriera non fu per nulla orientata verso la letteratura. Frequentò prima il Liceo Artistico, poi l’Accademia di Belle Arti. Ma seguì anche dei corsi informali di scrittura creativa con Stephen Mulrine, che la seppe consigliare a dovere, e la aiutò a plasmarsi uno stile e un dettato personalissimo. Seppure l’arte la impegnasse a tempo pieno, la scrittura fu sempre parallela a quegli studi, fin quando si trovò ad avere abbastanza poesie per un primo libro: Memo for Spring (1972).

 

Ricordando gli anni della sua fanciullezza e adolescenza, Liz Lochhead ha spesso sottolineato come, nonostante sia sempre stata l’Irlanda ad essere protagonista di lotte religiose e ideologiche, le fosse malauguratamente capitato di vivere in quartieri separati, o di frequentare scuole che sembravano dei veri e propri compartimenti stagni, determinando gravi difficoltà nelle amicizie e negli incontri tra coetanei. Questo fu un elemento che si aggiunse a una già problematica situazione linguistica-culturale della Scozia, dove un sistema tripartito basato sullo scots, l’inglese e il gaelico creava, anche a Glasgow, non sempre facili binari da percorrere per farsi strada nella scrittura e nella pubblicazione di testi creativi. La scrittrice indagò le implicazioni e le politiche in atto nei confronti del gaelico in un’intera sequenza poetica (Outer/Inner) inserita nel suo secondo volume, Islands, del 1978. Così, l’occasione di godere d’un periodo di stanza all’Isola di Skye le permise di disquisire su cosa fosse una lingua minoritaria, in parziale disuso, o una lingua quantomeno in sofferenza in quanto a numero di parlanti madrelingua. L’influenza e l’opera del grande poeta gaelico Sorley Maclean, ai tempi ancora vivente, deve averla di certo influenzata, dandole manforte per questa rischiosa scrittura pseudo-politica, che lei attualizza come sempre in una forma confidenziale, colloquiale, aperta alla contemporaneità:

 

…si ha bisogno di un non-inglese –

non voglio sapere quei nomi sciocchi e carini

dati ai fiori di campo

come li trovo nel libro di Sarah.

simili a stelle in un prato ispido

i fiori di Skye sono troppo selvatici per chiamarsi

Seapink              Kingcup          Lady’s Smock

 

 

Poi, l’uso dello scots, per lei, si venne ad attualizzare quando si mise al lavoro sulla traduzione del Tartuffo di Molière, per la prima volta rappresentato nel gennaio del 1986 al Royal Lyceum Theatre di Edimburgo. Si trattava di una vera satira che, focalizzandosi sulla società francese del Seicento, poteva con facilità essere trasbordata nella Scozia contemporanea. Lo scots, a questo scopo, si adattava benissimo a una molteplicità di registri, potendo conservare l’ironia del testo originale, e una duttilità per la condivisione d’un dettato singolare.

 

Se dovessimo indagare le altre influenze sulla formazione di Liz Lochhead, non furono tanto lezioni di poesia e scrittura che frequentò con Philip Hobsbaum – che già anni prima, in Irlanda, aveva fatto scuola, o almeno gruppo assieme ad alcuni grandi poeti che erano già decollati – quanto la lettura di un poeta alquanto tradizionale come Philip Larkin, e tutto il Movement degli anni Cinquanta, non ultimo Louis MacNiece. Poi, venne la lettura dei poeti di Liverpool, e quell’apertura performativa che in Inghilterra faceva un po’ il verso alla Beat Generation americana, con in testa Adrian Henry, Adrian Mitchell e Roger MacGough. Non poco conto, inoltre, fu condividere una lettura pubblica col grande Norman MacCaig, incontrato per la prima volta nel 1972, al festival di Edimburgo. La voce di MacCaig non poteva risultare indifferente a un’aspirante scrittrice che voleva già riservare all’oralità, e alla performance, il giusto valore d’un’arte comunque musicale. In una delle sue maggiori interviste, la stessa Liz Lochhead ricordò di come non si trattasse di leggere poesia come un attore, ma di leggere testi in modo che possano essere accessibili a un pubblico seduto, sempre diverso, a seconda di luoghi e contesti, e trovare quindi un tono adatto perché la voce possa dialogare, possibilmente, con tutti gli ascoltatori. Un altro che in questo fece scuola, e col quale Liz Lochhead si legò in amicizia, fu Edwin Morgan, anche lui di Glasgow, un vero talento non solo nel campo della poesia amorosa e in parte legata alla fattualità quotidiana, ma anche in quello della poesia sonora, concreta e visiva. Quindi, per Liz Lochhead, vennero le scoperte/letture dei grandi irlandesi, come Seamus Heaney e Michael Longley, e successivamente gli americani Walt Whitman e Allen Ginsberg, e il verso proiettivo di Charles Olson, per poi tornare ad apprezzare un altro suo compaesano, il grande innovatore Tom Leonard. È la stessa Liz Lochhead a ripercorrere queste tappe di lettura, in varie conversazioni, anche se l’influenza di questi poeti può essere, quasi sempre, definita inconscia, pur aiutandola a muoversi da una scrittura prettamente autobiografica o semi-autobiografica – dove le voci, le persone, i fatti quotidiani e la famiglia suggerivano spunti importanti per il suo primo libro – a una scrittura più impegnata, che andava slargando i suoi orizzonti.

 

Muovendosi da testi sul nonno, la nonna, il grande toro nero, la compagna di scuola, i poveracci d’una metropoli in ripresa dopo la guerra, Liz Lochhead si mosse quindi verso una poesia diversa, che andò a comporre il suo secondo libro, del 1984: Dreaming Frankenstein (che includeva sia il primo Memo for Spring sia Islands sia The Grimm Sisters). Da qui in poi la sua scrittura volle parodiare, ri-raccontare, inventare di nuovo le storie dei personaggi che via via si sceglieva, usando la tradizione, i miti, le leggende, e le favole dove i protagonisti erano per lo più femminili. Ecco allora che il suo mondo cominciò a infittirsi di fate, belle addormentate, streghe, vampire che poi lei fece entrare dentro a un mondo capovolto, riscritto dal di dentro, per la prima volta inscritto sotto l’etichetta delle “Grimm Sisters”. E riuscì a trovare qui posto anche la storia, che ha non poche tragedie mostruosamente truculente, e che lei ben conosceva: Maria Stuarda di Scozia, Mary Shelley e il suo Frankesntein, il Dracula di Bram Stoker, e la Medea di Euripide. Liz Lochhead era a questo punto approdata a una scrittura ibrida, una commistione di generi e registri linguistici che le servivano non tanto per interpretare il mostruoso, quanto per appropriarsi di quei linguaggi e quelle voci, e rispondere “orrore con orrore”. Le sue donne non furono più l’oggetto della scrittura ma il soggetto. Il suo interesse era ormai orientato verso la natura più oscura della gente, sulle cause che possono deviare vite ordinate e razionali e condurle verso il buio. In breve, prese a indagare sugli esiti delle repressioni, in vari campi: linguistico, sociale, politico, sessuale, ricordando una frase tipica di Adrienne Rich: «A thinking woman sleeps with monsters».

 

Si spiega allora il suo interesse per le lingue minoritarie di Scozia, lo scots e il gaelico, la sua simpatia per il femminismo, il nazionalismo, e persino il socialismo, anche se poi è pronta a rinnegare queste etichette: dirà che la poesia è più alta e più forte di questi –ISMI. Si è definita più volte una scrittrice al femminile, ma non una femminista; una scrittrice attenta alle minoranze e al proletariato, ma non una vera socialista; una scozzese al punto giusto, senza radicalismi ideologici, ma comunque oppositrice della politica governativa inglese. E ancora: un’acerrima nemica della rappresentazione machista che la Scozia si è data nei secoli. Anni fa dichiarò: «Non mi piace questa cultura scozzese macho, ma so che voglio stare qui e negoziarla. Riconosco che questo posto oscuro è il mio. Non posso piagnucolarci sopra se non cerco di rispondergli, se non faccio un tentativo.» Principi semplici, eppure complessi quando applicati alla tradizione letteraria, a un canone che deve essere sovvertito, al ruolo autoriale delle istituzioni, e a una società patriarcale in cui le stesse donne si danno degli ideali auto-limitativi di femminilità, e vivono negli stessi stereotipi del femminile. Arriva addirittura, la nostra scrittrice, a sminuire il ruolo del poeta, cercando di fare a meno dei narcisismi che spesso incoronano i poeti con premi, ghirlande e allori, perché la scrittura rimanga scrittura, senza contaminarsi con il “vanity-publishing”, le pubbliche relazioni, e le politiche commerciali dell’editoria. Buoni propositi che l’hanno resa famosa, e dispensatrice di autentica onestà letteraria, un esempio che sarebbe tanto utile anche a noi, in quest’Italia di oggi:

 

I poeti non hanno bisogno di allori. Perché esser lodati

per il desiderio di provare a fissare l’immagine

incorporea con quell’unica semplice parola per renderla palpabile,

di ascoltare nel silenzio il ritmo in grado di

indurre il pensiero che ancora non è?

La ricerca è la sua stessa ricompensa. Perciò dovete far sì

che la poesia prenda voce prodigandosi

a casa tardi nel buio, mormorando

sillabe di versi scribacchiati – o quelli

che potrebbero essere, infine, versi, se si sapesse come farli.

 

(poesia tratta da Liz Lochhead, Una scelta, trad. it. Bernardino Nera, Argolibri, Ancona 2022)

 

 

Bibliografia essenziale

 

A.J.Aitken and Tom McArthur (eds.), Languages of Scotland, Edinburgh, Chambers, 1979.

Robert Crawford and Anne Varty (eds.), Liz Lochhead’s Voices, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1993.

Aileen Christianson, “Liz Lochhead’s poetry and drama”, in Aileen Christianson and Alison Lumsden (eds.), Contemporary Scottish Women Writers, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2000.

Liz Lochhead, Memo for Spring, Edinburgh, Reprographia, 1972.

—, Islands, Glasgow, Print Studio Press, 1978.

—, The Grimm Sisters, London, Next Editions, in association with Faber & Faber, 1981.

—, Dreaming Frankenstein & Collected Poems, Edinburgh, Polygon, 1984.

—, True Confessions & New Clichés, Edinburgh, Polygon Books, 1985; re-issued 2003.

—, Bagpipe Muzak, London, Penguin Books, 1991.

—, Medea, Nick Hern Books, Theatre Babel, 2000.

—, The Colour of Black & White: poems 1984-2003, Edinburgh, Polygon, 2003.

—, A Choosing, Edinburgh, Polygon, 2011.

—, Fugitive Colours, Edinburgh, Polygon, 2016.

Massimiliano Morini, “Liz Lochhead’s poetry and drama: in her own voice?”, in Marco Fazzini (ed.), Alba Literaria: a History of Scottish literature, Venezia Mestre, Amos Edizioni, 2005.

Colin Nicholson, “Knucklebones of Irony: Liz Lochhead”, in Poem, Purpose and Place, Edinburgh, Polygon, 1992.

Emily B. Todd, “Liz Lochhead interviewed by Todd”, in Robert Crawford, Henry Hart, David Kinloch,  Richard Price (eds.), Talking Verse, St Andrews and Williamsburg, Verse, 1995.

Roderick Watson, “Liz Lochhead”, in The Literature of Scotland: The Twentieth Century, 2nd edn, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007.

Christopher Whyte, “The 1980s: Douglas Dunn, Kenneth White, Liz Lochhead, Iain Crichton Smith”, in Modern Scottish Poetry, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2004.

Rebecca E. Wilson, “Liz Lochhead”, in Gillean Somerville-Arjat and Rebecca E. Wilson (eds.), Sleeping with Monsters. Conversations with Scottish and Irish Women Poets, Dublin, Wolfhound Press, 1990.

Fiona Wilson, “Scottish Women’s Poetry Since the 1970s”, in Matt McGuire and Colin Nicholson (eds.), The Edinburgh Companion to Contemporary Scottish Poetry, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2009.

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