di Maria Gaia Belli

 

[E’ appena uscito per effequ La dorsale. L’anno dell’oro (libro II), di Maria Gaia Belli. Proponiamo un estratto dal capitolo intitolato Il premio].

 

Il premio

 

I dottori portano una divisa diversa da quella dei soldati. Hanno pantaloni grigi e camicia bianca, ma la giacca, invece d’essere nera, è azzurra. Sono fermi nella sala d’aspetto dell’infermeria e da fuori posso vedere le strisce gialle cucite sulle loro giacche azzurre che brillano nella penombra. Sembrano gli occhi di lupi magri. Aspettano me.

L’infermeria è ancora chiusa, ma la porta si apre quando ci passo vicino la tessera. Sono arrivata presto, perché i controlli per la gara impiegano tutta la mattina. Per prima cosa misurano tutto il mio corpo, dai piedi alla testa, la larghezza dei fianchi e del petto, la circonferenza delle cosce e dei polsi. Vogliono sapere quanto dormo, quanto mangio, quanto spesso vado in bagno, quand’è stato l’ultimo mese che ho avuto il sangue. Mi attaccano macchine al petto e alla testa, mi bucano le braccia sulla linea delle vene. Vogliono che soffi dentro dei tubi, che corra per più di un’ora sopra un tappeto elettrico.

 

Il responsabile dell’infermeria cammina nei corridoi. Legge la carta stampata quando esce dalle macchine, e mi ordina ogni volta una nuova prova. Gli altri dottori mi controllano gli occhi, la bocca, i denti, mi chiedono di leggere lettere da un cartello, di salire nuda sulla bilancia, di saltare in equilibrio su un piede. Mi fanno stendere su un letto di carta, poi un infermiere arriva, mi lega mani e piedi alle sbarre, preme dei pulsanti. Il letto va a testa in giù, poi si volta di lato, poi gira tante volte.

«Dov’è il ragazzo?» dicono. «Fagli prendere un secchio, che fra poco questa vomita».

 

Il ragazzo con il secchio arriva. È quello che qualche mese fa mi ha cucito il taglio sulla gamba. Ha capelli, occhi e pelle chiari come il muro, e così fermo accanto alla porta sembra un pupazzo di gesso. Io non vomito, ma lui non se ne va. Resta a guardare il letto che gira, con il secchio pulito in mano. Quando si ferma, mi dice:

«Hai la faccia rossa».

Dopo la prova del fiato, la prova del vuoto e la prova del sangue, mi fanno la prova del ghiaccio.

Il ragazzo va via con il secchio, esce per strada e torna: l’ha riempito di neve. Devo tenerci una mano dentro e aspettare. Mentre aspetto, i dottori parlano tra loro, rispondono al telefono, scrivono cose.

«Vammi a prendere una risma di carta nuova» dicono al ragazzo.

«Hai già finito là? Fammi un caffè. Non metterci di nuovo tutto quello zucchero, hai capito? Lo voglio nero. Capisci “nero”?»

«Ancora con le mani in mano? Il principe! Piuttosto dai una pulita a quel lavandino».

«Ragazzo! Dov’è il ragazzo? C’è una bambina con il sangue dal naso all’ingresso. Mettile un tampone e rimandala a scuola, che stamani non abbiamo tempo per le sciocchezze».

Quando smettono di chiamarlo, entra nella stanza dove sto con la mano nel ghiaccio. Vede che qui non c’è nessuno a rimproverarlo, allora si siede.

«Ciao Kami» dice.

Non rispondo, anche se sulla sua giacca azzurra c’è un cartellino bianco, e in lettere grandi è scritto il suo nome.

«Non ti fa ancora male?» indica il secchio.

Faccio segno di no, e lui si passa una mano sulla testa.

«Non è uno buono» sbaglia le parole.

 

Si guarda il polso: sotto la camicia porta un orologio, anche se l’Accademia vieta di usare oggetti propri durante gli orari di lavoro. Si alza, guarda in corridoio, fa avanti e indietro due volte, poi viene fino al tavolo e dice:

«Basta, basta. Togli. È passato il tempo».

«Devo aspettare il responsabile» rispondo.

«Il responsabile!» si mette a parlare nordico. «È andato in pausa. Figurati. Quello è capacissimo d’essersi scordato».

«No» ripeto in comune.

Allora prende il mio polso e lo solleva dal secchio. Faccio per scansarlo, ma la mia mano non si muove. È chiazzata, le dita sono gonfie. Il responsabile entra dalla porta, guarda il secchio, la mia mano rossa nella mano pallida del ragazzo.

«Che hai combinato?» lo sgrida. «T’avevo detto… ma tanto. Capisci mai qualcosa? Tu non capisci mezza frase di quello che ti dico, vero?»

«Ho capito, ma…» inizia lui.

«Fuori. Levati di torno. Ti fa male?» chiede a me il responsabile.

«No» dico io.

Viene a controllarmi la mano, prende le dita e le pizzica, mi chiede di muoverla. Ci riesco appena.

«Non sente» insiste il ragazzo. «Non può fare la gara se…»

«Mah» lo interrompe. «Ho visto di peggio, dai recuperi sulla dorsale. T’hanno presa i contrabbandieri quand’eri bambina, vero?»

 

Faccio segno di sì.

«Usano certi sonniferi che è già tanto non le abbiano fritto il cervello. Qualche danno al sistema nervoso lo lasciano sempre. Questo è ancora normale. T’accorgevi subito quando ti tagliavi, da bambina? Il fuoco lo senti? Se hai vissuto finora sulla dorsale senza lasciarci un dito da qualche parte, vuol dire che è a posto. Sei a posto» mi ordina. «Vai pure, mando io il certificato medico alla segreteria, ci pensano loro a inviarlo per l’iscrizione. Tu devi pensare solo ad allenarti. Mi raccomando, qui abbiamo perso una mattina intera per te. Vinci, eh».

Sorride e mi dà dei colpetti sulla mano. Il ragazzo ha messo entrambe le mani nelle tasche della giacca e guarda fisso il secchio. Io mi sento bene. Lui forse deve vomitare.

Il distintivo da caposquadra è più grande di quello che avevo prima. I colori sono più scuri, e i dettagli dentro lo stemma si vedono meglio. Prima di attaccarlo alla giacca, conto le punte dell’ala di drago, le righe nere sul quadrato giallo. Sono sempre tre.

Quando Leila mi vede con il suo distintivo piega la testa.

«L’hai messo storto» dice. «La spilla è vecchia, devi prendere un pezzo di stoffa largo così, un po’ in diagonale, sennò pende da un lato».

Mi fa vedere come prendere il punto sulla sua giacca, con due dita.

«Mettere una spilla nuova?» chiedo.

Lei mi sorride e basta, dice:

«Sai quanti l’hanno messo così, prima di te?»

 

Capisco che guarda le mie spalle mentre leggo la lavagna dei turni di vigilanza. Provo a passare il dito sopra a un nome, ma non si cancella. L’inchiostro è secco. Vado a prendere lo straccio della cucina, lo bagno e lo uso per pulirla. Quando è asciutta, non è pulita. Si vedono ancora le tracce vecchie, ma inizio a scriverci sopra comunque.

«Kami» mi chiama Leila.

Non mi giro.

«Non so se…» insiste. «Luk la mattina ha l’allenamento, e subito dopo due ore di esercitazioni. Magi invece inizia più tardi, perché fa il corso di pedagogia. Se scambi…»

Lascio parlare. I nomi sono pochi, ma scrivere mi stanca. Quando ho finito, il lato della mia mano è diventato nero come lo sporco della lavagna. Magi ha sentito parlare ed è scesa dalle scale. Guarda i turni e si mette a dire:

«Oh poi, sei matta? Io non me le faccio tutte queste notti attaccate. Ma questi che sono, giri doppi? Mica perché tu sei il soldato dell’anno noi possiamo spaccarci la schiena, sai? Io ho bisogno di dormire almeno due notti di fila. Guarda che io non ti ci vado, eh, puoi chiamarmi l’Ufficiale addosso quanto ti pare, pure il Preside, ma tanto è illegittimo un turno come quello, anzi guarda che c’è il regolamento… Ma tu non dici niente?» chiama in mezzo Leila.

 

«No» risponde lei senza alzarsi dal divano.

«Ma dai! Ma siamo impazziti, qua dentro?» continua a protestare, e va a bussare alle camere dei ragazzi. Vengono fuori tutti e due a vedere i miei turni. Luk scoppia a ridere.

«Kam, guarda che noi siamo mica come te» mi dice. «A noi qua ci piace dormire, ogni tanto».

Solo l’altro ragazzo legge tutta la tabella, mi guarda una volta e dice:

«Va bene».

«Ma come va bene!» inizia a litigare Magi, e urla tanto che io salgo le scale, chiudo la porta della mia camera, apro la finestra, esco in terrazzo e continuo a sentirla.

«… il comando alla pazza della foresta? Certo! Ma allora facciamoci allevare i draghi dai contrabbandieri! Ma che storia è questa? Ci dobbiamo andare di mezzo noi?»

«… dopo ci parlo io, lascia fare…» dice Luk.

«… guarda che sono fatti bene, invece. È che voi non avete voglia di rispettare gli orari giusti e fare tutto il giro come va fatto, ma se fate il calcolo delle ore, così viene giusto, pure con i riposi. Sei tu che cerchi sempre il modo di fare come ti pare, e qui non c’è. La caposquadra ha deciso che ora si fa così e ora si fa…»

«È Leila, la caposquadra! Ma vi siete bevuti l’acqua delle stalle? Sono anni che facciamo le cose in altro modo e ora arriva questa ragazzina…»

«Io faccio come dice la caposquadra. Tu fai come ti pare, vedrai che richiamo ti becchi. Buonanotte».

«… Luk! Stai zitto? Vacci a parlare. Subito. Io non…»

«No, che subito? Io mi devo ancora lavare, voglio chiamare un attimo mia mamma. Mica posso star sempre a correre dietro a lei. Ma stammi a sentire, noi adesso facciamo due o tre notti come vuole lei, poi vedrai che piano piano capisce come gira e ci si ragiona».

 

Una porta sbatte. Due. Piedi per le scale. Tre porte. Rumore dalla televisione. Sto seduta al buio, sulla terrazza, controllo l’ora guardando come si muove il cielo. Alla fine Luk e Magi escono dal dormitorio, li vedo accendere le torce, cominciare il giro di vigilanza dai giardini. Sono in ritardo di mezz’ora. Dormo sul letto, ma sento comunque la porta del dormitorio quando rientrano. Sono in anticipo di più di un’ora. Appena c’è silenzio mi alzo, scendo le scale.

La tabella dei turni è stata ripulita per bene, ora è bianca come un foglio. Una lettera per volta riscrivo da capo i miei ordini.

Alle lezioni non rispondo alle domande, così l’insegnante mi segna ore di lavoro. Se non rispondo alle domande sulla storia, mi fanno lavare i bagni. Se non rispondo alle domande sui numeri, mi fanno mettere a posto i libri della biblioteca. Se alle esercitazioni lascio i fogli bianchi, devo passare la serata a pulire le macchine della palestra. Mentre faccio le ore di lavoro, l’Ufficiale viene a cercarmi di persona.

«Perché a quest’ora non sei ad allenarti per la gara?» chiede.

Poi va dall’insegnante e gli dice:

«Prova a segnarle un’altra ora di lavoro e faccio correre te, al suo posto».

L’insegnante non è d’accordo. È un uomo con gli occhiali come il Preside.

«Questa è comunque una scuola. Dovreste prendere quelli già diplomati, per le competizioni. Gli studenti devono studiare».

 

Protesta molto, ma poi non mi segna più le ore, anche se a lezione sto zitta tutto il tempo. Sto zitta e ascolto: ho imparato i nomi di tutte le città del sud, su cui passerò in volo durante la gara, dei laghi e dei fiumi, la forma dei loro alberi e la lunghezza delle loro strade.

Tra l’Accademia e Città Bianca ci sono milletrecentosessanta chilometri. Le macchine impiegano una giornata a fare la strada fino al mare e una giornata a tornare. I treni veloci che partono dalla piana della Regione arrivano sulla Costa in quattordici ore, se fanno poche fermate, e tornano indietro il giorno dopo. Un uomo in bicicletta, qualche anno fa, è partito dai cancelli dell’Accademia ed è arrivato fino al mare, e lì è morto per un colpo di calore. Ci ha messo sei giorni. Per vincere il premio, io devo andare e tornare in meno di otto ore.

La donna dei piatti controlla la mia tessera. Dentro, i dottori hanno scritto cosa devo mangiare e quanto. Mi danno carne magra, pane scuro, noci, uova crude, formaggio. Anche la tessera di Luk è così, ma a lui, adesso che è freddo, danno il doppio del mio cibo. Io comunque mangio metà di quel che danno a me. Lui inizia a prendere dal piatto mentre ancora siamo in fila. Ha già finito la sua fetta di pane, ora pizzica un boccone di mollica dal mio a ogni passo. Prendo la crosta che ha lasciato, la butto sul suo vassoio. Faccio lo stesso con le noci e il formaggio.

 

«Guarda che devi mangiare» dice. «Sei un chiodo».

«Se mangio poi peso sul drago».

Nella fila per il cibo c’è anche il dottore. Sta guardando il nostro scambio di piatti. Ha la divisa degli studenti, ma la camicia gli va larga. A lui hanno dato minestra e patate.

«Non sei un dottore?» chiedo.

«Non ancora. Sto studiando» mi risponde.

Per parlare con me ha rovesciato della minestra sul vassoio e deve asciugare con i tovaglioli di carta.

«Non chiami il maggiordomo?» ride il cadetto che controlla la porta.

Lui fa finta di non capire, o forse non ha capito.

«Come sta la mano?» mi chiede. La uso per fargli segno di andarsene.

«Ti ho vista alle qualificazioni» continua a parlare. «Sei brava. Ma tu non devi volare. Devi stare ferma. Un giorno ti fai male molto».

«Non sono una donna del Nord» rispondo, e così lo faccio star zitto fino agli scaffali con i vetri. Qui c’è la frutta, e lui apre uno sportello, prende una ciotola con dentro una mela. Poco più avanti indica un cestino a un inserviente, e quello, senza chiedere la tessera, gli passa un pezzo di cioccolata. Si ferma di nuovo, ricomincia con la sua storia.

 

«Non volevo dire…» parla senza guardarmi. «Niente. Penso non dovrebbero farti il certificato per la gara. Ecco».

«Che importa che pensi? Non sei davvero un dottore» gli rispondo, e visto quanto è lento, passo più avanti. Al tavolo, Luk aspetta con il boccone tra i denti finché non sto seduta.

«Perché gli parlavi?» vuole sapere, che fa sempre caso se rispondo a qualcuno. Visto che chiede troppo, allora io non rispondo a lui.

«Lascia perdere quel matto. Lo sai da dove viene, vero?» pensa di spiegarmi.

«È il mio dottore per la gara» invento.

«E fattelo cambiare, allora» decide. «Che quelli del Nord… dice che ti visita e poi ti mette le mani addosso. Mi fido mica, di quello».

«Io sì» rispondo. Mangio la mia parte e gliene lascio metà. Ma lui oggi non la finisce, e vedo bene che con questo scherzo stavolta l’ho fatto arrabbiare.

 

L’Ufficiale Vergher viene a prendermi che è ancora buio. Mi fa sedere nel posto davanti del fuoristrada, mentre lui guida per le curve fino alla valle. La strada è liscia e illuminata da fari alti, guardo fuori dai vetri ma non c’è niente da vedere. Intorno è buio e piano, non c’è quasi mai erba a terra. Ogni tanto vedo capanni lunghi, con macchine ferme e gente che parla. Fa giorno tardi e il sole sembra più lontano che sulla dorsale. Le strade diventano grandi, macchine basse e veloci ci passano intorno. Dappertutto ci sono cartelli di ferro con immagini colorate, case alte piene di luci. L’aria è calda, odora di fumo e polvere.

«È la prima volta che scendi in città?» mi chiede. «Adesso prendiamo una strada esterna, c’è troppo traffico. Ma tu dovrai passarci in mezzo e volare sopra il centro. Vedi quei palazzi? Non devi abbassarti di quota, o dovrai atterrare per non andare a sbattere. In tanti finiscono per perdere tempo così, e non arrivano neanche fino alla Costa».

Mi spiega le cose che vediamo: i canali d’acqua più larghi che posso vedere anche dall’alto, i campi quadrati di colore giallo, la traccia dove corrono i treni, piccole montagne di sassi rossi, appuntiti come denti.

«Devi tenere sempre la città alle spalle. Ma a un certo punto non la vedrai più, e a meno che non ci sia molto vento, non vedrai neanche la dorsale. Guarda sempre in basso e controlla il colore del terreno: se vedi troppa vegetazione stai tornando a nord, o ti stai allargando troppo a est. Segui la terra secca, che vai giusta. Continui per il deserto finché non vedi una linea bianca in fondo, allora tieni un po’ a ovest e sei a due ore massimo dalla Costa».

Ci fermiamo dove la terra è rossa, quando il sole è alto. Fuori dalla macchina, l’aria scotta e gli occhi mi bruciano per il vento. Sulla strada c’è solo una casetta bassa, un uomo vestito di verde riempie il serbatoio della macchina. Dentro la casa fa caldo come fuori, e hanno appeso pale che girano ai soffitti: fanno rumore e non servono a niente. L’Ufficiale ordina caffè nero, pane e carne piccante anche per me.

 

«Come ci sei arrivata sulla dorsale?» mi chiede mentre mangio.

«Non me lo ricordo» invento.

«E vuoi farmi credere che te la sei cavata da sola? Dove vivevi?» vuole sapere.

«Con mio padre» dico.

«Il percorso che ti ho fatto vedere fin qui, invece, te lo ricordi bene?»

«Sì».

L’Ufficiale paga il cibo e il carburante, poi ripartiamo. Tiene il finestrino aperto e una sigaretta accesa, ma la fuma solo ogni tanto. La usa per indicarmi i posti che dovrò ricordare e seguire, il giorno della gara.

Andiamo avanti su questa strada diritta, sempre uguale. Non ci sono animali che mangiano erba, nessun cervo o cinghiale corre mai davanti alla strada. Ho sete e sto in silenzio. L’Ufficiale invece mi parla, vuole sapere cose di me. Chiede:

«Come si chiama tuo padre? È vivo?»

«Non so» ripeto. Lui scuote la testa e dice:

«Se non sai come si chiama, non è tuo padre. Non prendermi in giro».

«Era un soldato» gli rispondo.

«Possibile. Ce ne sono, che si stufano di lavorare e si nascondono sulla dorsale. Se lo prendono, avrà una bella cifra da pagare» ride.

«Non lo prendono» sono certa.

«Dici? Non pensavi neanche che prendessimo te».

Non rispondo. L’Ufficiale è alto, ha la pelle bianca, i capelli neri: non somiglia in niente a Luk, che in faccia ha il colore della terra al sole. Ma non somiglia neanche a me. Nello specchio sopra al volante, i miei occhi sono lunghi e chiari. I suoi, piccoli e scuri.

«Tu vieni dal Nord» gli dico. Ride, quando capisco questa cosa.

«Sì, è vero. Ho un sacco di soldi, e a casa dieci mogli».

«Non è vero» dico. «Non sei come quel dottore. Loro sono tutti uguali. Non sei un padrone».

Lui guarda i miei occhi nello specchio.

«Sono un Ufficiale. Devi darmi del lei» risponde, e basta. Per il resto della strada, almeno, smette di farmi domande. Quando ci fermiamo la seconda volta il cielo è diventato arancione. Abbiamo fatto curve in salita fino alla cima di una collina, con case e alberi bassi, pieni di frutta gialla. Dalla cima possiamo vedere, anche se lontana, la linea bianca della Costa.

«Non c’è bisogno che ora arriviamo fin là. Da qui il percorso lo vedi da te. Sempre dritta, arrivi fino al mare, giri e torni indietro. Per il regolamento la gara è valida solo se quando giri tutto il corpo del drago si trova sull’acqua. Chiaro?» dice.

«Perché è difficile?» chiedo.

«Il vento sarà forte, ti spingerà indietro. Il drago farà di tutto per tornarci».

Restiamo ancora a guardare dalla cima della collina finché il sole non cala, smette di darci fastidio agli occhi. In fondo al percorso il cielo e la terra hanno lo stesso colore. Se mi giro e guardo a nord, l’aria è vuota. Da così lontano sembra impossibile che esista la dorsale.

 

Il ragazzo dottore mi aspetta nei corridoi, dove passo per andare alle lezioni. È fermo vicino alla colonna dell’ascensore e sa dove guardare quando arrivo. Gli altri studenti non gli parlano, girano largo come se fosse anche lui un muro.

«La gara è la settimana prossima. Ormai hanno mandato il certificato» lo fermo subito.

Lui sorride comunque. Ha la faccia che faceva il cane di mio padre quando non gli dava niente per cena.

«Buona fortuna, allora. Io non capisco di gare, ma dicono che vinci di sicuro» risponde.

Cerca nella borsa dei libri e tira fuori una scatola. Me la dà in mano.

«Questi sono per te. Spero ti vanno bene, ho preso in città. Forse un po’ grandi, le tue mani sono piccole. Ma sono pieni. Spessi? Non ricordo come si dice. Pensavo che così non prendi tagli, e cose del genere».

«Eh?» sento dire Luk, sopra la confusione che fanno gli studenti.

«Non si capisce niente quando parli» viene a dirgli. Ha la stessa voce di quando tocco le sue medaglie o uso le sue canottiere. «Cosa hai preso? Per chi? Chi taglia che?»

Il ragazzo dottore deve alzare la testa per guardarlo in faccia. Ma non si sposta.

«Che vuoi ancora?» continua Luk.

«Ho fatto un regalo» risponde lui alla domanda.

«Ma lei non lo vuole» decide, e fa per prendere la scatola dalla mia mano, ma io sono più veloce e la metto subito nella tasca interna della giacca.

«Kam» se la prende con me. «Sei scema? Non hai capito cosa vuole, questo? Andiamo».

«Non…» ricomincia il ragazzo, poi si stanca. «È solo un regalo!» si mette a dire, in nordico. «Non voglio niente, sono andato in città per il giorno di licenza, ho visto questi guanti, erano belli, lei ne ha bisogno e li ho comprati. Ma perché pensate tutti che abbia chissà quali idee in testa? Sono per la gara. Non voglio niente in cambio. Non si usa, qui, fare i regali alle persone?»

«Sì» gli rispondo io in nordico.

 

Lui resta in silenzio. Guarda la mia bocca, perché ho parlato la sua lingua. Luk non ha capito nulla. Mi tocca la spalla e spinge, per farmi camminare. Continua a spingermi per tutto il corridoio, non posso girarmi né fermarmi. Allora vedo la porta dei bagni, entro lì e chiudo a chiave. I suoi piedi restano ancora un po’ davanti alla porta, ma poi arrivano altre scarpe, rumori di stivali. Alla fine sparisce. Fra poco vado alla lezione, e starò seduta per tutte le ore in cui l’insegnante parla. Dopo andrò in palestra ad allenare le gambe e le braccia, poi alle stalle per volare con il drago. Quando tornerò in dormitorio sarà notte, e di certo troverò Luk ad aspettarmi in camera. Solo adesso ho un minuto mio. Lo uso per scartare il regalo.

Torno in dormitorio quando è già buio. Nel bagno mi tolgo la maschera per il vento, la tuta stretta per il volo, gli stivali, le calze, la maglia leggera che mi tiene calda la schiena. Mi lavo con l’acqua fredda e mi guardo gambe e braccia nello specchio: dietro le cosce e sotto le ginocchia la pelle sta diventando nera. Intorno ai gomiti e ai polsi, invece, ho tante strisce rosse quante volte ho tirato forte le redini. La mano sinistra, quella con cui controllo la direzione, ha le unghie viola. La corrente in faccia mi ha lasciato cerchi bianchi intorno agli occhi e macchie rosse sulle guance.

Luk entra dalla finestra quando sono seduta sul letto. Ho acceso la luce e guardo le mappe colorate nei libri dell’Accademia.

«A quest’ora studi?» mi dice.

«Imparo il percorso».

«Ancora? L’hai controllato mille volte, sei anche andata a vedere con la macchina, ormai lo sai a memoria. Basta».

Basta. Chiudo il libro con le mappe. Usciamo sulla terrazza a fumare le sue sigarette. Nei giardini sta crescendo l’erba alta, la neve si è sciolta tutta settimane fa. Luk mi racconta di come rubava la frutta da bambino, mettendola nei pantaloni. Me l’aveva già detto, ma mi fa ridere di nuovo.

«Che vuoi comprare coi soldi del premio?» mi chiede.

 

Non gli rispondo, e lui smette di ridere. Lo sa cosa voglio comprare, perciò è arrabbiato con me. Ma non se ne va. Si addormenta al mio fianco, mi tiene un braccio sotto la testa e una gamba sopra la gamba. Nella notte mi sveglio con la sensazione che la mia mano sia morta. Provo a muovere le dita, ma non riesco chiuderle. Le tocco con l’altra mano e sono calde, eppure, hanno unghie corte e ossa grandi. Le sento muoversi, ma non sono le mie. Non capisco dove finisce il suo corpo e inizia il mio.

La notte prima della gara, mentre io penso Luk dorme. Mi muovo piano per non svegliarlo. Trovo una maglia per terra, i pantaloni, le calze, le scarpe. Anche io so uscire dalla finestra, e quando salto nei giardini i miei piedi non fanno rumore. Faccio tutta la strada con gli occhi semichiusi nel buio, perché la so a memoria. Passo la tessera sul primo cancello, poi sul secondo.

L’aria della stalla è umida. Il suono fisso delle ventole per l’aria fa un rumore che sembra enorme, di notte. Prendo dal sacco accanto alla porta una manciata di mangime, e schiocco la lingua davanti alle sbarre.

Il drago è sveglio. Sento il suo fiato caldo, ma nel buio non lo vedo. L’hanno preso sulle montagne a ovest, dove i draghi neri, da lontano, sembrano solo piccoli corvi. Non dorme, perché non mangia da una settimana. Tira le catene e apre la bocca, quando sente l’odore che viene dalla mia mano. La sua coda nera arriva fino al fondo della caverna, e quando la muove e la sbatte il pavimento trema come acqua. Non può aprire le ali, qui dentro, ma quando è in cielo coprono la larghezza di una strada. Le ragazze delle stalle gli fanno trecce tra le corna e sotto il mento, ci legano in mezzo nastri dei colori dell’Accademia. La pelliccia del collo è così spessa che quando voliamo alto, nelle correnti fredde, posso metterci dentro le braccia fin sopra i gomiti.

 

Mi siedo contro il cancello, sulla paglia. Gli lancio uno per volta i pezzetti di carne secca, finché non si avvicina. Infilo il braccio tra le sbarre per accarezzarlo, la mia mano chiara sparisce dentro il nero fitto della pelliccia.

Quando finisce la carne che gli ho dato, il drago si alza, sbuffa e tira le catene, scuote la testa, gratta la terra e i muri che lo chiudono tutto intorno. L’unica cosa che può fare dentro questa gabbia è stendersi, allora si stende, ma non dorme. Aspetta solo di correre.

Mi sveglio più tardi del solito. Ho dormito bene: la paglia era morbida e la stalla calda. Le stalliere non sono contente di trovarmi stesa davanti al cancello del drago. Una di loro inciampa per non calpestarmi, l’altra si spaventa, tira uno strillo e lascia cadere le corde che trasportava. Quando arriva l’Ufficiale, sono seduta insieme a loro per sbrogliarle.

«Ma siamo impazziti?» si mette a urlare, e dopo continua a urlare davanti a chiunque. Urla agli stallieri perché c’è una spazzola in giro, e una scopa sporca. Urla in faccia al capostalla, perché il drago è sellato, pettinato e lucidato, ma non è ancora stato spostato all’arena di partenza. Deve dare lui il permesso di spostarlo, e lo dà urlando. Urla ai cadetti, perché il fuoristrada con cui devo andare io, all’arena di partenza, non è ancora arrivato. Quando vede i miei compagni di squadra che salutano dal cancello, urla perché mi hanno lasciata dormire nella stalla, e perché ora davvero non vuole ragazzini tra i piedi.

 

Mentre urlava, io mi sono preparata. Ho messo la tuta colorata, che mi stringe le gambe e la pancia come una pelle di serpente. La stalliera che ha fatto le trecce al collo del drago ne fa una uguale anche sulla mia testa. L’altra misura la mia gamba dalla caviglia al ginocchio per essere sicura, un’ultima volta, che le staffe siano della lunghezza giusta, poi usa sui miei stivali lo stesso grasso che ha usato per le corna del drago. Ho pulito bene la maschera per gli occhi e ci ho sputato sopra, in modo che non si appanni con il calore della mia faccia. Ho legato i guanti nuovi alla cintura, sono uscita dalla stalla e sono salita sul fuoristrada. Alla guida c’è un cadetto, e visto che io ho preso il posto davanti, Vergher deve sedersi dietro.

«Parti» urla, poi tace.

I soldati e gli studenti si sono raccolti lungo la strada, a decine davanti ai cancelli e nel piazzale della stazione. Sventolano bandiere e nastri di quattro colori, mentre passiamo. Anche loro urlano: il mio nome o quello del drago, poi consigli, incoraggiamenti, scongiuri. Quando usciamo dall’Accademia, per un pezzo di strada c’è silenzio. Poi l’Ufficiale dice a me:

«Hai ringraziato il capostalla, prima di uscire?»

Faccio segno di no, e lui scuote la testa, si passa le mani tra i capelli come un uomo che ha perso il portafogli.

«Porta male, non ringraziare il capostalla!» ricomincia. «E portano male anche i guanti nuovi, non potevi farteli prestare? Dovevi chiederli al pilota dell’anno scorso! Ma sai, cosa? È colpa mia, che faccio fare la Navale a una ragazzina cresciuta nei boschi, e m’aspetto pure che vada a ringraziare il capostalla. Adesso ascoltami, alle qualificazioni te la sei cavata bene, ora vedi di non sprecare il vantaggio che abbiamo dal punto di decollo, perché poi…»

«Basta» decido, guardando la strada.

Il cadetto fa una faccia strana. Diventa prima bianco, poi rosso, si morde il labbro con i denti di sopra. L’Ufficiale mi guarda nello specchietto.

«Se non vinci…» dice solo, stavolta a voce bassa.

Il resto della strada nessuno parla. Il cadetto continua a mordersi, ogni volta che la sua bocca si muove da sola. Quando parcheggia, appena l’Ufficiale scende, tocca la mia spalla e dice:

«Scommetto un mese di stipendio che ci metti meno di sei ore».

«Grazie» dico solo a lui.

 

Il drago è pronto sulla spianata dove inizia la valle, nell’arena di decollo numero quattro. Devo firmare un documento, e in cambio del mio nome mi danno una casacca con lo stesso numero. La donna che mi porge la penna guarda i colori della mia tuta e dice:

«Vento in coda, Accademia».

Posso vedere i numeri uno, due e tre nei recinti alla destra del mio, ma non riesco a contare fin dove arrivano quelli sulla sinistra. Squadre di stallieri corrono intorno ai draghi, provano la tensione del cordame. Una ragazza piange perché ha perso la maschera, e un’altra arriva di corsa, gliene porta una nuova. Un uomo magro sta in posa davanti al suo drago, con il pollice alzato, mentre qualcuno gli scatta una foto.

Dietro le arene, una rete alta almeno tre metri contiene non draghi, ma persone. Sono lontane. Quando monto in sella e guardo indietro, sembrano un lungo lombrico rosa che scava sotto la linea delle montagne. Il rumore che fanno urlando tutte insieme è forte come quello di un terremoto. Voci senza corpo parlano nell’aria, in lingue diverse, chiamano i nomi dei piloti, dei draghi, delle bandiere in gara.

C’è un boato. Guardo in alto, mi aspetto di vedere il temporale. Ma invece di cadere acqua dal cielo, si alzano i draghi da terra. Dei ragazzi ai lati delle arene indossano giubbotti colorati e scuotono in aria coppie di bandierine rosse. L’Ufficiale muove le braccia e corre intorno al recinto. La sua voce, a forza di sprecarla, ora è diventata debole. Non capisco quel che dice, né i suoni che sento, non capisco niente di quello che vedo. Ma lo capisce il drago: senza che io lo tocchi dà uno strattone avanti, carica tutto il peso sulle zampe posteriori e salta in aria. Devo aggrapparmi con tutta la forza che ho nelle gambe, nella pancia e nella schiena, per non cadere di sella. L’Accademia mi ha insegnato molte cose sul mondo, in questi mesi. Ma nessuno mi aveva detto che il rumore del tuono è il segnale della partenza.

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