di Filippo Tuena
Da quando, alcuni anni fa, nel 2014, Gian Arturo Ferrari, detto il ‘professore’, ha deciso di attraversare il vallo che separa gli editori dagli autori, aspettavo che desse alle stampe un testo come questo. Ora, dopo due libri interlocutori, lo ha scritto, lo ha pubblicato e lo si può leggere con sommo interesse. Il titolo – Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio, p. 363, Euro 19) – gioca al ribasso, suggerendo una lettura disincantata del mondo delle belle lettere. Ma Ferrari lo sa, tutti quelli che si sono avvicinati al mondo dei libri, editori e scrittori, persino i semplici lettori, l’hanno fatto gettando il cuore oltre l’ostacolo. Un gesto irrazionale e neppure imitabile – chi può strapparsi il cuore e lanciarlo lontano da sé? – ma che nella sua impossibilità crea un’immagine molto potente. Tuttavia è questo quel che nel libro si racconta. La determinata convinzione che sia possibile incidere in qualche modo nella società attraverso l’oggetto libro dietro cui opera un mondo brulicante di passioni e furbizie, slanci e rifiuti. Ancorché quella società sia quella italiana, così refrattaria all’idea che la lettura produca alcunché.
Il libro parte da abbastanza lontano, poco più di un secolo e mezzo fa, con il racconto della nascita di due case editrici milanesi, Treves e Sonzogno, antesignane del mercato della carta stampata e che aprono la via all’altra dicotomia Mondadori-Rizzoli che pone le basi dell’editoria italiana, almeno come è stata sino a pochi anni fa. Ferrari affronta la parte ‘storica’ del libro per completezza narrativa ma entra nel vivo – e così la narrazione – quando si dedica a raccontare gli anni che lo hanno visto protagonista del mondo letterario italiano. Sono gli anni della battaglia per la Mondadori, un decennio a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Sembra ieri, ma sono trascorsi quarant’anni e l’Italia è diventata altra cosa. Anche noi, purtroppo. Così si scorrono quelle pagine con un involontario sentimento di malinconia che si sostituisce all’ironia suggerita dal titolo. Per inciso sono anche gli anni in cui cominciai ad appassionarmi all’oggetto libro, prima come lettore, poi come autore e il racconto di Ferrari mi riporta indietro regalandomi bei momenti dall’album dei ricordi. Mi accorgo che l’articolo, da una recensione al libro, sta pericolosamente virando verso i ricordi di decenni fa. Vorrei oppormi ma la lettura va in quella direzione. Ferrari racconta un evento vissuto dall’interno e a me lettore arrivano flash, tornano frammenti di come vivevo quell’evento dall’esterno o, perlomeno, non così dall’interno. Mi sembra sbagliato oppormi alla deriva del libro per come riesco ad assaporarlo.
Leggo con avidità, per esempio, le pagine dedicate al premio Strega del 1989 – quello della mitica disfida tra Pontiggia e Calasso. Ferrari racconta i fatti dal suo punto di vista privilegiato (i vertici della Mondadori) e li racconta esattamente come andarono. Conoscevo bene la vicenda perché pochi anni dopo la Rimoaldi me ne parlò e ancora aveva il dente avvelenato per quello che lei riteneva lo scippo perpetrato ai danni di Calasso (‘se la prese a male e così nessun libro Adelphi parteciperà mai più al premio’ mi confidò). Sul quel famoso pacchetto di voti Newton Compton passati alla Mondadori Ferrari è laconico e pragmatico. Comunque, di tutta la vicenda rimane il fatto che Pontiggia era uomo squisito, sobrio e gaudente al tempo stesso. Ricordo la foto che lo immortalava vincitore. Sembrava dire ‘che ci faccio qui?’
Privo di qualunque sarcasmo è il racconto del rapporto con Leonardo Mondadori. Chi lo ha conosciuto ha conosciuto i suoi guizzi d’ingegno, le sue megalomanie così come anche le sue assenze. Io l’ho conosciuto nel 1990. L’anno successivo avrei pubblicato il mio romanzo d’esordio con la sua neonata casa editrice, la ‘Leonardo’, bella e sfortunata. (Basta sfogliare il catalogo che Leonardo e Francesco Durante misero su in quei pochi anni per valutare il loro innegabile fiuto). Mondadori mi aveva scovato come scrittore un pomeriggio di maggio, inaspettatamente, in una visita nella mia galleria antiquaria a via Margutta e questo forse lo aveva divertito. In qualche modo mi sosteneva e pensava che avrei potuto avere un certo futuro come autore. L’anno in cui don Mimì Rea vinse lo Strega proprio con la Leonardo (nel 1992) mi disse ‘un giorno porteremo anche te su quel palco’. Cosa che poi non si è realizzata ma che ricordo come un lieto auspicio.
Fu in quel periodo che incontrai alcune volte il ‘professore’ quando, risolta la questione del lodo-Mondadori, Leonardo tornò come presidente nella casa editrice di famiglia – ormai di Berlusconi. Mi chiamò un paio di volte a Segrate per parlare di libri futuri e, in quelle occasioni presente ai colloqui c’era anche Ferrari. Ora la cosa mi pare folle (che uno scrittore quasi esordiente venisse ricevuto dai vertici della più grande casa editrice italiana per ragionare su libri ancora da scrivere) ma allora, nella mia ingenua follia, mi sembrava quasi naturale. Leonardo voleva che scrivessi un libro che avesse per protagonista Caravaggio, io insistevo con Michelangelo. Ferrari ascoltava. Adesso davvero mi stupisco che mi avessero concesso tempo e speranze. Devo esser loro riconoscente. Ovviamente la mia cocciutaggine scartò definitivamente l’opzione ‘Caravaggio’.
Una decina d’anni dopo, nel 2000, incrociai Ferrari per strada a Milano. Il professore mi chiese cosa facessi. ‘Scrivo’ risposi. ‘Eh, ma non per noi’. ‘Io vi mando i dattiloscritti, ma niente, cadono nel vuoto.’ ‘Quando hai qualcosa di pronto?’ ‘Adesso! Ho appena finito il romanzo su Michelangelo.’ ‘Manda a me. Manda, manda.’ Così mandai una copia con un biglietto che ripeteva l’esortazione: ‘ho mandato. Ho mandato.’ Il professore attivò i suoi canali privilegiati. In effetti, un mese dopo, mi arrivò una telefonata di Franchini che mi proponeva di pubblicare il libro nella SIS. La data fissata per la pubblicazione mi sembrava troppo lontana e così non se ne fece nulla.
Degli altri editori che ho conosciuto in quegli anni, Ferrari dedica molte pagine a Mario Spagnol e lo segue nell’intricato percorso della sua carriera di successo, dalla Feltrinelli alla Rizzoli sino alla Longanesi. Ricordo che una volta gli suggerii un libro su Piranesi. Ci pensò un attimo e poi, rifiutandolo, sentenziò: ‘è una buona idea ma non bastano le buone idee per fare i libri’. Ogni tanto ci ripenso e la mia esperienza conferma quella lapidaria sentenza.
Termino qui gli allacci autobiografici con la vicenda narrata da Ferrari. Ma sono convinto che questo libro susciti ricordi o desideri in tutti coloro che lo prendono in mano. Datemi retta, non è soltanto una breve ed esauriente storia dell’editoria italiana; è qualcosa che ci riguarda e ci appartiene (almeno a chi ha vissuto a vario titolo questo mondo) e di cui bisogna ringraziare l’autore, per il viaggio nel tempo che ci ha permesso di compiere. E dunque: grazie professore.