di Igor De Marchi
[Sulle sponde delle forme più severe delle malattie mentali, veri e propri abissi che sfiorerò soltanto, c’è il vasto e devastato territorio delle depressioni, dei disagi mentali in genere, fino al sofferente non riconoscersi in un sistema di convenzioni e propulsioni psichiche dettate dalla società dello spettacolo e dei consumi. Mi rendo conto che il termine “depressione” è scivoloso: si usa comunemente per indicare tanto la depressione endogena quanto la forma esogena, e si usa anche, forse a sproposito e sicuramente in modo iperbolico, per indicare un semplice abbassamento d’umore o un’acuta tristezza. Lo “star male” di cui parlo si può ricondurre al continente delle depressioni reattive, ma non riesco a circoscrivere di netto il campo: a ridosso di ciò che succede dentro di noi possiamo muoverci sempre e solo a tentoni, perciò serve tatto. Prima che intellettuale è emotiva, l’impreparazione con cui ci si accosta alla questione dei disagi mentali. Ne parlerò da uomo e in parte da poeta.]
Si libra in volo la farfalletta
attratta dalla sua morte. [1]
Antonio Turolo
Ordine del giorno
“Le Giornate Mondiali” sembrano i Black Friday della coscienza collettiva[2]. Per i modi in cui lo fanno, ciò che patrocinano non ci impegna molto, soprattutto in termini di tempo; una giornata, appunto, ma anche meno: il tempo di un servizio al Tg o un articolo di giornale. Una riflessione su una ricorrenza, un tema o una malattia, scontata a pochi minuti. Ce n’è per tutti: s’incomincia il primo gennaio con la Giornata Mondiale della pace, c’è poi la GM del dialogo tra religioni e omosessualità, la GM della Nutella e il giorno dopo la GM contro l’infibulazione e le mutilazioni genitali femminili; le GM del backup, dell’autismo, della lotta contadina, dei donatori di sangue, della poesia, degli Ufo, delle emoji, contro i test nucleari, del rinoceronte, dello squash, della consapevolezza sugli tsunami, contro la polmonite, per finire in bellezza con le ultime dell’anno: la GM dello snowboard, e quella dell’orgasmo. Il 12 ottobre si celebra l’anniversario delle Giornate Mondiali, in una mise en abyme da brividi. E qui finisce l’aspetto umoristico.
Qualche giorno prima, in abbinata inquietante con la GM contro la pena di morte, si celebra la GM della salute mentale. La malattia mentale è di fatto una condanna, inflitta da un tribunale invisibile e per questo inappellabile. Che abbia un nesso infernale con la morte poi, in questo caso lo spegnimento o l’esasperazione straziante della vita psichica di un individuo, desta più di un sospetto. Ebbene, quel giorno i media ne parlano a profusione riportando statistiche, cordoglio e testimonianze. E cosa ci dicono? Tanto per cominciare che la sofferenza psichica è in aumento. Depressione, ansia, schizofrenia, disturbi bipolari colpiscono sempre più persone. Dicono che c’è un aumento dei suicidi e del consumo di psicofarmaci, preoccupante specie tra i giovani; dell’autolesionismo. E poi passano a elencare giudiziosamente le cause: pandemia, post covid, guerra, crisi climatica, crisi economica; tanto che ormai sono diventate, prese insieme, una formula passe-partout. Quando si punta il dito c’è poco da fare: tutti si guarda nella stessa direzione. Ma quando è colpa di tutto alla fine non è colpa di nessuno. Sono Cause che assomigliano agli Iperoggetti di Timothy Morton. Infine ci sono i consigli, per chiudere in modo costruttivo e ottimista, per fare qualcosa perché sennò pare di aver parlato a vanvera: si stilano decaloghi, si organizzano Open Day nelle strutture dedicate, si decanta il beneficio dell’attività fisica, si dice che le persone vanno aiutate a gestire lo stress, “il logorio della vita moderna”, e a ottimizzare le risorse (vedi mai che da qualche parte nella fibra nervosa non si trovi un “tesoretto” come capita al Governo quando deve fronteggiare un imprevisto economico) per tener duro[3]. Tener duro e andare avanti. Sdrammatizzare, alleggerire. Perché dobbiamo essere cittadini efficienti, sul lavoro, in famiglia e anche nel tempo libero. Per fortuna, al di là della retorica, ci sono le associazioni, spesso di volontari, gli specialisti e persone che aiutano davvero.
Le Giornate Mondiali insomma funzionano come funziona quasi tutto: ogni giorno attirano l’attenzione su qualcosa, divergendola il giorno dopo su qualcos’altro. Un discount zeppo di offerte per coscienze da contrire blandamente, dove invitare le persone a soffermarsi per 24h e poi via. Una sovrastimolazione, una sensibilizzazione permanente che diventa giocoforza una desensibilizzazione.
Fight for your right
Negli ultimi anni sono divenute sempre più importanti e diffuse, imponendosi all’attenzione pubblica di massa, le battaglie per il riconoscimento dei diritti di più o meno estese minoranze (sono minoranze?). Oggi se qualcuno si sente discriminato può alzare la mano e la voce, provare a far valere le proprie ragioni denunciando un sopruso o semplicemente parlando “a favore di”, rivendicando il diritto di esistere e di essere felice. Alle volte non sono battaglie facili.
Ma che ne è del diritto di star male? La minoranza delle persone che soffre di malattie mentali, che poi non è nemmeno una minoranza (a quanto pare metà della popolazione adulta ne è afflitta almeno in un determinato momento della propria vita), non pensa affatto a rivendicarlo. Non credo abbia la voglia di dirlo a gran voce. A meno che non ne sia uscito. E allora, giù di libri, interviste, podcast e festival letterari, per condividere la propria esperienza e dare coraggio a chi ancora lotta. Ma finché si sta male difficilmente si alzerà la mano per reclamare (produrre una réclame) il diritto di soffrire, quando non si è più sicuri nemmeno di esistere. Se si trovasse la forza di alzare la mano sarebbe per chiedere aiuto, e sarebbe già tanto. Ciò che si vorrebbe, ma probabilmente non si è in grado di formalizzare, non è evidentemente rivendicare la depressione come consapevole ed emancipato stile di vita, sponsorizzarlo affinché gli altri lo seguano, che lo riconoscano come il giusto modo di vivere e di consorziarsi tra individui, ma che almeno non venga censurato o perseguitato.
Loro ce l’hanno fatta
In giro è pieno di storie. Reduci, sopravvissuti, emancipati da un vissuto difficile, un passato in cui violenza, malattia, diritti fondamentali negati ha segnato per sempre. Storie di chi ne è fuori, di chi se l’è messa alle spalle. Chi ce la fa può dire grazie a sé stesso e a chi lo ha aiutato. Anzi: certe volte non serve proprio dire nulla e basta un abbraccio; carne contro carne, fino a sentirsi le ossa, il cuore che palpita nel buio del petto. Guardarsi negli occhi, e ci si è capiti.
Eppure oggi solo alcuni possono fregiarsi delle ferite come una medaglia al valore riconosciuta con tutti gli onori, dirlo in pubblico e dirlo forte davanti alle telecamere. Queste figure, che parlano a nome di tutti, sono gli “influencer del bene”. C’è stato un tempo in cui si adoperavano esclusivamente per cause ambientali e etiche; ora, data la piega che ha preso la comunicazione, usano il sentimentalismo sfrenato per esorcizzare il male del mondo e si occupano di malattie, diritti e violenze. Sui Media e sui social è pieno di influenzatori, che spargono i batteri dell’influenza voluptofaga, del morbo della bulimia sentimentale su questioni che meriterebbero più pacatezza. «Non dicono più cosa devi pensare ma cosa devi sentire»[4]. Alla moralità si è sostituito il sentimento, che è diventato ipertrofico, dirimente e tanto invasato di sé da assurgere a nuovo moralismo. Storie “personali”, passate attraverso il montaggio e la correzione immagine di Premiere Pro[5], per prendere gli applausi, la compassione e l’ammirazione. Il don’t give up! andato a buon fine, buon per loro. Chi si arrende è un loser; costui non merita né attenzione né compassione perché non è un esempio edificante. Non ci si chiede come mai sia successo, perché lo abbia fatto. C’è solo il tempo per mostrare i muscoli della volontà, dell’ottimismo a ogni costo. Gli influencer del bene sono soprattutto i personal trainer dell’ottimismo. Con loro svilupperemo i nostri muscoli; muscoli favolosi con cui difenderci dai perdenti, dai nichilisti, da chi non ama la vita.
Ora gli influencer del bene, che siano arruolati volontari o meno, vengono esibiti pubblicamente per dire che dalla violenza, dalle discriminazioni e dalle malattie si può uscire. Raccontano di aver sconfitto il cancro (ne parlano con spudoratezza come fosse una gara) mostrando le cicatrici, segno che hanno lottato e vinto. Sono i moderni guerrieri, quelli che non mollano mai, che ci hanno sempre creduto e non hanno mai perso la speranza. Le parole astratte vengono imbottite in forma di carne e ossa. Diventano esempi vividi di successo per gli altri. Alla fine delle tenebre c’è la luce; magari soltanto dei riflettori dello spettacolo. E gli altri invece? Chi non ce l’ha fatta? Chi pur lottando, il cancro non l’ha sconfitto? Chi non è mai riuscito a risollevarsi da uno stupro? Chi si piega sul lavandino con due dita in gola? Chi vive nel vuoto e si lascia morire?
Alle volte ho l’impressione che la medaglia appuntata al petto delle vittime, talvolta postuma, sia più una toppa che un trofeo. Non essendo sempre in grado di proteggere l’individuo, la società è risoluta a risarcirlo con un’onorificenza e cooptarlo come testimonial per dar coraggio agli altri che hanno subìto o subiranno la stessa sorte. Un po’ come le medaglie che i reduci di guerra mutilati ricevono per il loro servizio. Dietro gli onori c’è sempre la necessità di mandare avanti la baracca, e gli uomini che lo devono concretamente fare ogni giorno non possono essere scoraggiati dal fallimento di chi li ha preceduti, vanno perciò convinti che per loro ci sarà un paradiso alla fine del lavoro, in terra o, mal che vada, in cielo. Chi invece non ce la fa, si ritira o soccombe nella depressione fuori dalla vista, non serve a questa causa.
Di depressione, e disagi mentali in genere, ne soffre o ne ha sofferto a quanto pare metà della popolazione occidentale; è impossibile che qualcuno non ne abbia avuta esperienza diretta: un familiare, un amico, lui stesso. È naturale che si soffra e che nella vita si fallisca, o che si decida a un certo punto di arrendersi perché non ce la si fa più. I disagi mentali, prima che attraversati (se possibile), non si devono nascondere, soprattutto a sé stessi. Altrimenti è impossibile chiedere aiuto. Si possono anche superare, ma non è detto. Non sono una vergogna; anche se nella pratica quotidiana, fuor di retorica e teoria inclusiva, pare lo siano. Non dovrebbero essere censurati, rimossi, baldanzosamente derisi o addirittura condannati da parte di chi si ritiene vincente nella lotta per la sopravvivenza emotiva e psichica. Del resto è tutto da verificare che cosa vuol dire “sano”. Il fatto che pubblicamente si debba escludere o tacere qualsiasi traccia seria di disagio psichico e si tenda a esagerare in senso opposto, la dice lunga sulle priorità. «Ci sono dei limiti a questa continua enfasi salutista: temi come la salute mentale e lo sviluppo intellettuale vengono per esempio a malapena sfiorati. Quello che ci troviamo davanti è semmai un modello riduttivo edonista di salute, tutto centrato sullo “stare bene” per “apparire bene”. Spiegare alla gente come perdere peso o come decorare la casa è accettabile; reclamare qualsiasi tipo di accrescimento culturale è oppressivo ed elitario»[6].
Una breve interruzione e torniamo subito
Cronaca di qualche settimana fa, che non sarà sfuggita agli appassionati di reality: l’uscita dalla Casa del Grande Fratello Vip di Marco Bellavia, preso di mira dagli altri concorrenti dopo aver confessato di soffrire di problemi legati alla depressione; vittima degli insulti, dell’indifferenza e del bullismo da parte degli altri vip. Due di loro, ritenuti evidentemente dalla produzione i peggiori del “branco”, sono stati squalificati: Ginevra Lamborghini e Giovanni Ciacci. Senza ripercorrere tutta la vicenda, so che Bellavia ha dichiarato, sia alla produzione prima che ai compagni di programma poi, di soffrire di depressione. A un certo punto ha pure chiesto loro aiuto: «Se una persona ha bisogno e gli altri lo aiutano, ce la farà» ha detto davanti a una schiera di volti indifferenti o allarmati.
Ginevra Lamborghini è stata squalificata perché ha pronunciato in più occasioni una serie di frasi ingiuriose nei confronti di Bellavia, ma quella che le è costata il posto è: «Ti meriti di essere bullizzato, te lo meriti, poverino il cazzo!». Di Giovanni Ciacci, l’altro concorrente “punito” per la vicenda, sono le seguenti: «Uno che dice una cosa del genere in confessionale non merita tenerezza. È esaurito? Cazzi suoi!», «Non puoi entrare con gli psicofarmaci qua dentro. Ma siamo pazzi?», «Un Marco ce lo siamo già levato dai coglioni». Ma altro è stato detto, in faccia o alle spalle confabulando nel branco; cito alla rinfusa senza specificare chi ha detto cosa: «Stai là, vai alla neurodeliri», «Marco è solo un disadattato», «Vai a parlare coi muri», «Entri nel patetico. Tu, sei patetico», «Io mi sento preso per il culo quando parlo con Marco, secondo me lo fa di proposito. Dice delle cose che mi fanno senso, io gliel’ho detto che non gli parlo più perché per me è morto», «Non me ne frega niente, stai zitto oggi, stai zitto!», «Non me ne frega un cazzo, vai a fare in culo. Cosa siamo, degli psicanalisti?!», «Sei la causa dei tuoi mali» e per finire «Tu non stai bene, ti devi far curare!» che poi vuol dire che devi starmi lontano e non mi devi stressare con le tue paranoie, mica è un sincero consiglio di cercare aiuto.
Alfonso Signorini ha così comunicato alla Lamborghini la squalifica: «Il discorso è stato questo Ginevra, che tu purtroppo hai associato quel tipo di reazione di Marco a una piaga sociale che è troppo viva. Mi capisci? Perché il bullismo, cioè, non scherziamo, c’è gente che si è ammazzata, c’è gente che si suicida [GL annuisce compunta “ma per carità…”], che perde la ragione, che è perseguitata, che diventa… che crede di essere carnefice anziché vittima. E lo sappiamo [GL lo segue “certo, certo”]. E di fronte a questo, purtroppo, io devo dirti che questo è qualche cosa di inaccettabile». Ciò che pare essere giudicato inaccettabile è l’aver tirato in ballo il bullismo, il termine “bullizzato”: «ti meriti di essere bullizzato». Una parola che oggi fa scattare l’allarme e veemente l’unanime condanna. Però sembra che la ragazza sia stata squalificata per averla pronunciata e non per le vessazioni in sé e la violenza verbale con cui lei, ma anche gli altri, si sono scagliati contro l’estraneo al branco “sano” della Casa. Le parole di altri sono forse state peggiori di quelle della Lamborghini; lei è stata punita, gli altri no. Lei ha usato la parola “bullizzare”, gli altri no. Lo hanno bullizzato senza nominare il bullismo: la cosa deve essere parsa meno grave.
Signorini termina la generale ramanzina con «Dispiace dirlo ma questa è brutta televisione»: siamo quindi nell’ordine dello spettacolo. Il conduttore tradisce la preoccupazione per le conseguenze di una brutta figura professionale. Non ha detto “Questa è brutta umanità”, ha detto televisione. Le conseguenze infatti non si sono fatte attendere: alcuni degli sponsor (due di numero) si sono dissociati con dei comunicati affidati ai loro canali social minacciando di lasciare il programma (a secco di fondi). Il più grottesco è quello di Amica Chips; l’azienda ci tiene a ribadire come «Il nostro intento è sempre stato quello di unire e non dividere, rallegrare ed alleggerire i momenti, non appesantirli». Parole che suonano come una critica a chi tira in ballo la depressione e lo star male in un Reality e non a chi insulta e bullizza. Il comunicato si chiude slittando affettuosamente fuori tema: «Teniamo a chi ci segue e ci sceglie tutti i giorni per la propria tavola».
Dopo qualche giorno è tornato tutto nella corretta normalità. Il programma va avanti, i concorrenti continuano a concorrere, i mea culpa sono stati più o meno espressi, gli sponsor tranquillizzati continuano a sponsorizzare; gli avvocati forse, tra tutti, sono stati i meno tranquilli e hanno dovuto lavorare nell’ombra(il Codacons ha presentato un esposto in cui chiede di accertare possibili illeciti penali e violazioni delle disposizioni vigenti in materia di Tlc[7]). Marco Bellavia ha avuto la solidarietà e il sostegno di molti, e forse si sentirà meno solo.
Eppure. Eppure la saggia Wilma De Angelis aveva detto la cosa più vera dal punto di vista del branco e del modo di pensare nella cultura contemporanea: «Sei la causa dei tuoi mali». Al netto delle cause generiche come pandemia, crisi economica eccetera, si torna sempre lì: la responsabilità è del singolo. Manca solo che salti fuori il vecchio, proverbiale refrain: “te la sei cercata”, per attribuire al guastafeste musone anche la suprema, schiacciante colpa della volontarietà. Come se la volontà contasse qualcosa nei disagi depressivi.
Nota: Noi e loro
Una persona sana di mente, non manipolata da un brain washing moraleggiante quotidiano, avrebbe dovuto guardare quelle scene, riconoscersi e dire «Io non è che ho fatto tanto diverso con Tizio…». Invece la reazione, opportunamente guidata, è stata quella di mettere alla gogna un paio di concorrenti del programma. I “cattivi”. Il principio della mimesis su cui si reggeva il teatro greco è da mo andato in frantumi. E con esso anche qualsiasi possibilità di catarsi e di pedagogia collettiva. L’immedesimazione con l’influencer del bene in un processo di virtualizzazione delle esperienze interiori è talmente pervasiva che per una volta in cui la televisione mostra la realtà dentro un Reality, ci si scandalizza invece di riconoscersi e fare ammenda.
Nota: Loro e noi
La società dei consumi, incarnata nei suoi agenti sponsorizzanti, si è allineata alla nuova tendenza, appoggiando e sfruttando le battaglie per i diritti, qualora le ritenga convenienti – anzi, come abbiamo visto «da sempre difende i diritti dei più deboli» –, schierandosi contro ogni discriminazione e bruttura morale.
«L’avamposto della nuova Bontà guida il popolo contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico d’avorio e di pellicce, contro i responsabili delle piogge acide, la xenofobia, l’inquinamento, la devastazione del paesaggio, il tabagismo, i pericoli del colesterolo, l’Aids, il cancro eccetera eccetera. Contro chi minaccia la patria, il futuro dell’Impresa, la famiglia, la democrazia»[8]. Non si minacci l’Impresa, perché si adopera per il bene di ogni individuo; il quale deve essere produttivo, disponibile, ottimista, flessibile, avventuroso (nei limiti), libero di scegliere (nei limiti), anticonformista (come tutti) e soprattutto felice. Ma come fa a essere felice se viene centrifugato da richieste insostenibili e ha l’impressione di essere tenuto in vita soltanto per rincorrere l’illusione di un appagamento infinito e all’infinito spostato in avanti? Qualcosa non torna. Intanto l’Impresa si profonde nell’opera di convincimento circa la propria Bontà; i fatti poi sono tutti da dimostrare. Ma chi ha voglia di approfondire i fatti quando lo slogan perentorio, senza macchia, è lì apposta per risparmiarci la fatica dell’indagine e dell’approccio critico? «Anche i razzisti vogliono essere antirazzisti come tutti»[9]: a quanto pare non è più un problema.
Solo chi è felice è amato
«Lo so bene: solo chi è felice / è amato»[10] dice una poesia di Bertolt Brecht. «La sua voce / la si ascolta volentieri. Il suo volto è bello. / L’albero tutto storto nel cortile /
addita il suolo cattivo, ma / i passanti gli danno dello storpio / e hanno ragione». Non c’è compassione. Non è ben accetto il pessimismo, il ripiegamento angosciato in sé stessi. Se poi si addita una causa esterna, ambientale, be’… è il peggio del peggio: suona come la scusa di un pigro vigliacco.
L’unico modo per stare correttamente nel mondo è accettare le regole del mondo. E non lamentarsi, non deprimersi, non star male; soprattutto evitare di dirlo. E se il mondo ti chiede di consumare, allora chi non sta bene e non ha voglia di farlo è fuori; perché se un individuo è depresso l’ultimo pensiero che gli passa per la testa è quello di concedersi dello shopping, che siano beni, esperienze o altro, poco importa. Un depresso non consuma altro che sé stesso in una fame cannibale, assoluta e ripugnante.
Parafrasando Franzen, ammettere in pubblico le proprie debolezze, «dal punto di vista della reputazione, è come sanguinare in acque infestate da squali»[11]. Ti riducono in brandelli approfittando del tuo isolamento e incapacità di reagire. Ti danno dello storpio o del perdente, e il bello è che hanno ragione.
«L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale»[12] dice Mark Fisher. «Privatizzare questi disturbi, trattarli come se fossero provocati null’altro che da qualche squilibrio chimico neurologico dell’individuo, o come se fossero il semplice risultato del retroterra familiare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistemica»[13]. In pratica si torna sempre alla questione della responsabilità: la colpa deve necessariamente essere del singolo, del funzionamento della propria chimica. È chiaro che si pone un problema alla società, nell’accettare lo “star male”, se può essere coinvolta in quanto causa rilevante. Da qui la censura.
E che dire delle continue sollecitazioni coercitive a essere belli, produttivi, vincenti, “sani” (che spesso significa solo “fit”) e gioiosi? E pure in fretta. «Molti dei giovani studenti in cui mi sono imbattuto sembravano calati in uno stato che definirei di “edonia depressa”. Di solito la depressione è caratterizzata da uno stato di anedonia, ma la condizione alla quale mi riferisco descrive non tanto l’incapacità di provare piacere, quanto l’incapacità di non inseguire altro che il piacere».[14] Questo stato, che porta in un attimo alla frustrazione, non lo hanno inventato i ragazzi, glielo abbiamo passato noi insieme al latte. L’imperativo, seppur dissimulato, è categorico e ricco di implicazioni. Funziona finché siamo disposti a negoziare la possibilità di essere felici, accettando il kit proposto e seguendo diligentemente le istruzioni, il corredo di aziende convenzionate e i campioni esperienziali con cui ci garantiscono (garanzia che dura molto meno di quella degli elettrodomestici) il raggiungimento dell’obbiettivo, invece di cercarlo autonomamente, secondo i nostri tempi e i nostri gusti anche sghembi. La pressione si rivela insostenibile per alcuni; obbliga a un passo diverso, marziale. Non porta automaticamente alla depressione e all’autolesionismo perché ci si sente inadeguati, ma di sicuro può essere tossica.
Dal fondo
Quando si finisce in quel buco, ci si finisce da soli. Il diaframma del mondo, lo schermo teso, logoro è ceduto davanti ai nostri occhi, o per meglio dire sotto i nostri piedi. Stando sul fondo, non si vorrebbe davvero nessuno lì con noi. Non si riesce a volere che qualcuno lo condivida, che provi ciò che proviamo noi; è troppo. È il nulla. Eppure la presenza, fisica, poderosa di un carroponte che si erga sopra il buco, è quello che si vorrebbe, e che servirebbe. Ma non sappiamo di chi o di cosa. In questa ambiguità – da una parte la resa e la consegna più o meno volontaria all’abisso guidati dal cupio dissolvi, dall’altra il desiderio che qualcuno si affacci e ci chieda di porgere la mano permettendogli così di cavarci fuori – si consumano i giorni. La maggior parte di questi è ferma e desolata, con lampi senza tuoni all’orizzonte e fitte al cuore e allo stomaco a cui sembra di aver fatto il callo. Cresce dentro un vuoto tumorale. A ogni battito presagiamo il collasso. Ma una morte è già avvenuta, e la consapevolezza di ciò porta un sollievo lancinante. Il desiderio dell’altro si complica e si spegne, non riusciamo a dargli credito fino in fondo. Niente ci può aiutare. Niente può aiutare nessuno. È qualcosa di assoluto. Ed è impossibile non crederci. Ciò che ci caratterizza ora è la «pretesa di aver scoperto La Verità (ultima, senza fronzoli) in materia di vita e di desideri»[15]; chiara e lampante come il fiotto di luce del Faro di Alessandria. Nessuno potrebbe capire. «Esiste soltanto l’interiorità, ma tale interiorità è vuota»[16]. E allora si è ancora più soli. E tutto il mondo ci grava sul petto. E il nostro cuore geme e prega di sopravvivere e di morire schiacciato, allo stesso tempo. Proprio allo stesso tempo: ci pare la cosa più vera che abbiamo mai provato.
Non so come se ne esce, non so raccontarlo: i ricordi, quando se ne è fuori, sdrucciolano. Una sorta di salutare rimozione, necessaria per essere ancora in vita. In vita come per la prima volta. «Alla fine del mio soffrire / c’era una porta. / Sentimi bene: ciò che chiami morte / lo ricordo. /…/ È terribile sopravvivere / come coscienza / sepolta nella terra scura. /…/ dal centro della mia vita venne / una grande fontana, ombre blu / profondo su acqua di mare azzurra»[17].
Dai margini dello stato malsano si estende un arido territorio a perdita d’occhio. Vi si muovono le altre persone, ignare. Le cose si complicano quando hai delle incombenze, un lavoro, una famiglia. Quando è impossibile starsene in disparte. «Ogni volta che il sole sorge sono nella merda»[18] canta Sharon Van Etten. Il momento peggiore per chi sta male non è, come nella consolidata e ora un po’ vitrea tradizione blues, la sera quando viene buio e si rimane soli coi propri fantasmi. La cosa peggiore è svegliarsi la mattina e dover affrontare la giornata nel mondo dei simulacri, dover rendere conto a qualcuno, che sia il capoufficio o il proprio figlio; star su e fare. Fare sempre e comunque. Sei un morto che cammina. Non una persona ma una funzione; a tanto si riduce la tua partecipazione alla vita attiva. Devi almeno non smettere di funzionare. Dei tuoi problemi poi, quando sei fuori casa, non frega niente a nessuno. Se ne accenni, o la tua faccia tirata parla per te, mentre prendi un caffè con un cliente o un collaboratore, delle due l’una: o quello non ha voglia di starti a sentire, oppure non ti crede. Nel dubbio, appena percepisci l’incredulità di chi ti sta davanti, la butti sul ridere o cali una frase di circostanza, viri sul grottesco e di proposito sull’incredibile. In fondo esageriamo tutti, no? Tutti siamo bipol, a tutti viene la depressione. Tutti siamo pazzi. Le parole slavate dall’uso eccessivo lavano comunque via il sangue. È preferibile non essere creduti, perché in fondo anche loro hanno problemi (e chi non ne ha?); se cominciassimo a parlarne non si finirebbe più. E infatti la frase, che casca e si conficca nella mente creando un argine, è la solita: ognuno ha i suoi. E via, si torna al lavoro. Ti persuadi che è proprio così che deve andare: tu ti fai i tuoi e gli altri i propri. Nessun mescolamento, nessuna confusione, nessun conflitto: tutto ordinato, ben distribuito e razionale. Ecco: razionale; la parola che ci voleva per sistemare la faccenda. Si torna al principio: la colpa (se c’è una colpa) è tua e te la devi risolvere.
The right to cry
Prendo l’esempio di un brano intimista, The right to cry di Matt Elliott[19]: una progressione di accordi che si dipana in una lunga suite melanconica, il cui tono e la costruzione suggeriscono come a ogni slancio affrancatore segua una ricaduta che ci riporta nella cenere. La voce baritonale si leva per stare in equilibrio su un filo il più a lungo possibile, ma inevitabilmente precipita riverberando cava, più fonda di prima. Eppure tutto ciò non è inutile: Elliott, come ogni artista che si rispetti, condivide efficacemente il suo dolore e l’accettazione della propria condizione; «Cos people are people / They are who they are» dice, che ricorda «La guerre, je vous dis la guerre» di Ferdinand de Saussure, in cui la parola, per il fatto di essere ripetuta, acquista una diversa sfumatura di significato rispetto alla prima. Illumina. La canzone apre l’album Only myocardial infarction can break your heart: solo un infarto ti può spezzare il cuore. Nel cinismo della società dello spettacolo, per dirla con Debord, si è vulnerabili soltanto biologicamente, fisiologicamente, nonostante si spinga sul pedale virtuale del sentimentalismo e dell’emozionale tirando un’interminabile volata ai consumi. Solo la rottura meccanica ti uccide, dunque. Non ci si fa certo impietosire dalla sofferenza, peggio da quella altrui. I cuori che si spezzano per amore o per angoscia sono deboli, orrendi.
Ma è proprio vero? Matt Elliott traduce in musica l’angoscia dell’esistere trasformandola nell’unica autentica alternativa alla vita quotidiana desensibilizzata per troppe sensibilizzazioni artificiose, per le prevedibili amenità dello spettacolo. Si apre una prospettiva che forse non si aveva considerato: anche quando tutto appare inospitale, impalcato di inutilità violenta e insostenibile, non siamo impediti definitivamente a fare. Non è vero che per fare devi essere per forza ottimista e positivo altrimenti non fai. È una visione manichea, ottusa, dettata da esigenze sbrigative che ti vogliono sempre a palla. E non si tratta nemmeno di trasformare il negativo in positivo per farlo produrre. Anche l’energia negativa ha il suo senso e un ruolo nell’economia energetica. L’atomo, l’unità della materia, è composto di protoni, neutroni ed elettroni che hanno carica negativa. Questa, in arte come nella vita, agisce con pari importanza e forza. Non può essere estirpata, cancellata, censurata. La materia smetterebbe di essere.
L’arte ha il potere di leggere e restituire un senso allo star male. Non lo censura. Trova il modo di collocare la sofferenza rispetto alla vita. Non ce la risparmia (ci mancherebbe altro che fosse programmaticamente consolatoria) ma la riconosce come parte costitutiva e imprescindibile del mondo. Credo perciò che non si debba credere alle lezioni di vita degli influencer del bene, quando dicono che bisogna trasformare il dolore patito in energia positiva per diventare più forti (l’adagio del “ciò che non ti uccide ti fortifica”). Bisogna accettare il fatto che spesso non è possibile.
Ai ragazzi che ora patiscono disagi mentali bisogna riconoscere il diritto di star male, perché è qualcosa del mondo li fa stare così, che li offende tutti i giorni, fosse anche la spocchia prestazionale degli adulti, logori anch’essi ma impegnati a perpetrare il meccanismo perché non hanno altre prospettive. Bisogna riconoscere loro anche il diritto di dire che il mondo fa schifo, senza stracciarsi le vesti e riparare nel buonismo e nelle consolazioni posticce. Questo non vuol dire abbandonarsi al nichilismo autodistruttivo (certo può avere anche questo risvolto, ma non è il solo sbocco); troveranno loro il modo se non vengono castrati e obbligati a sentire ciò che non possono sentire. Se qualcuno non ce la fa è comprensibile, e va rispettato. Anche questo è una forma di aiuto. Sentirsi compresi è qualcosa di importante. Chi sta male non deve anche essere chiamato a contrastare le angherie dei bulli che, quand’è a terra, lo calpestano solo perché hanno la forza per farlo, non il diritto o il motivo, soltanto la contingente forza per farlo. Chi ha un potere, ed è stupido, tende a esercitarlo sempre e comunque. Ed è tutto ciò che sa fare.
In Everyday is like sunday[20], Morrissey ci parla di qualcuno che attraversa la spiaggia per tornare alla panchina dove ha lasciato i vestiti per fare il bagno e scopre che gli sono stati rubati. Si trova in una cittadina della costa, un posto che detesta e vorrebbe fosse spazzato via dalle bombe. È arrabbiato e triste. È solo. È una vacanza di merda. Lì ogni giorno è domenica. Domeniche grigie e mute, altro che giorni di festa. I chioschi turistici, la messinscena vorrebbe farci credere che potremmo vivere come se ogni giorno fosse domenica. Si sta costruendo una realtà virtuale apposta per questo, dato che la reale sta fallendo. Un intero mondo virtuale. Ma le sue domeniche sono grigie e non ci dicono nulla. Nulla di interessante. Quando sento la canzone provo sollievo: c’è qualcuno che prova ciò che provo io. Mi fa sentire che la mia infelicità, il mio senso di vuoto, perfino la mia depressione, non sono qualcosa di sbagliato in assoluto[21] che va censurato.
Insomma, ne faccio un fatto politico: lo star male è opposizione. La depressione, e i disturbi mentali in genere, comportando un ripiegamento e una volontà anomala, negandosi al positivo a tutti i costi e al dover essere performanti, rende problematiche le circostanze sociali che, se non la determinano, perlomeno ne agevolano l’insorgenza. È una forma di resistenza passiva. È il momento in cui l’essere umano fa i conti in modo straziante con sé stesso e il mondo e li perde, e non c’è gadget che lo possa salvare. L’abbaglio del positivo che ti porta a consumare trovando in questo un sollievo e una risposta, non funziona più. In quel momento nulla, di tutte le merci e i servizi deperibili, ti può toccare; tranne forse gli psicofarmaci. Il disturbo depressivo toglie benzina al motore del consumismo, smette di dare acqua alle radici e con le proprie lacrime salate fa seccare il fogliame photoshoppato.
La diffusione della depressione, dell’autolesionismo, anche e soprattutto tra i giovani, ci dice che non sta andando bene. Non va affatto bene. Quando un ambiente, una società, ti toglie la voglia di vivere, scolora ogni senso, sostituisce con simulacri e marionette ben dipinte tutto ciò che invece a te interesserebbe fosse vivo e vulnerabile proprio come sei tu, con cui avere un rapporto dialogico, sessuale, emotivo autentico, vuol dire che sta fallendo, che non è un ambiente adatto alla vita come invece vorrebbe far credere. Le persone più sensibili, gli individui più fragili, ne fanno le spese per primi. Non ci si accorge di loro, della loro “protesta”, perché non hanno voce. E se ce l’hanno viene presto silenziata dal frastuono che gli si leva intorno, come la musica nei locali e nei centri commerciali, che serve per eliminare il silenzio e l’attrito della polvere cinerea del vuoto. Lo star male si rivela la più genuina forma di contestazione. La più estrema. Forse non la più efficace, dato che non è né consapevole né organizzata né propulsiva, ma sicuramente la più umana.
Note
[1] Antonio Turolo, Ragazzo V, in Le Parole contate (Poesia contemporanea, sesto quaderno italiano, Milano, Marcos y Marcos, 1998).
[2] Per l’elenco completo rimando al sito www.giornatamondiale.it
[3] Una breve esemplare carrellata on line: https://www.iodonna.it/benessere/salute-e-psicologia/2022/10/10/giornata-mondiale-della-salute-mentale-10-ottobre-ansia-depressione-cosa-fare/ https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/10/10/giornata-mondiale-della-salute-mentale-cosi-pandemia-guerra-e-crisi-economica-hanno-fatto-aumentare-i-disturbi-psichici/6831778/ https://www.ilpiacenza.it/blog/salute-e-medicina-on-line/il-10-ottobre-e-la-giornata-mondiale-della-salute-mentale-world-mental-health-day.html https://tg24.sky.it/salute-e-benessere/2022/10/10/giornata-mondiale-salute-mentale https://www.repubblica.it/salute/2022/10/09/news/salute_mentale_giornata_oms-368952071/
[4] Da una intervista del regista Adam Curtis citata da Mark Fisher in Realismo Capitalista, Roma, Nero, 2018, p. 141.
[5] Software professionale per l’editing video di Adobe.
[6] Mark Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018, p. 140.
[7] Nota del Codacons: «Ancora una volta la trasmissione Mediaset si rende protagonista di gravi episodi che oltre a rappresentare una forma di violenza sono altamente diseducativi specie per il pubblico più giovane. Nonostante quanto accaduto, né gli autori del programma né i vertici dell’azienda hanno saputo adottare misure adeguate, lanciando un messaggio errato e pericoloso ai telespettatori, che a migliaia si sono rivolti al Codacons chiedendo di intervenire sul caso. Alla luce di quanto accaduto, presentiamo oggi un esposto alla Procura di Roma chiedendo di aprire una indagine alla luce della possibile fattispecie di violenza privata, accertando le responsabilità del concorrenti del GfVip e, per concorso, degli autori, del conduttore Alfonso Signorini e dei vertici Mediaset. L’art. 610 del codice penale stabilisce infatti che “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni”, reato che potrebbe configurarsi negli atti di bullismo commessi nel corso della trasmissione».
[8] Philippe Muray, L’impero del bene, Milano-Udine, Mimesis, 2017, p. 19.
[9] ivi, p. 21.
[10] Bertolt Brecht, Tempi grami per la lirica, in Poesie, Torino, Einaudi, 1992.
[11] Jonathan Franzen, Come stare soli, Torino, Einaudi, 2003, p. 72.
[12] Mark Fisher, Realismo Capitalista, Roma, Nero, 2018, p. 84.
[13] ivi, p. 59.
[14] ibidem.
[15] Mark Fisher, Spettri della mia vita, Roma, Minimum Fax, 2019, p. 87.
[16] ibidem.
[17] Louise Glück, L’iris selvatico, Giano Editore, 2003.
[18] Sharon Van Etten, Every time the sun comes up, in Are we there, Jugjaguwar, 2014.
[19] Matt Elliott, The right to cry, in Only myocardial infarction can break your heart, Ici D’Ailleurs, 2013.
[20] Morrissey, Everyday is like sunday, in Viva hate, Sire, 1988.
[21] Vero che qui si va un po’ fuori tema. Riguardo al riconoscersi nella depressione degli artisti, vale ciò che Fischer ha scritto a proposito dei Joy Division e della loro assenza “di qualsiasi evidente oggetto-causa della depressione”, ovvero che la rende “melanconia piuttosto che malinconia, un sentimento che l’umanità ha sempre coltivato come forma accettabile e sottilmente sublime di piacere” in Spettri della mia vita, Minimum Fax, 2019, p. 86.
[Immagine: Aaron Siskind, Chicago #14, 1952].