di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo

 

[Con la pubblicazione di questa introduzione, a firma di Gianluca Rizzo e Lorenzo Mari, prende avvio un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Nelle prossime settimane LPLC ospiterà alcune reazioni di autrici e autori nazionali e internazionali, a cura dei promotori].

 

L’individuo non potrà mai diventare misura di tutte le cose.

    György Lukács, Storia e coscienza di classe

 

Introduzione (GR+ LM)

 

A voler parlare di “noi” con una voce sola si peccherebbe di logica, oltre che di coerenza. Un “noi” che voglia mostrarsi credibile deve parlare con più di un accento, presentare più di un solo punto di vista. Se ne pagherà il prezzo in termini di chiarezza, forse. Si dirà che lo sguardo critico ne risulterà sfocato, strabico perfino. Ma il guadagno in complessità di composizione e in ricchezza di sfumature giustificherà l’operazione, ne siamo sicuri.

Più che la formazione di “gruppi” (ormai consegnata, forse definitivamente, al passato prossimo) o alla pubblicazione di “mappe” e “antologie” (pratica che interessa ancora il presente), le questioni legate al “noi” in poesia – nelle sue possibile accezioni di “comunità”, “collettività”, “pubblico”, “sistema letterario”, etc. – possono essere più accuratamente esplorate dalla forma-questionario, in quanto forma plurale dell’indagine sulla poesia e con la poesia – forma che, negli ultimi tempi, ha assunto sempre più chiaramente la fisionomia di una domanda radicale, e radicalmente connessa al “noi”, sulla presa di parola[1].

 

Riproponendo in questa sede un questionario, si intende dunque sfruttare il potenziale euristico di questa forma, ben sapendo che ciò non è garanzia, di per sé, di particolari esiti. Nello specifico, ciò che appare inevitabilmente disarticolato (e potrebbe benissimo esserlo anche in questa occasione, con un piglio però più programmatico) è la forma delle risposte, spesso divergenti a tal punto da risultare idiosincratiche, tanto incomunicanti tra loro quanto lo è il panorama descritto: questo, non tanto per una forma di narcisismo intrinseca alla posizione autoriale, nel campo della poesia o delle scritture di ricerca contemporanee (posizione che sarebbe inutilmente moralistico, nonché presuntuoso, da parte nostra, tornare a sottolineare), quanto per alcune zone oscure della forma-questionario in rapporto alle tematiche che informano e sollecitano questo tipo di interventi. Oscurità che questo intervento non si propone, in prima battuta, di combattere e illuminare, ma di moltiplicare, e riposizionare dialetticamente[2].

 

Vogliamo porre, dunque, un dialogo a più voci all’origine di questo nostro discorso sul “noi”, pronome e strategia retorica che bisognerà definire collettivamente, in comunità, senza puntare al consenso, ma piuttosto all’avanzamento della conversazione: perché ci si incontri in uno spazio condiviso nello sforzo di vedere il mondo dal punto di vista dell’altro (compagn* di strada, sodale o avversari* che sia), almeno per un momento.

Da qui la struttura insolita di questo invito al dibattito, presentato come un dialogo a due voci (Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo), ciascuna con stili e punti di vista che, se sono diversi, non per questo sono incompatibili. L’obiettivo non è la riduzione a un denominatore comune ma piuttosto la ricostituzione di un “noi”, punto di partenza imprescindibile per qualunque (eventuale) programma poetico e/o politico (ma per la problematicità di questo nesso, vedi sotto) si intenda portare avanti.

 

Assiomi e prolegomeni (GR)

 

1) La politica fa la politica, la poesia fa la poesia. Cercare di fare in poesia (con gli strumenti della poesia) il lavoro della politica è il modo più sicuro per mortificare sia la politica sia la poesia. Questo non vuol dire che la poesia sia estranea alla politica. Tutt’altro! Ma se si tratta di organizzare e mobilitare l’elettorato, o le collettività, regolare l’accesso al potere e alle istituzioni, la poesia non è lo strumento adatto.

 

2) L’identificazione del discorso poetico tout court con la lirica ha danneggiato la poesia e limitato il suo margine operativo all’interno della società, imponendole una doppia condanna: da un lato prodotto culturale elitario, difficile, opaco; dall’altro, provincia esclusiva per anime belle. È un fatto che si apprezza ancora meglio al confronto con altri generi e media artistici che si sono mostrati più efficaci nell’allestire occasioni per l’emergenza del Reale (usando un lacanismo, ma nel senso politico indicato da Fisher, si veda più sotto), e dunque permetterne l’osservazione e lo studio. L’identificazione della poesia con la lirica è essa stessa un sintomo, una figura di quel Reale soppresso dal Capitale, fatto di atomizzazione, isolamento, alienazione, fallimento delle strutture sociali intese ad organizzare i cittadini nell’interesse del bene pubblico. Generi come l’invettiva, la satira, l’epica sono stati trascurati o estromessi all’ingrosso dal discorso poetico. Così sono andate perse preziose occasioni per la riflessione in comunità, per il confronto, in altre parole per la manutenzione di un “noi politico”.

 

3) Porre la questione nei termini di “creazione di un ‘noi’ in poesia” invece che come questione del “pubblico di poesia” fa una differenza enorme. Pubblico implica una dimensione passiva, di ricezione. La distinzione fra produttori e consumatori di cultura è ormai obsoleta. Lo era già in seguito alla rivoluzione estetica operata dalle avanguardie all’inizio del Novecento (anche se possiamo farla risalire all’altezza della cesura “oggettiva” tracciata da Rimbaud); lo era già in seguito al lavoro svolto dalla seconda e terza ondata di avanguardia in Italia (si pensi al ruolo svolto da un modello stocastico di composizione dei testi, di derivazione dadaista, poi ravvivato nella seconda metà del Novecento); obsoleta anche alla luce della “rivoluzione digitale” il cui araldo, Mosaic, primo browser moderno, nel 1993 ci ha aperto le porte del world wide web; è a maggior ragione obsoleta oggi, nell’era dei social media, quando siamo tutti scrittori (chi più, chi meno). Occorre programmare una poesia che sappia sfruttare questa nuova realtà a suo vantaggio (invece di lamentarsene in modo nostalgico, o comunque sterile).

 

4)  L’individuazione di un soggetto politico nuovo (o la restaurazione di uno vecchio, per quanto improbabile), di un “noi politico”, se vogliamo, non è compito che può essere portato a termine da una singola istituzione. Questa entità ipotetica (perno di tutti i discorsi che riguardano la res publica) può emergere solo come risultato di una convergenza di forze, istituzioni, strategie messe in atto da una varietà di gruppi che agiscono di concerto.

 

5) Domanda: Che ruolo può e deve assumere la poesia in questo processo?

 

6) Si comincerà dall’ovvio: questo non è un problema per l’individuo, da affidare alla singola dichiarazione di poetica, passibile di risoluzione attraverso una data postura stilistica. È un problema per la comunità di coloro che scrivono e leggono poesia. E allora eccoci qui, a proporre una conversazione, uno scambio, usando due degli strumenti che, tradizionalmente, abbiamo a disposizione: il saggio e il questionario.

 

7) Domande: Perché abbiamo tanta difficoltà ad articolare un “noi” in poesia? Perché facciamo tanta fatica a scrivere e leggere “noi”? Cosa vogliamo dire quando diciamo noi? Noi chi? Noi italiani? Noi borghesi? Noi lavoratori interinali? Noi meridionali? Noi emigrati? Noi immigrati? Noi maschi? Noi donne? Noi genderfluid? Noi abili? Noi animali umani? E al di là di etichette più o meno rigide, più o meno identitarie, noi che scriviamo poesia? Noi che leggiamo? Noi che eleggiamo? Noi chi? Come si può sfuggire al sospetto che leggendo e scrivendo “noi” in versi ci si stia arrogando un plurale che non ci si è guadagnati? Come fare a esorcizzare la sensazione che dicendo “noi” si indichi un vuoto, una mancanza, che nella migliore delle ipotesi rimanda a un’aspirazione a costituirsi come comunità di sodali; al peggio, invece, nasconde stereotipi e preconcetti che vengono da un’idea di identità collettiva basata sull’esclusione, obsoleta, inattuale, regressiva, quando non apertamente reazionaria (o razzista)?

E anche quando si saranno individuate risposte soddisfacenti a tutte queste domande, come si farà a tradurre quel “noi”, così costituito e chiarito, in termini stilistici, retorici, poetici? Si vede bene che non è questione da poco.

 

Una questione di pronomi? (LM)

 

Come ricordato in una conversazione tra Antonio Loreto e Massimiliano Manganelli che dava inizio ai lavori (anche in questo caso plurali, come ogni forma-questionario) del secondo convegno ex.it di Albinea (2014), già Valéry scriveva nei Cahiers che «ci sono due persone in Io», je e moi, dato che «noi riceviamo il nostro Io conoscibile e riconoscibile dalla bocca altrui». In altre parole, prese a prestito da Jean-Christophe Bailly, “io” e “non-io” sono presi in una relazione costitutiva che è certamente ideologica – da questo punto, anche da questo punto, prendono forma le ormai note discussioni su “identità” e “alterità” che alimentano le politiche identitarie contemporanee – ma non è ideologia in modo né precipuo né esclusivo (né necessariamente degradante, per chi voglia concedere una certa polisemia al termine “ideologia”).

 

Del resto, la jonction tra “io” e “non-io” citata da Bailly era già stata rilevata da Benveniste come uno dei Problemi di linguistica generale (1966) nell’ambito della discussione del “noi”. Tale pronome apre un varco nella prima persona, poiché, sempre tornando a Benveniste, in nessuna lingua a lui nota, all’epoca, il “noi” poteva risultare formato dalla pluralizzazione dell’“io”, ma dalla relazione molteplice “io + tu”, “io + voi” e “io + loro” (o anche: “io/me + non-io/tu”, “io/me + non-io/voi” e/o “io/me + non-io/loro”). Molteplicità che tuttavia finisce in molte lingue per essere designata, in modo paradossalmente univoco, dal solo “noi”, spesso richiudendo, o almeno cercando di richiudere, il varco che si era aperto.

 

Da un punto di vista strettamente linguistico, dunque, non vi è una sola “prima persona” – né singolare, né plurale – cui si possa fare riferimento, bensì un continuo gioco, in prima battuta deittico, di natura relazionale e differenziale. Il gioco può restare aperto, oppure tentare di darsi una conclusione (e una chiusura), ad esempio nella costituzione delle “comunità poetiche”, comunemente designate con le etichette finora individuate dalle più diverse tradizioni critiche: dalla lirica alla post-lirica, dall’oggettivismo al neo-oggettivismo, dal concettualismo al post-concettualismo, etc.

 

Tutte queste comunità risultano basate sul paradosso di una relazione molteplice (“io/me + non-io/tu”, “io/me + non-io/voi” e/o “io/me + non-io/loro”), che si potrebbe al tempo stesso descrivere in modo unitario (“noi”). In funzione del varco che si è aperto, ciò può succedere anche in assenza di un’esplicitazione, nell’enunciazione, di marche deittiche personali, e cioè specificamente riconducibili alle “prima persona”. In altre parole, è possibile arrivare a dire “noi” anche senza attivare alla deissi corrispondente? Viceversa, è possibile non arrivare a dire “noi” pur dicendolo?

Le risposte trovano verifica nei testi, una verifica che attraversa, ma non per questo resta limitata alla questione pronominale.

 

Noi: un problema quantitativo? (GR)

 

A questo proposito, mi viene in mente un servizio sentito qualche anno fa alla radio pubblica americana NPR, e poi visto quella stessa sera sul canale televisivo pubblico PBS (già da qui si intuisce chi fosse il destinatario implicito del discorso). Si parlava dell’ultimo libro di Robert Putnam, l’autore di Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community (2000); da cui viene il “bowling” in Bowling for Columbine (2002), famoso documentario di Roger Moore. Tutto questo per dire che si trattava di uno di quei libri la cui pubblicazione fa notizia. Il pressappochismo filosofico e metodologico di Putnam è cosa risaputa, ma in quest’ultima sua fatica, intitolata The Upswing: How America Came Together a Century Ago and How We Can Do It Again (2020), raggiunge nuovi livelli di ottusità. Sfruttando il database Ngram (“Il programma Ngram ti può dire quante volte compare una data parola in tutti i libri pubblicati in un qualsiasi anno”, spiega Putnam al giornalista che lo intervista), si misura, anno per anno, la quantità di volte in cui si scrive “I” rispetto alla quantità di volte in cui si scrive “we”. Il suo Upswing traccia l’evoluzione di questo parametro dagli anni ’60 a oggi e scopre che negli anni ’60 si usava più spesso il “noi” di quanto non si faccia oggi. Da qui si desume un crescente grado di narcisismo ed egoismo nell’americano medio, atteggiamento che si è pronti a condannare moralmente, attribuendone le cause all’individuo (ma anche un po’ al trumpismo, che tanto c’ha le spalle larghe). Naturalmente si tratta di un’operazione ingiustificata (e, direi, offensiva) dal punto di vista scientifico e logico, ma che serve a dare l’apparenza di oggettività a quella bugia banale cui diamo tutti credito: andiamo molto meno d’accordo oggi di quanto non facessimo 40 anni fa. Perché, dunque, non troviamo un modo di convivere? In fondo, basta poco per volersi bene… Gli strumenti offerti dalle “digital humanities” e da tutte le tecniche analitiche del “distant reading” (lettura a distanza) aprono prospettive inedite su testi e fenomeni che pensavamo di conoscere a fondo, ma il rischio di un riduzionismo determinista e miope è sempre in agguato. Bisogna sottrarre il discorso a quelli che, come Putnam, imbarazzanti laudatores temporis acti, ne fanno occasione per un moralismo sciocco e riduttivo.

 

Lirica: parte della soluzione o parte del problema? (LM)

 

Se si prende in considerazione il piano formale nel suo insieme, con e al di là dell’abbondanza quantitativa nel ricorso alla deissi, è possibile prendere coscienza di una monadologia sempre più asfittica, probabilmente lontana dall’harmonia mundi leibniziana e più vicina alle categorie, tipiche della modernità e tarda modernità capitalista, del conflitto.

Si pensi alla nota descrizione lukácsiana delle strutture estetiche come monadi cieche, senza porte o finestre: una delle matrici più evidenti, tra le altre, per il lavoro teorico-critico di Guido Mazzoni sulla poesia[3]. Seguendo l’argomentazione del suo lavoro più noto e importante, On Modern Poetry (2022), la poesia moderna si è sviluppata non solo e non tanto in chiave romantica e dunque espressivista, quanto come una proliferazione di monadi, provocata dalla perdita di un quadro di riferimento condiviso, in funzione del “diritto”, eminentemente moderno, “alla non appartenenza” (non solo a una società come quella dell’Ancien Régime, ma anche a una tradizione, a un insieme di tecniche ed elementi formali, ecc.). Al predominio dell’insieme di tecniche, testuali ed extra-testuali, che costituivano quel quadro di riferimento si sono andate sostituendo le individualità delle poetiche e degli stili; vi è stato, però, almeno un esito paradossale, poiché questa proliferazione di monadi mantiene in vita, e anzi riproduce continuamente, un commercio con il “sistema” più generale – basato, di nuovo, su imitazione e appartenenza.

 

Senza pretendere di esaurire qui la discussione sulla vastità di temi che questo approccio chiama in causa, si può di sicuro notare, insieme a Mazzoni, come negli ultimi secoli si sia prodotto un certo separatismo tra le comunità poetiche e la comunità sociale più ampia, essendo quest’ultima striata dalla non appartenenza. Nelle comunità poetiche, d’altra parte, le monadi non smettono di essere monadi, riflettendo nella loro singolarità e separatezza quello che è lo stato della società capitalista – o, in seguito, tardocapitalista – nel suo insieme (per Mazzoni: relativismo, perdita di valori comuni, atomizzazione e conflitto degli interessi, etc.).

 

Si tratta, dunque, di una storia che, come giustamente osserva Mazzoni, è irta di contraddizioni: non potrebbe essere altrimenti, del resto, se si parte da una prospettiva analitica di stampo materialista e, per di più, con una chiara impronta lukácsiana. A partire da questo, come indicano molti altri studi – nell’ambito, in particolare, ma non solo, dei Modernist Studies anglofoni – si può sempre delineare una storia alternativa della modernità, sfruttandone le pieghe, i risvolti, le potenzialità antagoniste che le sono inevitabilmente correlate[4], anche quando la modernità si auto-immagina e auto-descrive, in primo luogo, come un movimento lineare e progressivo.

In fondo, è originariamente concepita come monade anche l’immagine dialettica di Benjamin, oggetto-feticcio (in relazione al passato) e al tempo stesso interruzione ambigua del sentire (in relazione al futuro). E dunque, è ancora possibile rintracciare immagini dialettiche nella poesia contemporanea?

 

Viceversa, si possono enfatizzare maggiormente gli elementi di continuità che non quelli di discontinuità; a quel punto, e tornando a parlare della problematicità del “noi”, una tale storiografia e monadologia, nella loro sovrapposizione con la “poesia moderna” e nella frequente coincidenza di quest’ultima con la “lirica” – in un’accezione che può essere tanto continentale quanto anglosassone (rinviando, per esempio, a Theory of the Lyric di Jonathan Culler) – non è forse parte del problema, oltre che parte della soluzione?

 

Rilievi e percorsi (GR)

 

Da dove cominciare? Forse da un inventario di cosa è cambiato nel mondo e nel modo in cui gli esseri umani lo abitano; in parte, per individuare le cause dell’incertezza che ci vede invischiati; in parte per prendere atto della morfologia di un paesaggio che occorre attraversare.

Mutazione antropologica / Crisi del sistema democratico. Deleuze, Žižek, Fisher,[5] fra gli altri, hanno indagato e documentato i cambiamenti fisici, psicologici, spirituali causati dal (tardo) capitalismo. Siamo di fronte a un processo paradossale che da un lato omologa orizzonti, immaginari, prospettive, storie, sogni, aspirazioni; dall’altro isola e atomizza la popolazione, racchiudendola nella sua individualità, nel suo privatissimo interesse. Per superare questo paradosso occorre espandere l’orizzonte dell’immaginabile e, allo stesso tempo, includere nel proprio universo di coscienza i desideri altrui, accettandone la presenza, la validità, l’urgenza, l’uguaglianza rispetto ai propri. “Rivendicare un’azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio[6], scrive Fisher. La poesia può aiutare nel processo di modulazione e concertazione del desiderio a livello della comunità.

 

La verità forse più scomoda è che nonostante tutte le illusioni che possiamo nutrire riguardo alle differenze e ai disaccordi che ci dividono, nel senso più profondo, antropologico, siamo già costituiti come un “noi”: “Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione”[7] L’alienazione è una delle diagnosi più efficaci, accurate e longeve della critica marxista. Più difficile è riconoscere e accettare la complicità che ciascuno di noi ha nel sostenere e perpetuare quello stesso sistema che causa il nostro isolamento, accresce la nostra infelicità: “In un certo senso, è vero che le élite politiche sono nostre serve: ma il miserevole servizio che ci prestano è quello di mondare le nostre libido, di esibire i desideri che abbiamo ripudiato in maniera compiacente e come se questi non ci riguardassero”[8].

 

Un’influenza tanto invasiva e continuata sulla dimensione del desiderio ha avuto un impatto intergenerazionale. Le sue conseguenze – che si accumulano e moltiplicano nel passaggio da una generazione all’altra, come tare genetiche che, passando di padre in figlio, si aggravano e s’amplificano – hanno superato la soglia che marca una differenza antropologica. Gli esseri umani contemporanei sono sostanzialmente diversi dagli esseri umani di mezzo secolo fa.

Per questo sarà utile un ritorno all’antropologia, e in particolare agli studi di kinship (da Lévi-Strauss a Eduardo Viveiros de Castro) per ricostruire le caratteristiche costitutive di questo nuovo essere umano e del modo in cui si costituisce in gruppi sociali. L’antagonismo è stato spostato dallo spazio fra le classi all’interiorità dell’individuo[9]. Non solo: quel sistema (Capitalismo) che un tempo era uno fra i tanti modi di organizzazione della produzione economica, diventa l’unico (e dunque “naturale”, “necessario”, “immutabile”) sistema di organizzazione di tutti gli aspetti sociali, morali, affettivi. Come scrive Fisher: “il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile” [10].

 

Questo mancare a se stessi nonostante (o a ragione di) una compiuta omologazione con gli altri è il Reale (osceno, nel senso di irrappresentabile, impensabile, etc., nel senso di Lacan) che soggiace all’incapacità manifesta di dire “noi” in versi. L’unico tratto che ci unisce tutti, al di là delle nostre trappole narcisistiche, dei nostri interessi individuali per come ci sono dettati dal senso comune (dal Capitale), pare essere proprio l’instabilità, questa trasformazione in fieri, l’indeterminatezza, l’imprevedibilità del paesaggio interiore che ciascuno racchiude, in contrasto con l’apparente immobilità e universalità del sistema di valori nel quale siamo tutti immersi. È da qui che occorre partire. Viveiros de Castro affronta un problema omologo a proposito dell’antropologia, nel tentativo di liberarsi da uno sguardo eurocentrico, per farne una disciplina per la  “decolonizzazione permanente del pensiero”; e con il secondo fine di “creare un’altra modalità, oltre alla filosofia, per la creazione dei concetti”.[11] Mi sembra che, con minimi adattamenti, strumenti e programma possano essere adottati dalla scrittura poetica e dalla critica letteraria, per la “decolonizzazione permanente del linguaggio”. Forse la soluzione nel creare un “noi” in poesia sta nel concentrarsi sul processo di trasformazione piuttosto che sul prodotto. Jamille Pinheiro Dias riflette sull’utilità in letteratura dei concetti esplorati da Viveiros de Castro: “Quello che chiamo creatività – e creatività nella poetica amerindia, più specificamente – […] punta alla poiesis o al “fare” precisamente come una modalità di trasformazione fra umani e non-umani”[12]. E questa apertura a una collaborazione fra umano e non umano (ma non solo animale, anche vegetale, elettronico, etc.) è un elemento cruciale, da tenere ben a mente anche quando si parlerà di crisi climatica e cambiamenti legati alla tecnologia.

 

Crisi climatica. La crisi climatica sta al capitale come la realtà sta al reale (sempre in termini lacaniani). Fisher spiega così:

 

Per Lacan il reale è quello che ogni «realtà» deve reprimere; meglio ancora: la realtà si costituisce proprio attraverso tale repressione. Il reale è una X non rappresentabile, il vuoto traumatico che può essere soltanto intravisto tra le spaccature e le contraddizioni della realtà apparente. Viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall’evocazione di quei «reali» che sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta. Uno di questi è la catastrofe ambientale. Certo, a prima vista le questioni ecologiche non danno esattamente l’idea di essere un «vuoto non rappresentabile» per la cultura capitalista: più che inibiti, argomenti come i cambiamenti climatici e la minaccia dell’esaurimento delle risorse vengono essi stessi sfruttati dalla pubblicità e dal marketing. È però un modo di trattare la catastrofe ambientale che illustra alla perfezione il tipo di fantasia le risorse siano infinite, che la Terra altro non sia che un guscio da raschiare, e che qualsivoglia problema verrà risolto dal mercato.[13]

 

Si potrebbe invocare qui anche il lavoro svolto da Naomi Klein sul modo in cui il concetto di “crisi” viene impiegato dal Capitale per implementare riforme radicali che deprimono la democrazia e concentrano poteri e privilegi.[14] Ma a maggior ragione, il rimedio non può che passare dalla costituzione di un “noi” che sia capace di discutere, decidere razionalmente, affrontare quel Reale politico descritto da Fisher, ma soprattutto capace di immaginare un futuro che sia sostanzialmente diverso, altro rispetto al presente, un ordine sociale, morale, economico che sia in completa alternativa rispetto al sistema capitalistico attuale (come suggerisce Klein). Quando facciamo riferimento a un “noi” in poesia oggi, questa entità deve includere anche i discendenti umani e non umani di chi è vivo oggi. Se è vero che oggi si decidono le sorti delle prossime 3, 5, 10 generazioni, allora, proporzionalmente, aumenta la responsabilità di cui ciascuno di “noi” è investito.

 

Noi: un problema politico? (LM)

 

Per iniziare a rispondere a questo interrogativo, si possono riprendere le sollecitazioni di una recente linea di indagine sul “noi” nell’ambito della filosofia e critica letteraria francese, rappresentata dal già citato Bailly e da Marielle Macé, in cui, a partire proprio dal confronto con la poesia, si identifica il “noi” con una comunità politica dai contorni porosi, o anche fluidi, in opposizione ai rigidi confini delle comunità nazionali, religiose, etc., coagulate intorno a un discorso ideologico e/o identitario tout curt. Tale comunità risulta formata, nel caso di Bailly, dalle nostrations, ovvero «petites et […] éphémères formations insulaires» («piccole ed […] effimere formazioni insulari»). Le nostrations sono dunque simili alle costellazioni monadologiche già incontrate, eppure mantengono in vita un’apertura dell’ “io” – nella relazione con il “non-io” (il punto di riferimento di Bailly, nella linguistica, è sempre Benveniste) – che ha esiti potenzialmente emancipanti. In un contributo successivo a quello di Bailly, Marielle Macé ha cercato di elaborare ulteriormente tale posizione, pervenendo a una definizione “non-limitata”, più che “indeterminata”, del “noi” – non fissata a priori, dunque, bensì costantemente generata da un fare che è poetico e insieme politico. Nostrations, si potrebbe aggiungere, che sono anche nostractions, come nella possibile traduzione italiana provvisoria “nostrazioni”.

 

Una parola d’ordine incidentalmente simile a quella di Bailly e Macé, ma che si fonda e presupposti diversi e porta a conclusioni piuttosto lontane, è invece quella di Jean-Claude Milner che, nei Nomi indistinti (1983) e anche nel Periplo della struttura (2002), cerca di teorizzare una politica all’altezza del Reale lacaniano, lezione della quale Milner è uno fra i molti eredi. Anche Milner rivendica l’apertura e la precarietà delle parole e delle azioni, ma lo fa in aperta polemica con Benveniste, del quale accetta quasi unicamente il lavoro di scavo archeo-filologico. Parole e azioni, secondo Milner, appartengono ai “nomi indistinti”, ossia alla molteplicità dei soggetti coinvolti sulla scena politica, arrivando a destituire il concetto stesso di “pronome politico” – anche per Milner, il “noi” è reso “conoscibile e riconoscibile dalla bocca altrui”, generando, in particolare in lingua francese, quel suo rovescio speculare che è “non-noi”, l’on cosiddetto “impersonale” – e invocando invece un’azione di disvelamento e critica quella “omonimia radicale” che identifica il potere (omonimia che potrebbe istituire perverse alleanze, a quel punto, con le “omofonie radicali” già rintracciate, nel proprio lavoro, da Benveniste).

 

Questi esempi – sintomaticamente basati su profili ancora parzialmente umanisti (nonostante il noto intreccio delle posizioni di Bailly e Macé con l’attuale dibattito post-antropocentrico) o, per altri versi, su una matrice lacaniana che conduce, infine, a identificare la critica con la sua azione demistificatoria – portano a formulare un’altra domanda: qual è il raggio d’azione politica del “noi”?[15]

 

Altri rilievi, altri percorsi (GR)

 

Tecnologia: I social media.

 

Se la cifra della disciplina è il lavoratore-prigioniero, quella del controllo è il debitore-tossico. Il cyber-Capitale agisce creando dipendenza nei suoi stessi utilizzatori […].

Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell’essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell’informazione online e mobile. «La scrittura non è mai stata retaggio del capitalismo. Il capitalismo è profondamente analfabeta», sostengono Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo; «il linguaggio elettrico non passa né per la voce né per la scrittura: l’elaborazione dei dati può fare a meno di entrambe».”[16]

 

La scrittura, intesa come riflessione attiva su e attraverso il linguaggio, è attività intrinsecamente critica. Una forma di scrittura è anche il tipo di lettura cosciente, deliberata, attiva, creativa, che viene presupposta dalla poesia. Ma se gli incentivi (sociali, tecnologici, culturali) sono allineati a favore di una fruizione del testo superficiale, strumentale, narcotizzante, come fare a raggiungere la popolazione post-lessica descritta da Fisher?

Esiste un “noi” continuamente creato dagli algoritmi che regolano le piattaforme di social media. Occorre rassegnarsi a questo noi come all’unico possibile, un noi costruito sulla figura del “debitore-tossico”? Assolutamente no: si dovrà trovare il modo di fare di meglio, di esplodere la bolla sociale che ci contiene, la camera d’eco che ci assorda. Anche perché il centro di aggregazione dei gruppi social è tanto più attraente ed efficace, quanto più radicato in un nucleo di fastidio, odio, e disprezzo che nutre la comune e condivisa irritazione. Più deboli, meno efficaci e duraturi sono i gruppi costruiti intorno a una passione, un progetto di crescita in comunità. Lo verifica ciascuno di noi nella sua esperienza quotidiana (ma si veda almeno, per quanto concerne la poesia, la raccolta Nuova poesia troll che ha pubblicato di recente Argolibri).

 

Questo “noi” dei social viene creato in un modo o nell’altro, che ci piaccia o no. Bisogna strappare questa modalità, il controllo di questo strumento di aggregazione dalle grinfie dell’algoritmo, dalle mani del capitale neoliberista… ed affidarle a chi? A “noi”? Ai poeti!? Per carità! E allora?!

La priorità più urgente è sottrarre il discorso ai nostalgici del prima, che idealizzano un passato probabilmente mai realmente esistito. O, peggio, ai tecno-utopisti che vedono nel miraggio della democrazia diretta e digitale la soluzione a ogni male. Si tratta di una questione urgente, pratica, e occorre affrontarla con acume politico e piglio pragmatico: come si costruisce una retorica del noi che non sia basata sull’odio? Che non sia basata su un senso di identità che viene da una storia mal studiata, mal insegnata, mal imparata? Occorre lavorare alla progettazione di nuovi significati; “progettazione e non fondazione” come scriveva Pagliarani più di mezzo secolo fa:

 

Molti fra i più impegnati dell’avanguardia […] ritengono […] che la finalità e/o funzione dell’arte sia quella dell’opposizione […] Ma qui preme far rilevare che l’opposizione è una modalità e non una finalità. […] Allargando l’orizzonte, […] la negazione si è specificata come contestazione. Contestazione dei significati, dei significati precostituiti, che lo scrittore trova nella lingua […]. Contestazione dei significati precostituiti e usurati della langue, e progettazione di nuovi significati. Progettazione e non fondazione di nuovi significati, perché la fondazione di nuovi significati relativamente alla lingua è opera della collettività, della società nella storia […]. Progettare il nuovo, perché non basta negare […].[17]

 

E cioè, poesia, prima persona plurale! Serve un “noi poetico” da opporre al “noi algoritmico” propinato dalle piattaforme di social media. Senza, si corre un rischio doppio e speculare: da un lato, di non riconoscersi nel gruppo in cui si è inseriti (con il conseguente codazzo di smarrimento, depressione, senso di isolamento). Dall’altro, ci si può identificare troppo strettamente con l’identità e l’ideologia di un gruppo formato sulla base di logiche economiche (di marketing, etc.) che ci sfuggono completamente e che non servono i nostri interessi (economici, sociali, spirituali, etc.) né rispecchiano o soddisfano i nostri bisogni affettivi.

 

Tecnologia II: L’intelligenza artificiale.

 

Non si può più ignorare la presenza, nello spazio della letteratura, dei sistemi di intelligenza artificiale (AI), né di quel complesso insieme di strumenti, generi, convenzioni e tradizioni che alcuni (Leonardo Flores) chiamano “distant writing” (scrittura a distanza). Soprattutto in lingua inglese, i sistemi di intelligenza artificiale hanno raggiunto livelli di sofisticazione tali da non potersi più ignorare. Si vedano code-davinci-002, oppure l’esperimento di Google, intitolato Verse by Verse, anche se i risultati più interessanti mi pare si debbano a Digital Poetry. Presto cadrà l’incomprensione e il pregiudizio che costringe questi sistemi a scimmiottare il poetare (e più in generale la mediocrità) del genere umano. Allo stesso modo, le diverse modalità di scrittura a distanza raggiungono un livello crescente di maturità e indipendenza; si vanno costituendo come una tradizione ricca, stratificata, rigogliosa di talenti e portatrice di messaggi di innegabile rilevanza e attualità. Può essere questo un modo per rimettere al centro della comunicazione poetica un “noi”, un’alleanza di umano e artificiale? Un modo per colmare le distanze (fittizie, temporanee, instillate dai sistemi di potere che ci vogliono divisi) che sembrano isolarci usando proprio quella tecnologia i cui effetti deleteri abbiamo finora sperimentato quasi esclusivamente?

 

Il “noi” contemporaneo non può non includere anche la sua controparte elettronica, computazionale, algoritmica, sia nella forma delle piattaforme di social media (con le difficoltà e possibilità che pongono), sia nella forma di intelligenza artificiale, che dà accesso a una serie di strumenti che bisogna imparare a usare per gestire l’enorme quantità di informazioni delle quali la nostra infosfera è intessuta e, allo stesso tempo, ci offre la possibilità di creare un tipo di arte programmata capace di sfruttare l’obsolescenza della distinzione fra produttore e consumatore di cultura, fra artista e pubblico.

 

Domande ai poeti e ai critici (LM+GR)

 

Per avviare il dialogo, per iniziare quella formazione del “noi” la cui necessità e le cui ragioni ci siamo sforzati di esprimere qui sopra, proponiamo questa lista di domande. Ci interessa soprattutto la dimensione pratica, fattuale, poietica. Ci interessa il come. Parliamo del lavorio, del fare versi, dell’orientare la lettura e la scrittura.

 

– Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?

 

– Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?

 

– Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?

 

– Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?

 

– Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?

 

– Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?

 

Note

 

[1] Si vedano, a tal proposito, La radice dell’inchiostro (pubblicata a puntate su Nazione Indiana e poi in libro per Argolibri, nel 2021), a cura di Giorgiomaria Cornelio, e Snuff box: poesia e presa di parola (2022, in corso) a cura di Massimo Palma e Sara Sermini.

[2] L’idea di “oscurità” connessa alle “comunità poetiche” è ripresa, tra gli altri, da Infidel Poetics: Riddles, Nightlife, Substance di Daniel Tiffany (University of Chicago Press, 2009).

[3] Cfr. G. Mazzoni Forma e solitudine (Marcos y Marcos, 2002) e Sulla poesia moderna (Il Mulino, 2005, ora disponibile in traduzione inglese e versione aggiornata con il titolo di On Modern Poetry, Harvard University Press, 2022).

[4] Lo segnala, ad esempio, Tiffany, nel già citato saggio Infidel Poetics, con un’indagine sulla monadologia che probabilmente è più ottimista rispetto a quella di Mazzoni, poiché affida alle comunità poetiche “underground” e “alternative” così formate un certo potenziale di «social inversion» (il termine è imparentato con l’“omo-monadologia” che attraversa la prospettiva queer antisociale di Leo Bersani, critico statunitense che ha iniziato la propria attività teorica occupandosi di “quel leibniziano” di Proust).

[5] “I sintomi del fallimento […] sono ovunque […] Quello che serve è legare l’effetto alla sua causa strutturale. Contro l’allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, sono tutti effetti di un’unica causa sistemica: il Capitale.” (M. Fisher, Realismo capitalista, tr. it. Valerio Mattioli, NOT, Roma, 2017 [2009], p. 147.

[6] Id., p. 47 (corsivi nell’originale).

[7] Id., p. 48 (corsivi nell’originale).

[8] Ibidem.

[9] Id., p. 80: “Oggi l’orizzonte dell’antagonismo non sta più all’esterno, vale a dire nel confronto tra blocchi sociali; è semmai tutto interno alla psicologia del lavoratore, che da una parte resta coinvolto nel vecchio conflitto tra classi, mentre dall’altra è interessato a massimizzare i profitti dei propri investimenti in vista del fondo pensione […] non c’è più un nemico esterno facilmente individuabile”.

[10] L’intero passaggio recita così: “Negli anni Sessanta e Settanta il capitalismo ha dovuto affrontare il problema di come contenere e assorbire le energie che provenivano dal suo esterno. Adesso ha il problema opposto: avendo incorporato con fin troppo successo quanto gli era esterno, come potrebbe mai continuare a funzionare senza un «fuori» da colonizzare e di cui appropriarsi? In Europa e negli Stati Uniti, per la maggior parte delle persone sotto i vent’anni l’assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile” (id. p. 37).

[11] Edoardo Viveiros de Castro, Cannibal Metaphysics. For a Post-Structural Anthropology, Univocal, Minneapolis, 2014 [2009], p. 48: “La destinazione […] è anch’essa doppia, e include l’antropologia ideale come da un lato un esercizio permanente per la decolonizzazione del pensiero, e dall’altro come un altro modo oltre alla filosofia per la creazione di concetti” (traduzione di servizio; si rimanda comunque alla traduzione in italiano: Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, tr. it. M. Galzigna, Verona, Ombre Corte, 2020).

[12] Jamille Pinheiro Dias, “Creativity As Transformation in Amerindian Poetics”, Romance Notes, 57.3, “Margens Literárias No Brasil Contemporâneo” (2017), p. 409.

[13] Mark Fisher, op. cit., pp. 53-54

[14] Si veda il suo pregevole: N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano, 2008 [2007].

[15] La questione rimanda al primo degli “assiomi e prolegomeni” forniti da Gianluca Rizzo, a testimonianza dei vari rinvii e delle varie concatenazioni possibili all’interno e a partire da questo dialogo, che immaginiamo già plurale.

[16] Mark Fisher, op. cit., p. 65.

[17] Elio Pagliarani, “Per una definizione di avanguardia,” Nuova Corrente, 37 (1966), ora in Gruppo 63. Critica e Teoria, ed. Renato Barilli and Angelo Guglielmi, (Feltrinelli, 1976; Testo & Immagine, 2003, p. 314).

 

[Immagine: Clarissa Bonet, Urban Constellation].

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