di Claudia Rankine (trad. di Francesco Pacifico)

 

[E’ uscito in questi giorni per 66thand2nd Just Us. Una conversazione americana di Claudia Rankine, nella traduzione di Francesco Pacifico. Pubblichiamo due capitoli del libro, che sarà presentato sabato 10 dicembre alle ore 18 in occasione della Fiera nazionale della piccola e media editoria Più libri più liberi]

  

 

e se

 

i

 

Che significa volere

che un appello secolare

al cambiamento

non cambi

 

eppure insieme

sentirsi in obbligo

verso l’appello al cambiamento?

 

Un appello al cambiamento come si fa a chiamarlo vergogna,

a chiamarlo pentimento, a chiamarlo castigo?

 

Come fa uno a dire

 

e se

 

senza rimprovero? La radice

 

di castigo è purificare.

È questa impossibilità – è questo

che ci ripugna e non

 

l’appello al cambiamento?

 

 

ii

 

Ho la rassegnazione nella voce quando dico che mi sento

rallentare, e come una macchina calibro

gli stadi della mia reazione. Dentro rimango

tanto indolenzita che non ho altra soluzione che sfogarmi –

 

e allora faccio domande come io so fare

nella solitudine del mio interrogatorio.

Ciò che permane è vero; non c’è nemmeno un tremore

quando ti obliterano a tal punto dalla Storia.

 

Potrei dar forma a un recipiente per questo essere,

un recipiente che ci contenga tutti, sebbene non fossimo mai

intesi in completezza; non fossimo previsti a figura intera.

 

Risiedo nei vostri pensieri accorti anch’io spezzata,

anch’io sconosciuta, vi porgo

una frase – qui, sono qui.

Quanto è vero che vi ho conosciuto, e che non vi conoscerò mai,

 

io sono qui. Qualunque cosa

si stia esprimendo, e se,

io sono qui che aspetto, aspetto voi

 

nell’e se, nelle domande,

nei condizionali,

negli imperativi – e se.

 

 

iii

 

E se per il tè, e se nelle nostre passeggiate, e se

nel lungo sbadiglio della nebbia, e se nell’infinito fulcro

dell’attesa, e se nel passaggio, nell’e se

che ogni giorno ci conduce fra le stagioni, e se

nella rinnovata resilienza, e se nell’infinità,

e se in una vita di conversazioni, e se

nella chiarezza della coscienza, e se non cambia niente?

 

 

iv

 

E se sei responsabile di salvare più che di cambiare?

 

E se sei tu la distruzione che scorre sotto

il tuo linguaggio di paladina? Non è anche questo un gran casino?

 

Tu dici, se gli altri bianchi non avessero… o se è sembrato non fosse abbastanza… io avrei…

 

E se – il richiamo incessante dell’e se – sia ritenuto incessante solo

quando e se parte dalle mie labbra, quando e se viene pronunciato

da chi nessuno l’ascolta, e se

 

e se è il cemento dell’insistenza

quando insisti che e se

così è.

 

 

v

 

Cos’è che vogliamo rimanga nella coscienza, che sia riconosciuto, anche mentre diciamo, ciascuno come possiamo, oh io amo io so io mi ritraggo io sento chiedere io anche io reagisco io odoro io provo io penso io mi si dice io rammento io vedo io no io pensavo io provavo io sbagliavo io sospetto io facevo io non ho dubbi io ho letto io mi serviva io non avrei io ero io avrei dovuto io provavo io avrei potuto io mai io non ho dubbi io chiedo…

 

Tu dici e io dico ma cos’è

che stiamo raccontando, cos’è

 

che vogliamo sapere qui?

 

 

vi

 

E se ciò che voglio da te fosse nuovo, nuovo di zecca

una frase nuova in risposta a ogni mia domanda,

 

uno scarto nel nostro rapporto e nelle parole che ci sostengono,

la cura che sostiene. Io sono qui, senza minimizzare,

cerco di capire in che modo ciò che voglio

e ciò che voglio da te corrano in parallelo –

 

giustizia e un varco per noi soltanto, just us.

 

 

***

 

alto

 

 

 

Sto andando a recuperare il soprabito a casa d’altri quando nel corridoio vengo fermata da un uomo che afferma che a detta sua il suo più grande privilegio è l’altezza. L’altezza ha ripercussioni politiche e al momento lui mi sta passivamente bloccando il passaggio e quindi, sì, vero. Ma il più grande? No. Sarò prevedibile, gli dico, ma per me il tuo più grande privilegio è la bianchezza. Al che lui dirotta impercettibilmente il discorso e mi riferisce che, a differenza di altri bianchi che gli hanno confessato di avere paura dei neri, lui con loro è a suo agio perché giocava a pallacanestro. Non aggiunge con dei neri perché è implicito. Senza motivo apparente, tranne forse una vuota logica per cui se ti piace tanto una cosa tanto vale che te la sposi, gli domando se è sposato con una donna nera. Cosa?, mi fa. No, è ebrea. Dopo un momento aggiunge che è bianca. Non gli domando dei suoi amici più stretti, dei colleghi, dei vicini, degli amici della moglie, delle sue istituzioni, delle nostre, del razzismo strutturale, del razzismo strumentalizzato, del razzismo ignorante, del razzismo interiorizzato, dei pregiudizi inconsapevoli – decido solo che, siccome non succede più niente, non stiamo aggiungendo altre interazioni sociali, nessun enunciato né suo né mio, siamo entrambi ricaduti nelle nostre fantasticherie di default, decido di raddrizzare il collo e alzo lo sguardo. Ho di nuovo raggiunto la fine, ho smesso di aspettare. Cos’è che ha detto la teorica Saidiya Hartman? «Insegnare ai bianchi cos’è il razzismo non ha funzionato». O era invece che «i corridoi sono zone liminali in cui dovremmo sperimentare cosa sia possibile»? Sia come sia, ancora a lungo, per tutto il tragitto verso casa, l’immagine dell’uomo alto mi rimane piazzata davanti, ineluttabile. E poi mi torna in mente la citazione di Hartman che cercavo: «Una cosa che credo sia vera, che è un modo di vedere l’eredità della schiavitù in relazione al modo in cui abitiamo il tempo storico, è il concetto di intrico temporale per cui passato, presente e futuro non sono entità discrete e rimosse l’una dall’altra, ma piuttosto una simultaneità intricata che tutti abitiamo. Questa cosa per i neri è quasi un’ovvietà. Ma come si fa a narrarla?». La sua domanda è il cerchio che ci avviluppa.

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