di Alberto Casadei
[La prima e la seconda serie di questi assiomi si leggono qui e qui. L’argomentazione è minima per ridurre uno dei problemi più forti della comunicazione in rete, la sua tendenza a dividersi in sottoinsiemi che diventano, di messaggio in messaggio, sempre più esili e dispersivi. Lo scopo è anche quello di definire obiettivi concreti, e non solo astrattamente plausibili, all’interno di una concezione del ‘fare letterario’ che vorrebbe confrontarsi con alcuni fondamenti dell’archeologia del sapere contemporaneo].
- Nell’Italia di oggi, uno dei problemi principali per l’affermazione di opere letterarie di valore è la mancanza di un pubblico adatto a sostenerle che sia non solo preparato ma anche numericamente ampio.
- Nel campo di forze culturali attuale, il primo modo per ridurre all’insignificanza autori e opere interessanti è quello di poterne constatare la scarsa o irrisoria diffusione: se di un buon poeta si vendono cento copie, la sua presenza nel campo di forze è ipso facto pressoché nulla. Ogni considerazione più raffinata è ritenuta inutile, o al massimo consolatoria per circoli ristretti di cultori.
- Il rapporto di questa situazione con le modalità di insegnamento della letteratura nelle scuole e all’università, che è la prima forma di ‘critica’ con cui si confrontano i potenziali lettori, è evidente: non si può pretendere di formare una consapevolezza dei valori se si trattano le opere letterarie o in forma asetticamente storicistica o con parametri vetero-strutturalisti.
- Tuttavia, anche la ‘critica’ ufficiale non fa molto per modificare questo stato di cose. Al di là delle iniziative apprezzabili, soprattutto in rete, negli ultimi decenni ci si è mossi quasi sempre nell’ottica delle consociazioni e delle poetiche ad excludendum, magari all’insegna di personalismi che, in genere, hanno avuto una parabola di poche stagioni.
- Una riflessione seria sull’evoluzione della letteratura sino alla metà del secolo scorso è stata fatta, specialmente per i macrogeneri, ma manca ancora un tentativo di instaurare una connessione fra i valori individuati e il presente in tutti i suoi risvolti, comprese le forme di creatività extraletteraria e di teorizzazione su quelle forme. Quest’ultimo aspetto è fondamentale anche per riuscire a cogliere valori adeguati nella piena contemporaneità.
- “Il pregiudizio più comune è questo: che la nuova letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale, come fu per il futurismo. La premessa della nuova letteratura non può non essere storica, politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa” (Gramsci).
- Ma cosa significa, esattamente, cercare di trovare valori che siano popolari per un pubblico ampio e consapevole oggi? In primo luogo, vuol dire tentare di individuare le opere che intercettino, nella loro resa stilistica, condizioni socio-antropologiche modificate per il cambiamento di alcune propensioni profonde: aspettative sulla vita e sulla morte, desideri per il sé individuale e per il sé collettivo, cognizioni dei limiti, percezioni del male.
- Il fatto di affrontare temi impegnati, o magari ‘storie vere’ (peraltro ipotecate ormai dal degenerare del modello dell’autofinzione), è solo un aspetto della possibile popolarità: ma non può essere questo il parametro di valutazione della critica e del pubblico criticamente consapevole. DeLillo non dovrà mai essere considerato meno significativo di Saviano.
- Senza un sostegno adeguato per qualità ma anche per peso specifico, nessuna opera può attualmente superare la barriera della presunta insignificanza. Probabilmente, però, è sempre stato così, benché si tenda a dimenticarlo: i poemi omerici, quello di Dante, i drammi di Shakespeare, i romanzi di Tolstoj sono stati, anche, popolari.
- Alla domanda: “quali sono i narratori e i poeti italiani (e non solo) attualmente più rappresentativi?” è comunque necessario rispondere, preparando insieme gli strumenti idonei a sostenere la propria risposta presso il pubblico interessato. Di qui l’ulteriore necessità di interrogarsi sulla ‘divulgazione onesta’, ovvero sul confronto aperto ma nel riconoscimento, al critico-proponente, di una ‘competenza’, che oggi invece viene spesso assegnata senza verifiche.
- La dialettica di pensieri e di poetiche diverse per riuscire a cogliere i valori più forti in questo determinato momento storico è il primo passo che si può compiere per coniugare il lavoro critico e le esigenze di un pubblico criticamente consapevole. In questa prospettiva, condividere e sostenere le iniziative già esistenti, anziché crearne altre potenzialmente sempre migliori ma solo all’infinito, sarebbe un primo segno di maturità, che potrebbe trovare un riscontro nel pubblico reale, con l’obiettivo concreto di ottenere un suo allargamento nell’immediato futuro.
[Immagine: Pink Floyd, The Wall (gm)].
1. Se manca il pubblico, e la letteratura di valore è bersaglio mancato, due sole sono le alternative: smettere o farla solo per se stessi. Chi sceglie di non smettere e, a fronte del punto 1, si lamenta della scarsa audience è da fucilare.
2. C’è una evidente contraddizione logica tra la prima frase del punto 2 e il punto 1; o meglio, la contraddizione è risolta arruolando Casadei tra le fila di chi riduce all’insignificanza autori e opere interessanti, giacché è lui stesso che (Cfr punto 1) … L’inutilità della critica e la sua consolatoria presenza per circoli ristretti è una conseguenza del punto 1: ed è verità molto evidente.
3. Già, è allora? E poi: gli insegnanti sono in grado di proporre letteratura di valore? Quello di mio figlio, ad esempio, in terza liceo ha proposto Guccini come esempio di letteratura di valore (altro che storicismo o strutturalismo!) … Anche qui: fucilazione.
4. La critica ufficiale è cointeressata allo stato di cose, perché mai dovrebbe modificarlo? Aspettarsi altro è pia illusione (e stupidità conclamata). Meglio affrontare l’analisi dei rapporti che fanno detta critica “ufficiale” parte integrante di un meccanismo che esclude le opere letterarie di valore … Inoltre: le consociazioni e le poetiche ad excludendum sono praticate anche dalla critica “militante”, non meno interessata al mantenimento dello status quo di quella “ufficiale” …
5. Le connessioni sono impossibili da tracciare se il critico è ignorante in materia di musica, teatro, video arte, etc.. La contemporaneità è mancata dalla critica per deficienza conclamata.
6. La frase di Gramsci è ambigua. Nella definizione ci potrebbero rientrare tranquillamente i romanzi dei Wu Ming o quelli di Carlotto … Ma che c’entrano con la letteratura di valore?
7. Altra contraddizione logica. Se (Cfr punto 1) manca il pubblico per le opere di valore, qualsiasi opera che voglia farsi popolare, e dunque raggiungere un pubblico ampio, è destinata a tracciarsi (in se stessa, nella sua “forma”) secondo i moduli del disvalore (del gusto corrente): e quindi a smerdare la qualità. La seconda frase è, nella sua banalità, condivisibile da qualsiasi autore vivente – da qualsiasi!
8. Temi impegnati, storie vere … Manca poco al realismo. DeLillo, Saviano … Manganelli è meno popolare?
9. Qui siamo all’assurdo. Oggi nessun lettore normale (non professionale), diciamo mediamente scolarizzato, capisce Shakespeare o Dante …
10. Quand’anche si rispondesse alla domanda, e si riuscisse a sostenere la risposta con argomenti critici, il pubblico mancherebbe comunque le opere di valore, giacché il “gusto” è qualcosa di più complesso che non una risposta a quel genere di domanda. Rammentando il punto 1: le iniziative già esistenti non hanno contribuito a cambiare la situazione; insistere è continuare a prendere la medicina sbagliata. Il pubblico potrà essere allargato solo dopo aver fucilato letterati e critici e insegnanti, ovvero mai.
PS: dove sta scritto che le opere letterarie di valore non possono esistere al di là del pubblico? Esempio: le opere della Jelinek possono intercettare le propensioni profonde del punto 7, eppure le conosciamo in pochissimi; la semiclandestinità ne fa perdere il valore?
Stan.L.
Grazie, professor Casadei, per questa terza puntata delle sue riflessioni. Mi stimola molto l’intreccio tra considerazioni critiche (una definizione di realismo) e assiologiche (il valore conoscitivo e sociale della letteratura), da un lato, e considerazioni di sociologia della letteratura e di didattica, dall’altro. Riguardo a quest’ultimo punto, credo che sia giunto il momento di riaprire le porte delle università agli insegnanti delle superiori e quelle delle superiori agli insegnanti dell’università. Ho già fatto alcune riflessioni in un mio commento all’articolo del professor Giunta, Piagnistei. Non mi ripeto qui e mi scuso se mi cito, ma, da insegnante di letteratura delle scuole superiori, sento l’isolamento e la sfiducia nella quale lavoriamo come un gravissimo rischio culturale ed educativo e vorrei davvero che ridessimo slancio alla nostra azione con nuova consapevolezza e nuovi orientamenti, in primo luogo attraverso la discussione collettiva. Mi rendo conto che nei giornali, nei blog, nelle università, forse i problemi strettamente pedagogici risultino a volte sfocati e lontani, ma posso garantire che nella scuola superiore la didattica della letteratura “in forma asetticamente storicistica o con parametri vetero-strutturalisti” ci sta soffocando e uccidendo. Tra l’altro, questo è solo uno dei tanti problemi.
Intervento interessante e acuto, come i precedenti. Tuttavia leggendo ho avuto l’impressione che ci fosse un piccolo vizio di fondo, o meglio, qualcosa che certamente Casadei sa ma che evita di tirare in ballo, e riguarda proprio l’idea di pubblico. Se non capisco male, una delle suggestioni proposte (mi limito a chiamarle così per non rischiare di forzare la forma “assiomatica”, che apprezzo; all’autore ogni eventuale approfondimento) è che il campo di forze attuale non permette la formazione di un pubblico capace di comprendere le specificità di forme letterarie che si allontanano dai modelli più banalmente scolastici per intercettare strati di senso profondi e potenzialmente “universali”. Come conseguenza di un sistema binario di interessi e incapacità (reciprocamente legati, ovviamente) il giovane bacino dei potenziali lettori viene o ingabbiato in programmi obsoleti e sempre più aridamente canonizzati (vorrei notare che, salvo rari casi di professori illuminati, i programmi di letteratura delle scuole superiori arrivano a stento a Pirandello), o trascinato qua e là dai “personalismi di poche stagioni”, se non, ancora peggio, dai gusti personali del primo pseudo-trasgressore di turno, che forse propone Guccini più per fare sfoggio di un’inesistente larghezza di vedute che per un reale giudizio di merito.
Ora, a me sembra di vedere un altro problema, che sta più a fondo di questo, anche se sicuramente la questione del sistema educativo in tutta la sua estensione rimane fondamentale: il punto, secondo la mia esperienza personale, è che la nostra società sta smettendo di leggere. Detto meglio, e senza citare statistiche che sarebbero eloquenti ma lasciano il tempo che trovano, le persone non pensano più che la scrittura possa essere una forma di conoscenza che li riguarda, e per 9 persone su 10 la lettura di un libro -di qualunque genere- è scaduta a semplice hobby. Ricordo un articolo di Odifreddi, di non più di un anno fa, nel quale si sferrava un inverosimile (e in realtà alquanto sgangherato) attacco alle “lobby umanistiche” e all’inutilità dello studio letterario, vero e proprio spreco di forze a fini archeologici e anche di sapore vagamente aristocratico (secondo l’autore).
Lungi dal gridare alla morte dell’umanesimo, credo che se non si mette mano a questo livello della questione il discorso su critica e pubblico rischi di risolversi in nulla, o di rimanere una riflessione per pochi. Del resto Casadei cita le apprezzabili iniziative che si sono rese possibili grazie a internet, ma vorrei sottolineare che i visitatori dei siti e dei blog letterari (anche di questo) sono per lo più quei felici pochi che una certa autonomia critica l’avevano già salvata.
Questa faccenda di come si costruisce un pubblico, non solo per la letteratura ma anche per la filosofia, è qualcosa su cui mi sono a lungo interrogato. Poi ho rinunciato. Un pubblico non lo si può costruire se la situazione del paese è quella che è: se, nel caso nostro, c’è un oligopolio che comprende case editrici, distribuzione, librerie, giornali, premi letterari, e così via. Dovrebbe cambiare il paese: ma di ciò non si vede neanche il barlume. L’unica possibilità, per avere un pubblico un po’ ampio, sarebbe farsi cooptare dalla cosiddetta grande editoria. Non è impossibile, ma bisognerebbe accettare dei compromessi non sempre onorevoli. E allora? Non è meglio restare con i nostri venticinque lettori anziché prostituirsi?
Ringrazio intanto per questi primi interventi, giustamente anche polemici. Come possono testimoniare gli amici di “Le parole e le cose”, mi ero proposto di scrivere un post che facesse davvero discutere, e vorrei far continuare questa discussione il piu’ possibile prima di re-intervenire.
Intanto però chiarisco che, in alcuni assiomi, io non sto esprimendo una mia posizione, ma riporto quello che è il ragionamento nascosto di molta ‘logica’ commercial-culturale contemporanea. Altre affermazioni, nella loro brutalità, vogliono appunto rispondere a posizioni vulgate altrettanto brutali, benché spesso accettate implicitamente.
In ogni caso, non è un post che voglia proporre una metafisica del mercato; si vuole invece ragionare insieme sulla prassi.
Non credo affatto che il problema sia la mancanza di pubblico o di critica. Semmai è il contrario… A meno che non si stia sostenendo che ci sono maree di scrittori di genio non pubblicati, cosa che io non credo. Il problema è, secondo me, che ci si sta rammaricando del fatto che il mercato fa il mercato, in genere vende manufatti prodotto in serie alla portata dei bisogni degli acquirenti. Si vorrebbe forse un mercato che vendesse ciò che i clienti non vogliono? O un mercato drogato sostenuto da finanziamenti statali a favore della cosiddetta qualità? Mi sembra che questa seconda ipotesi è quella che garba di più a gran parte dei critici impegnati. Così, ancora di più, sarà lo Stato a decidere ciò che è arte e ciò che non lo è. Invece cosa è arte e cosa no si è sempre deciso per altre vie, di solito minoritarie, e c’è sempre voluto tempo per affermarne il valore, almeno decenni. Piuttosto, insisto nel dire che bisogna trovare il sistema di far costare di più i libri a maggior tasso artistico, come per i quadri, dove una crosta costa 10 euro e un quadro vero 10.000, o 100.000. o 1.000.000 ecc Sogno anche libri scritti per essere esposti, invece che pubblicati industrialmente; o scrittori che avendo già un buon reddito pubblicano direttamente su internet i loro lavori; anche scrittori anonimi, contrari per principio alla visibilità mediatica, tipo Elena Ferrante. Un altro sogno, mi viene spontaneo: scrittori e artisti di successo mediatico che investono i loro guadagni, oltre una certa soglia, in iniziative editoriali minori (senza volerci necessariamente guadagnare a loro volta, se no si sarebbe alle solite…)
“Piuttosto, insisto nel dire che bisogna trovare il sistema di far costare di più i libri a maggior tasso artistico, come per i quadri, dove una crosta costa 10 euro e un quadro vero 10.000, o 100.000. o 1.000.000 ecc”. (Larry Massino)
Questo francamente mi sembra illogico a prescindere da quale sia la posizione di ognuno sull’industria editoriale e sui suoi molti difetti: in che modo il fatto di essere costosissimo affermerebbe o preserverebbe il valore, per dire, dei “Fratelli Karamazov” o della “Recherche”? Sono d’accordo sul punto di partenza, e cioè che non ci si può lamentare dei difetti del mercato, visto che questi “difetti” sono semplicemente le sue normali regole di funzionamento, ma la soluzione a questa impasse non credo che sia nel trasformare la letteratura in arte da collezionisti o nel distruggere la figura dell’autore (inteso come colui che mette sulla copertina nome e cognome, o al limite pseudonimo). Tra l’altro, il collezionismo di forme d’arte come la pittura o la scultura deriva da una caratteristica che la scrittura non ha, vale a dire l’unicità: un certo quadro di Monet ha un prezzo elevatissimo perché ne esiste uno solo, mentre la letteratura vive di diffusione e riproduzione. Un romanzo o una raccolta di poesie prodotta in copia unica non ha nessun senso.
Piuttosto, potrebbe essere di qualche utilità lavorare sulle regole dell’editoria: visto che per pubblicare un libro servono soldi, e non si scappa (chiedo scusa per la brutalità, ma trovo che i discorsi poetici qui non portino a nulla: possiamo anche fare gli asceti della situazione, ma è una verità indiscutibile che la nostra esistenza collettiva sia sottoposta al denaro, e se qualcuno domani cominciasse a distruggere i propri averi la maggior parte di noi lo considererebbe pazzo e si degnerebbe di mandarlo in psicoterapia), converrebbe forse raffinare il sistema delle leggi di mercato per creare aree a regime speciale, che consentano agli editori di sganciarsi in parte dalla lotta all’ultimo sangue della concorrenza.
RRLyrae chiaramente le mie sono cazzate (sogni). Però, mi scusi, chi impedirebbe a uno scrittore o a un editore di produrre poche copie e venderle (se gli riesce) a caro prezzo? Potrebbe anche essere che uno scrittore vende un manoscritto a un privato, più o meno mecenate, con la clausola che se ne pubblichi anche una versione gratuita su internet. Lo so che son cose semplici difficili da realizzare. Ma se qualcuno ci riuscisse (o semplicemente ci provasse), cosa ci sarebbe di male?
La mia idea è che sarebbe insensato, ma non ci sarebbe assolutamente niente di male, ovvio. Mi viene anzi in mente un affascinante dibattito che si è svolto un paio di anni fa, se non sbaglio, a proposito di un romanzo intitolato “Metro 2033”, una storia fantastico-rocambolesca ambientata in un futuro post-apocalittico, non particolarmente interessante di per sé, ma significativo perché il suo giovane autore lo ha composto pubblicamente sul suo blog, settimana dopo settimana, raccogliendo tutti i suggerimenti dei suoi commentatori fino a creare una vera e propria opera collettiva, che poi ha distribuito gratuitamente su internet.
Il problema, secondo me, è che per trasformare un “caso” in un mutamento generale dei costumi letterari c’è bisogno che si muovano, per così dire, i grandi numeri, cioè che un’innovazione isolata diventi una pratica condivisa. In questo caso si andrebbe direttamente al di là del mercato editoriale, e si realizzerebbe certamente una ristrutturazione importante del campo letterario, che potrebbe anche investire livelli di autorappresentazione nuovi, capaci di resuscitare un pubblico adeguato. Ma temo che stiamo ragionando di utopie…
nell’introduzione al testo si parla della necessità di definire obiettivi concreti e la formulazione assiomatica lascia intendere che si tenti di impostare un discorso a partire da elementi ben chiari; a me però sfugge il senso di base di questo confronto: il fatto che la poesia non venda o non abbia un diffuso riconoscimento, è un problema per chi?
Mi pare che sarebbe il caso di fare una distinzione. Casadei ha proposto una riflessione in tre parti: sul giudizio di valore della critica, sul realismo (categoria non interamente riducibile al romanzo, ma che comunque oggi trova in questo genere capace di essere anche “popolare” la sua concretizzazione più tipica), sul pubblico e l’editoria. Uno – non l’unico, certo – dei fils rouges che lega questi tre interventi mi pare sia il rapporto che la letteratura deve intrattenere con la società, la realtà, i lettori, … (insomma: le parole e le cose).
Le raffiche di Stan/sten (scusa, il calembour era irresistibile, visto che vuoi fucilare parecchie persone…), che bistratta con sarcasmo la constatazione di Casadei sull’irrilevanza storica delle nicchie, di cui ai punti 1 e 2, (sempre che, come mi pare invece di capire dalla risposta, non si tratti di relata refero della voce del mercato editoriale. Ma è solo questo, professore?) mi paiono sintomo di un atteggiamento di vigoroso snobismo, e lo dico senza polemica, visto che anche io non amo la melassa culturale che confonde alto e basso e preferisco nutrirmi del primo. Tuttavia non voler confondere questi due livelli non vuol dire negare anche al secondo diritto di esistenza. Ci sono sempre stati e sempre ci saranno scrittori per felici pochi e scrittori, se non per le masse, per folte schiere di lettori. Mi pare che a queste due categorie vadano applicati criteri di valutazione diversi e mi pare che le riflessioni di Casadei riguardino piuttosto i secondi che i primi (e questi ultimi vanno salvaguardati proprio in quanto esemplari di rara avis). Indignarsi o preoccuparsi perché a leggere i primi non accorrano le folle è comprensibile ma improduttivo, così come indignarsi o preoccuparsi perché i secondi incontrano i gusti di molti. Nella letteratura, credo, c’è spazio per le vertiginose altezze metafisiche degli ermetici o linguistiche dei Novissimi, come per l’affabulazione di Camilleri. La capacità di penetrazione di un testo da parte del lettore è più o meno profonda a seconda della sua costituzione mentale/spirituale: dove alcuni vedono solo metafore incomprensibili altri leggono la trascrizione perfetta di un’intera weltanschauung, dove qualcuno vede solo stereotipi romanzeschi e linguistici qualcun altro riconosce qualcosa di affine alla sua esperienza quotidiana. Questo è sempre capitato. Non si può imporre un autore erto a chi non sente con lui consonanza esistenziale e credo che certe domande e risposte radicali siano sempre state riservate a una minoranza dell’umanità. Forse sarebbe bene, però, che questo non diventasse motivo d’alterigia. (Lo dico in primo luogo a me stesso).
Una volta si leggeva di più o c’erano più persone a farlo? Non sono così sicuro, anche se è difficile dirlo: le sensazioni personali sono sempre troppo idiosincratiche, e d’altra parte guai a credere alle statistiche. A me pare, piuttosto, che una volta la voce di quei pochi che leggevano – che costituivano tutti insieme, scrittori e lettori, una società organica, quella letteraria – fosse più forte, gramscianamente egemonica, tanto più che intorno il frastuono era molto meno intenso. Oggi, paradossalmente, il numero netto dei lettori è forse persino aumentato: cinquant’anni fa in Italia c’era un numero altissimo di analfabeti, oggi chiunque può prendere in mano un libro e leggerlo, foss’anche “Tre metri sopra il cielo”. É peggio il contadino che traccia la X al posto della firma o la ragazzina che s’innamora del protagonista di quel romanzo? Mi verrebbe da dire il primo, per la sua umile dignità, ma so già che sarebbe ingiusto.
Una volta si leggevano opere di miglior qualità? Forse solo le si conosceva nominalmente e riassuntivamente, poiché erano parte fondamentale dell’unica cultura cui si riconoscesse la dignità di questo nome, quella alta, che era mediata in primo luogo dalla scuola. Ma chissà quanti erano i lettori effettivi (e capaci di una profonda e reale comprensione) di alcuni nostri classici, al di là di ciò che l’educazione scolastica imponeva. Non so perché, non riesco a immaginare eserciti di lettori della Gerusalemme liberata o della Vita nuova neanche nel passato. Ecco perché mi pare che i problemi sollevati da Casadei siano di stretta pertinenza pedagogica e didattica: una volta era grazie alla scuola che si diffondeva quella cultura – che come ho detto, però, forse era solo conoscenza nominale e riassuntiva, contenutistica, della letteratura –, oggi non è più così, per varie ragioni (il contenutismo oggi non paga più, la scuola è in difficoltà, la società rema contro, …) e forse da ciò nasce la percezione di un imbarbarimento. Il punto è di che cosa deve occuparsi oggi il nostro sistema educativo: quali autori (concordo con RRLyrae: possiamo fermarci a Pirandello?) e come veicolati? Sapendo comunque che bisognerà trovare un buon compromesso e accettare anche una certa quale medietà della produzione letteraria. Tutto quello che di lì in su riusciremo a strappare (e ci vogliono bravi insegnanti per farlo), sarà un’alta forma di resistenza alla trivialità della realtà (e non è solo da oggi che l’umanesimo ha questo compito).
Sull’editoria: anche io, quando entro in libreria, ho l’impressione che le case editrici seguano ormai più solo la logica mercantile del prodotto commerciale. Poi però mi ricordo sempre che la Mondadori, coi soldi guadagnati con i best seller, continua a finanziare i Meridiani. E mi rappacifico un po’ con il mondo.
Ringrazio per questi ulteriori approfondimenti. Lascio ancora spazio per altre considerazioni, e poi cerchero’ di rispondere almeno ad alcuni degli stimoli che sono emersi. Chiedo ancora, se qualcuno vuole intervenire, di avanzare proposte concrete, sempre che il problema del pubblico in Italia sia sentito come tale.
Temo che parlare di proposte concrete sia difficile finché i rappresentanti dei “desiderata collettivi” restano quelli di oggi: industriali, top manager, alte sfere dei circuiti televisivi o sportivi (ma solo dello sport-spettacolo). Non voglio recuperare la polemica sullo stereotipo del calciatore e della velina, ma finché l’opinione di maggioranza sarà che leggere libri sia – chiedo scusa per la grettezza dell’espressione – “da sfigati” non si potrà mai arrivare a creare un pubblico corposo e soprattutto capace di riconoscere la qualità letteraria dei testi. Nel suo commento D. Lo Vetere si chiede se non sia meglio una ragazzina fan di Moccia rispetto a un contadino analfabeta, ma il punto è che la maggior parte delle fan di Moccia non hanno letto il suo libro, hanno visto il film: il che, a parte essere triste, dimostra che nella percezione comune la lettura è la versione antiquata e faticosa di un’attività che ormai può essere svolta attraverso canali più agevoli e immediati. Certo che siamo più alfabetizzati, ma la maggior parte della nostra società non fa più riferimento alla letteratura come forma di discorso vero sul mondo, e questo deriva almeno in parte dal fatto che i poteri forti del mondo dimostrano sempre più chiaramente (almeno in Italia) il loro disprezzo per la cultura in generale e per quella umanistica in particolare. La mia opinione è che “la gente” non si occuperà mai seriamente di letteratura, e cioè non diventerà mai un pubblico, finché durerà l’ipoteca di questo stato di cose.
@ RRlyrae
mi ha colpito un tuo passaggio ( premetto che uso il tu, se ti dà fastidio lo abbandono ). dici che gran parte della società non fa più riferimento alla letteratura come discorso vero sul mondo. Ora, io trovo affinità tra questo pensiero e l’assunto degli assioni di Casadei, che mi infastidiscono non poco. vorrei sapere non tanto se ciò che sostieni è vero, ma se era vero prima, cioè quando “la gran parte della società eccetera” considerava la letteratura nel modo che tu affermi. soprattutto vorrei sapere cosa significa. perché abbiamo questa presunzione che ci fa credere di conoscere gli altri?. vorrei sapere se una persona che programma la sua vita per farla combaciare con un appuntamento televisivo ( ammesso che esista, ma credo di si ) non assomiglia a quello che tu stai dicendo non essere più vero. se il fatto che migliaia di persone sognino di entrare nella casa del gf, non somiglia a quanto detto sopra. vorrei sapere @ Casadei se il suo sogno sia o no che il poeta geniale che oggi vende 100 copie sia strafamoso, stravenduto e strapagato. vorrei sapere come si fa a sostenere l’assioma 1, senza provare un leggero senso di ridicolo. e lo dico senza polemica, davvero.
I vari interventi hanno messo in rilievo molte difficoltà di fondo, però innanzitutto vorrei ribadire che il mio primo assunto era relativamente semplice. Perché non esiste in Italia un pubblico sufficiente a garantire una dignitosa diffusione di opere valide, che certo non possono sottostare alle leggi dei grandi numeri ma che in altri Paesi hanno tranquillamente una loro vita autonoma? In termini ancora piu’ semplici: perché negli Stati Uniti un DeLillo vende tot, che è infinitamente meno degli scrittori di bestseller ma comunque è qualcosa, e non è costretto a elemosinare dagli editori, come capita da noi a parecchi scrittori (non solo poeti) di valore?
La creazione di questo tipo di pubblico, cioè di un pubblico in grado di sostenere autori che hanno trovato riconoscimenti in più ambiti (critica, editori lungimiranti, gruppi di sostenitori competenti ecc.), è fondamentale per il nostro sistema culturale. Nel campo di forze letterario attuale, l’insignificanza è dettata solo ed esclusivamente dal brutale parametro delle vendite: che io non rifiuto, ovviamente, ma che dico non essere l’unico da tenere in considerazione. Però, non posso accettare che un grande editore mi dica “Beh, io posso fare anche Zanzotto, che vende 500 copie, tanto me lo ripago con le vendite di X”. Cosi’ no. Zanzotto deve vendere 5000 copie, detto in maniera dignitosa, perché in Italia c’è un pubblico adeguato che sa che leggere l’ultima opera di un autore importante non è uno svago per pochi eletti, ma un’azione culturale e magari politica di estremo significato.
E’ chiaro che la letteratura in genere non può più aspirare a essere la forma d’arte più seguita e centrale nell’ambito delle interpretazioni del mondo. Ciò non toglie che non siamo ancora in un mondo de-letteraturizzato, e che l’efficacia interpretativa di un Tolstoj, un Proust, uno Celan, un DeLillo è ancora inarrivabile. Per questo sento anch’io fortissimo il problema del rapporto con le scuole e con le letture proposte dagli insegnanti. Spesso, comprensibilmente, si reagisce ai vincoli dei programmi troppo datati e impositivi facendo leggere l’ultimo bestseller, che sia Camilleri o Giordano non importa. E’ evidente che si dovrebbe fare altro: io mi sono impegnato nella scrittura di manuali scolastici e universitari perché credo nell’importanza degli strumenti disponibili, ma poi bisogna anche convincere gli insegnanti ad andare oltre Pirandello e Montale (degli “Ossi”, in genere gia’ le “Occasioni” sono un problema). L’unica soluzione che vedo è concordare il più possibile, all’inizio dell’anno scolastico seminari p.e. sugli anni Sessanta, periodo fondamentale per la comprensione dell’oggi e invece regolarmente trascurato, benché ampiamente storicizzabile. Far riflettere davvero sulle dinamiche della pop art, dell’industria culturale, sulle interferenze alto-basso, modello europeo-statunitense/sovietico/postcoloniale ecc. è davvero un modo per avvicinare gli studenti a problemi che poi dovranno affrontare nell’oggi, in tutti i settori del sociale. E così si può sperare che almeno una parte cominci a costituire quel pubblico di cui sopra.
Anche le iniziative in internet hanno una notevole importanza, se riescono a fare sistema. Come si sa, con Andrea Cortellessa, Massimo Gezzi, Guido Mazzoni e oltre duecento lettori io lavoro per le Classifiche di pordenonelegge-Dedalus. So bene quante critiche sono state rivolte a questa iniziativa, e senz’altro la si può migliorare. Però sarebbe importante che fosse sostenuta come punto almeno di confronto concreto, per chi vuole leggere ‘fuori dagli schemi’. Il premio Dedalus, ormai arrivato alla quinta edizione, voleva e vuole premiare opere significative, al di là delle propensioni specifiche dei singoli: nel 2011, i vincitori sono stati Franco Arminio, Milo De Angelis e Massimo Rizzante, esponenti di idee di letteratura molto diverse, ma comunque autori di alcuni fra i libri più importanti negli ultimi anni fra prosa, poesia e saggistica. Non so quanto questo premio abbia significato nel campo editoriale, però potrebbe comunque essere considerato un segnale importante. Ma si torna al problema di partenza: manca ancora un pubblico sufficientemente ampio per sostenere queste o altre iniziative simili. Un autore americano che vince il “Pulitzer” il pubblico lo trova di sicuro: non per imitazione passiva, ma secondo me bisognerebbe arrivare a una dinamica di questo tipo, cercando il più possibile di riunire tante microrealtà in una più grande e incisiva nel campo di forze attuale.
@ Dfw vs Jf (diamoci del tu senza problemi)
Innanzitutto vorrei fare due premesse. La prima è che io non credo che una persona vada in libreria (o accenda la televisione, o vada al cinema) con lo scopo di cercare un “discorso vero sul mondo”. Questa è solo una formula sintetica che ho usato, anche in riferimento ad altri interventi pubblicati su questo blog, per esprimere un concetto complesso che, detto in parole povere, riguarda il rapporto tra il modo in cui le persone percepiscono il proprio mondo e il modo in cui certe forme riescono a rappresentare questa percezione. La seconda premessa è che nessuno può affermare di sapere quale preciso atteggiamento letterario avesse ogni singolo lettore dei due secoli e mezzo precedenti, possiamo solo sapere qual è stato – più o meno – l’effetto generale di questi infiniti atteggiamenti. Detto questo, a me sembra abbastanza evidente che oggi la cultura, intesa nel senso più generale, non sia più considerata come qualcosa di “significativo”. La mia idea è che la letteratura, in virtù della sua forma (forma materiale, intendo, cioè linguistico-verbale), sia l’arte più capace di rappresentare certi contenuti profondi della nostra esistenza e soprattutto di riflettere su di essi. Solo che il cambiamento del mondo, e l’evoluzione delle sue mitologie interne, ha portato questa forma a scadere nell’opinione comune, nonostante il suo valore intrinseco sia ancora lo stesso (in questo senso non condivido l’idea della cosiddetta morte del romanzo). Aggiungerei, in termini molto concreti, che l’avvento e l’esplosione di nuove forme espressive di massa non è un dato secondario in questo discorso: per molto tempo la letteratura ha avuto il “vantaggio” di essere (forse insieme solo al teatro) l’unica arte accessibile a un pubblico vasto, e questo ne faceva, in un certo senso, la via preferenziale delle grandi costruzioni di senso condivise. Oggi queste costruzioni passano attraverso altri mezzi, e di conseguenza la letteratura è percepita diversamente. Che poi questo sia un peggioramento in senso assoluto forse non siamo autorizzati a dirlo, ma la questione del pubblico e del “qual è il problema se uno scrittore non vende” è che, se la letteratura si avvia verso il solipsismo, di fatto noi perdiamo uno dei nostri strumenti di comprensione della realtà, e con esso tutta quella parte di verità che solo il discorso letterario è capace di portare alla luce.
Per quanto riguarda le aggiunte di Casadei, concordo sull’importanza dei premi letterari, ma da quello che mi sembra di vedere, almeno in Italia, sotto l’etichetta “premio letterario” finiscono iniziative così diverse e di valore così imparagonabile che ci sarebbe bisogno di una vera e propria rivoluzione per fare chiarezza: è evidente che, ad esempio, il premio Dedalus e il premio Strega non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro in termini di criteri di selezione, ma io non penso che un lettore non accademico sia (o debba essere) necessariamente informato su tali criteri, e questo, visto che basta così poco perché l’unica mela marcia faccia marcire tutto il cestino, non depone a favore del valore dei premi in generale. Torno a pensare che sia dal mondo editoriale che deve partire un cambiamento.
Penso che purtroppo tanti di noi vanno in libreria per cercare un discorso vero sul PROPRIO mondo, che li confermi come soggetti centrali…
Per il resto, beati coloro che hanno così fiducia nelle capacità autoriformatrici del sistema (che invece ha ragione Stan, troppi, compresi i socialmente impegnati, hanno interesse che le cose rimangano paro paro come sono). Io di fiducia non ne ho nessuna. Ritengo che finché i grandi editori faranno soldi comportandosi criminalmente, continueranno ad applicare i loro metodi e non si smuoveranno di una virgola. La verità vera, infatti, è che la Mondadori – di questo si tratta… – sfrutta le pieghe del sistema economico e la mancanza di regole, che gli consentono di violare le più elementari leggi del capitalismo, che se correttamente applicate impedirebbero le concentrazioni proprietarie (non sta né in cielo né in terra che si possa produrre, distribuire e vendere allo stesso tempo qualsiasi prodotto editoriale, compresi i cosiddetti gadgets; per di più facendo direttamente la raccolta pubblicitaria, che condiziona a sua volta io mercato editoriale).
Peraltro, con gli utili degli scrittori best seller, la Mondadori ci farà anche i qualitatevoli Meridiani che rappacificano il commentatore Lo Vetere (compreso il Meridiano dedicato a Eugenio Scalfari?), ma gli c’entra pure di permettersi perdite milionarie coi fogli propagandistici del partito di famiglia – Panorama, e, per quanto concerne la propria quota azionaria, Il Giornale, ciò che avviene pure grazie ai soldini guadagnati imponendo al mercato i testi del rivoluzionario Roberto Saviano…
Gli è un casino… Per fortuna, direi. Gli interessi in campo sono molteplici, e assai diversi tra loro. Ci sono le imprese editoriali che debbono produrre utili; ci sono i critici e professori di letteratura (o aspiranti) che debbono fare le loro carriere negli atenei e nelle redazioni giornalistiche, in gran parte garantiti dagli stipendi universitari; ci sono infine gli scrittori, che in questo sistema sono all’ultimo gradino, gli unici non garantiti, sopra di tutto quelli più difficili, a partire dai poeti. Allora, non sarebbe il caso di cominciare a immaginare che da un certo punto in poi ci va bene uno Zanzotto che vende 500 copie, purché dotato di cattedra universitaria? Penso sarebbe andato bene anche a Zanzotto, sopra di tutto andrebbe bene agli eventuali Zanzotto ancora vivi… E in questo senso domando ancora, più in generale: non sarebbe il caso di mettere in concorrenza tra loro scrittori e professori anche per quanto riguarda l’ottenimento delle ben pagate cattedre universitarie? Gente come Giuseppe Montesano e Marco Lodoli, per esempio, non meriterebbero di essere promossi d’ufficio da insegnanti di scuola media a cattedratici, consentendo loro una superiore pace economica, che andrebbe forse a vantaggio del valore sperimentale delle loro opere future? (con questo non dico che si dovrebbe retrocedere qualche critico al ruolo di insegnante di scuola media, ma se dovesse succedere, non ne farei una tragedia)
Vorrei anche dire che quasi tutta l’arte che conosciamo, a partire dalla letteratura, si è diffusa attraverso piccole nicchie elitarie, e che non è veritiero affermare che oggi si legge meno di ieri, quando pure c’era l’analfabetismo. Si potrebbe magari studiare la curiosa circostanza che la grande letteratura, a cavallo tra ottocento e novecento, si è prodotta in assenza della massa dei lettori, che, per l’appunto, concedevano agli scrittori la grazia di essere circondati da analfabeti che li ammiravano, mica come ora che leggono tutti e criticano tutti…
Vorrei infine dire, di nuovo al commentatore RRLyrae, che non è affatto vero che di ogni opera di Monet ne esiste una sola: al contrario, esiste quello originale ed esistono le riproduzioni. Uguale uguale ai libri, dove chi possiede l’originale, in questo caso i diritti sul manoscritto, gode dell’usufrutto economico e sociale, al contrario di chi possiede le copie stampate industrialmente.
@ RRLyrae
grazie per la risposta. Forse ho compreso meglio la parte sul “discorso vero sul mondo”, per quanto mi pare che in genere chi legge molto non crede possibile che questo effetto sia possibile con altre forme, e che poi sia indispensabile o almeno importante per chiunque. A me l’idea che DaLillo sia considerato un interprete inarrivabile fa onestamente ridere. Noi siamo così convinti di queste assurdità che poi ci lamentiamo se il resto del mondo se ne frega tranquillamente ( e fa bene! ). Se devo abbozzare una dilettantesca analisi della società, per quanto riguarda l’importanza che diamo alla cultura, direi che se ci riferiamo allo strato popolare la cultura serviva e comunque in certi casi serve anche oggi per trovare un buon lavoro, per vivere meglio. A parte che questo significa dare un prezzo alla cultura, poi siamo sempre al discorso che si decide sempre da una parte cos’è che fa cultura. se Zanzotto non vende abbastanza, urge istruire (o indottrinare) il pubblico affinché crescendo leggerà Zanzotto. A nessuno viene in mente che Camilleri e Mazzantini e Giordano scrivano opere valide, e che diano buone sensazioni ai lettori, e gli permettano di leggere parte di mondo, di trovare spunti interpretativi?
che a scuola vadano cambiati i programmi cosa c’entra con il discorso su critica e pubblico? siamo sommersi di libri, pure il più scalcagnato programma televisivo se ne occupa. il pubblico non è mai stato ampio come oggi, ed è anche per questo che molti autori fanno fatica a farsi leggere, semplicemente perché è difficile venirne a conoscenza, e c’è un’offerta più che abbondante. e non sto dicendo che ce n’è troppa, che non significa nulla. però noi voglamo il pubblico adatto, che diamine. geneticamente modificato o bio ( questa distinzione come anche quella fra alto e basso in letteratura, non ha senso )? il pubblico adatto è come l’indiano morto, è quello che piace a noi. dopodiché se Zanzotto nn sfonda, non è che possiamo tirare dei pipponi sui mali del mondo e il declino della nostra società. nella mia ignoranza sono anni che leggo proposte per “la critica”. un conto è auspicare che ci siano più lettori di un certo tipo di libri, e un conto è ritenere che solo i libri che piacciono a noi sono validi.
al punto 10 c’è una domanda: per curiosità qualcuno mi può rispondere quali sono ‘sti benedetti autori? e rappresentativi di cosa?
Chiedo scusa se prendo di nuovo la parola, ma questa discussione solleva spunti che meritano attenzione. Voglio chiarire che, sostenendo che il cambiamento deve partire dal mondo dell’editoria, non intendevo dire che mi aspetto che le case editrici si autoregolino a proprio danno: mi riferivo al fatto che nel nebuloso (ma poi non così tanto) mondo dell’editoria si annida il grosso dei problemi di cui stiamo parlando. Poi ci sono vari livelli che io non confonderei, in primo luogo quello delle cattedre accademiche: uno scrittore di valore non è (e non credo debba essere) automaticamente un professore universitario solo in vista della tranquillità economica che gli consentirebbe di coltivare il proprio genio. Del resto, tanti dei più grandi scrittori della modernità occidentale hanno lavorato in condizioni proibitive, e questo non ha impedito loro di comporre opere non solo di valore, ma anche estremamente popolari (basti pensare a Balzac o a Dostoevksij). E non confonderei neanche il discorso della popolarità con quello della qualità: l’ottenimento di un vasto successo di pubblico non dovrebbe venire immediatamente interpretato come un segno di scarso valore dell’opera, come invece spesso accade, né il fatto che oggi ci sia un’offerta esorbitante di scritture di tutti i generi come un sintomo del decadimento dell’arte in generale.
Il discorso dei programmi scolastici entra in gioco perché nelle scuole essenzialmente non si insegna la critica, ma la storia della letteratura, e solo fino a un certo punto. La conseguenza è che il contemporaneo viene visto come una sorta di mare magnum in cui a pubblicare sono i più astuti, i più raccomandati, e quelli che hanno la fortuna o la prontezza di scrivere opere che si presentano bene, cioè appaiono particolarmente vendibili. Paradossalmente c’è un pubblico molto più preparato sul “classico” che sul contemporaneo, come se in qualche modo, mancando quel verdetto apparentemente indiscutibile che è la prova del tempo, la pretesa di qualità andasse scemando man mano che ci si avvicina agli scrittori d’oggi.
Penso che il “pubblico adatto” non esista. In teoria, ogni autore e persino ogni opera richiede un pubblico adatto, di volta in volta diverso, ma non ha nessun senso che ogni penna che si mette a scrivere pretenda di essere sostenuta da una quota minima di “pubblico adatto”, come se un ordine superiore dovesse garantire a priori un numero essenziale di lettori a chiunque. Quello che si dovrebbe cercare di ottenere, però, è un pubblico per lo meno consapevole, adeguatamente informato del fatto che certi livelli profondi della letteratura in primo luogo esistono, e in secondo luogo si trovano anche nelle opere scritte oggi, se uno è capace di riconoscerle dalla massa delle altre. Il che non delegittima minimamente, e ci tengo a sottolinearlo, l’esistenza di forme e generi letterari che stiano su altri livelli, e con altri intenti. E’ inaccettabile (per me) che si preferisca il best seller di una stagione a un autore di valore, ma se l’editoria fosse regolata in modo da garantire la pubblicazione di entrambi, francamente non me la prenderei per il fatto in sé che poi il best seller incassi milioni e l’autore di valore no. Se il pubblico – adeguatamente preparato – ha decretato il successo del primo a scapito del secondo, forse vuol dire che quest’ultimo non è riuscito a esprimere contenuti così universali come sembrava, e bisogna prenderne atto. Tutta la storia dei generi letterari in fondo è fatta di alternanze che dipendono da quanto bene certe forme rispetto a certe altre riuscivano a intercettare certe esigenze. Ma a decidere questo deve essere un pubblico, ripeto, adeguatamente preparato.
Torno un’ultima volta sul punto dell’alfabetizzazione: non è che oggi leggiamo meno in valore assoluto, ma in valore relativo sì. Mentre prima tutti quelli che sapevano leggere leggevano, oggi tutti sanno leggere ma in pochi lo fanno, e pochissimi lo fanno con un interesse serio. Mi permetto di esprimere una sensazione, ma ci tengo a sottolineare che lo faccio senza il minimo intento polemico, come pura constatazione, e mettendomi in prima persona nel mucchio: la sensazione è che noi che stiamo discutendo qui, proprio perché lo stiamo facendo, rischiamo tutti di avere senza saperlo un difetto di vista “letteratocentrico”, che forse ci fa dare per scontato che l’umanità (giovane e meno giovane) che popola le facoltà umanistiche valga come campione rappresentativo del pubblico in generale. Personalmente credo che su questo punto valga la pena di riflettere un po’ più attentamente.
A nessuno viene in mente che Camilleri e Mazzantini e Giordano scrivano opere valide, e che diano buone sensazioni ai lettori, e gli permettano di leggere parte di mondo, di trovare spunti interpretativi?
no.
la risposta intende rivolgersi non solo alle notazioni dell’utente cui appartiene la citazione.
a una lettura attenta e ponderata, cioè la lettura che un qualsiasi testo ritenuto “letterario” esige, questi testi posseggono delle specifiche validità che offrono spunti interpretativi per una comprensione (o una prospettiva) di alcuni aspetti dell’esistente, della percezione dei lettori contemporanei, delle dinamiche editoriali e autoriali.
i testi dei tre autori citati però non posseggono validità letteraria notevole: non sono, pur avvalendosi sovente di strategie e prospettive della letteratura, testi di grande valore, non possono essere accostabili, per complessità, spessore, profondità di visione, né ai testi letterari del passato né ai testi letterari di oggi (un elenco sarebbe lungo, ma si può dare senza problemi, se si vuole …). allo stesso modo in cui i testi di liala o di pitigrilli non sono stati considerati letteratura in passato e non lo sono, ovviamente, neanche ora.
credo che da questa interpretazione “assolutistica” e canonizzante debba inquadrarsi il discorso di casadei, che, per inciso, mi sembra un po’ più complicato del “ritenere che solo i libri che piacciono a noi sono validi”. definire un canone è necessario perché, in primo luogo, l’apprendimento della letteratura parte da una scelta pregressa fatta a scuola. nel momento di discutere sull’opportunità o meno di “imporre” autori e testi “rappresentativi” nel panorama odierno, teniamo presenti due cose:
1)su tale imposizione (ogni didattica è una violenza, credo lo dica velatamente anche… zanzotto in IX Ecloghe) si basa la formazione letteraria delle persone che ci seguiranno, che devono col nostro aiuto imparare la letteratura.
2)la mancanza di un insegnamento forte sulla contemporaneità italiana (si intenda: dopo la seconda guerra mondiale) è un danno culturale incalcolabile, che al momento può essere sopperito solo da corsi pomeridiani facoltativi. ne feci uno, al liceo, e ne sono grato. ma non si può sopperire a tale lacuna con scelte arbitrarie e tanto soggettive, bisogna agire più a fondo e subito, prima che sia più tardi.
Vorrei intervenire in questo dibattito che in parte riguarda il mio lavoro. Sono insegnante di lettere in un istituto tecnico. Attualmente mi dibatto tra i nuovi programmi, che ci sono stati imposti dalla riforma Gelmini (più che programmi, in realtà, sono linee guida), il nuovo orario (dall’anno prossimo le classi di triennio avranno quattro ore settimanali di italiano anziché tre com’è stato finora) e i nuovi libri di testo, belli, ricchissimi, ambiziosi e più o meno impraticabili. Tutto ciò sta mettendo in discussione il modo in cui ho lavorato fino a ora e il senso stesso del mio lavoro. Senza divagare vengo a un punto che è emerso dai commenti a questo e altri post: che autori, specialmente recenti, la scuola secondaria debba proporre ai ragazzi. Devo ammettere che è una questione alla quale non riesco a dare una risposta certa. Le indicazioni ministeriali sono vaghe, le proposte dei testi scolastici sono straordinariamente vaste, gli studenti, salvo eccezioni, sono scarsamente interessati alla letteratura, materia della quale non comprendono l’utilità; si propongono loro “i classici”, facendosi forti di una considerazione che convince poco noi docenti per primi, e cioè, grossomodo “Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi… sono irrinunciabili”. Si arriva al Novecento nell’ultimo anno, ma solo verso questi tempi si riescono a superare i fatidici Pirandello e Svevo: siamo alla fine di aprile… non è una scelta ma semplicemente una tempistica. Io chiudo sempre il mio percorso con Montale. Mi ricordo che quando andavo a scuola (primi anni ’70, liceo classico) concludemmo con Montale. La nostra insegnante ci fece comprare Satura, appena uscito. Mi rendo conto che dopo quarant’anni propongo gli stessi autori che mi proponeva allora la mia prof, che durante tutto questo tempo la percezione dell’importanza della letteratura nella scuola si è affievolita notevolmente, che d’altra parte il problema dell’insegnamento di materie come italiano o storia non può essere risolto accumulando nuovi autori, o eventi, al monte di quelli precedenti… Forse, quando avrò un’ora in più anche in quinta, potrò fare qualcosa di più… Infine: a parte Calvino o Gadda, a parte Fortini, tutt’altro che novità, esistono degli autori italiani più recenti che davvero si possano considerare “necessari”, “irrinunciabili”, o si tratta solo di assecondare un ghiribizzo estemporaneo e proporre la lettura di qualche romanzo in base al proprio gusto o all’estro del momento?
pasolini, sciascia, volponi, moravia, morante fra i prosatori, luzi, caproni, pasolini, zanzotto, giudici, la neoavanguardia. a parte calvino e gadda, e fortini, esistono questi, tanto per cominciare. sono altrettanto recenti di quelli citati, ma non meno importanti da insegnare a scuola
Casadei chiede:
“quali sono i narratori e i poeti italiani (e non solo) attualmente più rappresentativi?”
Dfw vs Jf rilancia:
“al punto 10 c’è una domanda: per curiosità qualcuno mi può rispondere quali sono ‘sti benedetti autori? e rappresentativi di cosa?”
marisa salabelle insiste:
“a parte Calvino o Gadda, a parte Fortini, tutt’altro che novità, esistono degli autori italiani più recenti che davvero si possano considerare “necessari”, “irrinunciabili”, o si tratta solo di assecondare un ghiribizzo estemporaneo e proporre la lettura di qualche romanzo in base al proprio gusto o all’estro del momento?”
Considerato che è ritenuto (a ragione, sia chiaro) così facile spiegare perché Camilleri e Mazzantini e Giordano (e tanti tanti altri) “non posseggono validità letteraria notevole”, non dovrebbe essere arduo rispondere all’interrogativo.
E allora, che aspettate?
Il canone, vogliamo il canone!
@alessandro
nel mio post di sopra ci sono almeno dieci nomi validi, cui aggiungerei fenoglio, che ho scordato e che (vergogna) a scuola non viene toccato di striscio. già se questi fossero parte integrante del programma di una scuola superiore, la discussione critica sugli “assiomi” potrebbe dirsi parzialmente risolta.
autori ancora più recenti? basta prendere un sito di letteratura contemporanea valido, una classifica cartacea o su internet, e verificare da soli. non c’è UN canone fisso, c’è una costellazione di autori più o meno interessanti che è mobile e sfaccettata. il canone, a partire dalla costellazione, si forma in base ai gusti del lettore: credo sia ancora troppo presto per storicizzare l’immediato presente (fermo restando che mazzantini e giordano NON vanno studiati per il loro valore letterario).
e qui mi fermo, perché ho scritto già troppo =)
A parte ogni considerazione pratica sulla possibilità materiale di affrontare tutti gli autori che sarebbero importanti per ragioni di tempi e di “capacità di digerire” da parte degli studenti, mi pare che comunque molto più vicino nel tempo non si riesca a venire; gli autori citati da Marchese sono grossomodo tutti autori che conosco da quando andavo alle superiori e all’università; quindi rimane il nodo: che cosa c’è di veramente contemporaneo che possa entrare a buon diritto nel canone, che possa avere dignità di “autore davvero importante che i ragazzi devono conoscere”? Perché, quand’ero giovane, quegli autori, anche se molto più vicini a noi di quanto lo siano ora, erano già chiaramente indicati come autori canonici, e dopo decine di anni siamo rimasti sempre a loro? La letteratura italiana non sta più producendo autori veramente rilevanti o siamo noi che non sappiamo più individuarli e ci lasciamo abbagliare da qualche opera che lì per lì sembra eccellente o vien incensata ma alla lunga non convince abbastanza o non convince tutti?
no, un momento. ritorno solo per precisare una cosa.
avevo citato autori già appartenenti al passato perché dal primo intervento di marisa salabelle sembrava che questi non fossero insegnati al liceo (e difatti molto spesso è così). prima vanno insegnati questi, poi, eventualmente, si insegnano autori di oggi. ma a mio parere non è così necessario fare lezioni su autori odierni, basta dare qualche indicazione di lettura. prima, lo ribadisco con forza, poeti e prosatori imprescindibili del dopoguerra, senza i quali il contesto culturale in cui viviamo (e la letteratura “che si fa”) non può essere accostato criticamente.
e poi, le considerazioni di marisa salabelle, che personalmente non condivido, possono essere rovesciate coi nomi di qualche autore contemporaneo. scusi, marisa, si guardi i post di lplc durante le vacanze natalizie, e solo lì troverà una decina di poeti di grande valore (fosse anche discutibile la loro posizione, il loro fare poesia); e per la prosa, pensi a gente come antonio moresco, walter siti, giulio mozzi, aldo busi, gianni celati. tutta gente viva e battagliera: fare un canone su di loro sarebbe impensabile, una forzatura impropria. per ora, ritengo, devono solo essere fatti conoscere, fatti esistere a un pubblico giovane. per insegnarli c’è tempo, a mio avviso.
Moresco, ça va sans dire.
errata corrige 2: *le considerazioni di marisa salabelle che non condivido. in realtà, sono domande: quindi, *domande che mi sembrano fuori fuoco.
@ Alessandro
a me viene in mente una scenetta vista in tv, ambientata in un treno, con walter chiari. c’è un signore con un animale in gabbia però coperto da un lenzuolo, e l’animale si chiama sarchiapone, e walter chiari si spaventa sempre di più, poi alla fine viene fuori che è solo uno scherzo per spaventare la gente e stare più comodi. tu pensi che sia facile spiegare il perché camilleri giordano e mazzantini non posseggono validità letteraria notevole. io penso che sia impossibile, e che se vogliamo possiamo pure crederci alla letteratura, ma esiste solo fintanto che ci crediamo, a differenza dei libri. e soltanto il nostro razzismo ( se non piace razzismo sostituire con fanatismo ) intellettuale ci può far escludere che delle opere non siano valide, non grandi, non notevoli ( termini insignificanti, in un post in cui tral’altro si azzardano assiomi ), solo valide. pensare che si possa dire “questo è letteratura, quest’altro no” appartiene a un modo di pensare che ritengo errato. il fatto che concordiamo su quali siano i grandi autori non ci autorizza a tracciare linee di demarcazione. io comunque ho la terza media e ho 26 anni, e giulio mozzi lo leggo spesso, e basterebbe questo a smentire che non ci sarebbe un pubblico adatto o che i giovani non possano conoscere gli autori “che meritano”.
Non credo che sia giusto parlare di razzismo (o fanatismo, in questo caso è uguale: le parole sono secondarie quando il concetto è chiaro) intellettuale a proposito del discorso sulla validità di un’opera letteraria. E’ indubitabile che ci siano testi più profondi, più “importanti” di altri, e non sta solo al giudizio personale o a una concomitanza di giudizi personali imporre (che tra l’altro è un termine inadeguato al discorso) una scelta. Quello sul canone contemporaneo è un discorso estremamente affascinante e difficile, e non si può certo risolvere dall’oggi al domani. Ma rinunciare del tutto a proporre una selezione è una resa, non un atto di democrazia: ognuno di noi ha i suoi autori preferiti, e trova in certe opere e non in altre spunti che lo colpiscono e lo coinvolgono, e lo spingono a dare un valore diverso ai libri che man mano incontra. Un eventuale canone contemporaneo, sempre che sia possibile accordarsi sul suo contenuto, non può in nessun caso essere imposto: a imporre un canone bastano le scuole, e fino a un certo punto fa parte del loro compito, anche se il fatto che si limitino solo a questo è riduttivo e dannoso. Un tale canone potrebbe solo venire continuamente proposto e continuamente verificato e modificato: io ritengo ad esempio che Walter Siti sia un grande romanziere, un romanziere importante, e mi sentirei di inserirlo a pieno titolo in un canone della narrativa contemporanea. Non significa che lo sto imponendo, ma che sto proponendo ai miei contemporanei qualcosa che io trovo significativo, affinché possano a loro volta valutarlo e confermare o smentire il valore che a me sembra avere. E’ solo su un confronto di questo genere che secondo me si può provare a formare un canone della contemporaneità.
@ Casadei. Io non credo troppo nei manuali, ma non perché pensi che non siano fatti bene. Ho usato una volta, nel mio balletto di precario fra le scuole, il suo e di Santagata “Filo rosso” ed era un bel manuale. Il fatto è che i manuali possono essere uno strumento, ma spesso diventano l’unico. E non intendo per i ragazzi, bensì (ahimé), per alcuni colleghi. Non bastano gli inquadramenti critici che lì sono contenuti per fare una didattica di qualità. Certo, ci sono insegnanti che si aggiornano autonomamente sulla letteratura contemporanea e leggono la critica letteraria (quando non fanno ricerca nelle università), integrando da sé; ma molti vanno di conserva a quello che l’accademia fornisce. L’argomento è troppo articolato e non voglio rubare spazio, mi limito a osservazioni cursorie. Per educare alla letteratura oggi (e quindi per creare il pubblico futuro di cui qui dibattiamo), non si può impostare il problema così: gli studiosi arrivano a una messa a punto critica su un autore, QUINDI si pongono il problema di come mediare quelle categorie agli adolescenti. Temo che non funzioni più. Abbiamo bisogno di una “critica applicata”, e fin da subito, nell’impostazione iniziale del problema, alla didattica. Le categorie critiche spesso non sono psicologicamente significative per i ragazzi e manchiamo fin dal primo lancio l’appiglio alle loro menti e ai loro cuori, alla possibilità di far loro comprendere profondamente. Mi spiego: a me piace moltissimo Il cortegiano di Castiglione e quando ho avuto una quarta l’ho fatto insieme a Della Casa, La Rochefoucauld e i Pensieri di Leopardi, con entusiasmo. Ora, se cerco di spiegare che in esso è contenuta una rappresentazione idealizzata e nostalgica della corte del passato, fermandomi a ciò, come spesso facciamo, anche solo per ragioni di tempo, per quante parole potrò usare, al massimo otterrò che gli studenti comprendano il concetto nella sua letteralità e me lo ripetano: quel nodo storico-critico per loro è insensato. Potrebbero capirlo solo riflettendo (e vorrei dire provando sulla propria pelle) sul senso di nostalgia per un mondo che non c’è più, scoprendo il nostro bisogno di idealizzare il passato, il senso d’esilio da qualcosa d’armonico e perfetto. Non sono forse queste categorie (psicologiche? esistenziali? antropologiche? culturali?) a dare rilievo a quelle storicizzate nel Cortegiano? Non dovremmo lavorare prioritariamente su di esse e da esse derivare il resto? Non è quello il senso (uno dei sensi) della letteratura?
Mi attrae invece molto di più la proposta di seminari tra insegnanti universitari e medi. Solo insegnanti rimotivati, aggiornati, partecipi (e ascoltati: siamo protagonisti, non comparse cui consegnare le ultime sullo stato dell’arte perché facciano da cinghie di trasmissione) possono fare una buona didattica. Anche con i manuali. Aspetto con ansia l’ingresso dei professori universitari nelle scuole superiori. E vorrei che ci entrassero spesso, con continuità. Così eviteremmo l’improntitudine di chi dà da leggere Giordano al posto dei Promessi sposi per noia. Io non voglio sfuggire dal canone: ci voglio star dentro, ma da figlio del mio tempo. Putroppo, per ora, nella scuola i corsi di aggiornamento sono fatti solo su problemi collaterali alla didattica propriamente detta, come i disturbi specifici dell’apprendimento, le norme sulla sicurezza, ecc… il che dà la misura del rischio di deserto culturale. Si procede grazie ai guizzi e alla forza di volontà dei singoli: il sistema intorno chiede altro.
@ Dwf vs Jf. La discussione sulla scuola è STRETTAMENTE connessa a quella sulla critica e il pubblico (ecco perché negli Assiomi se ne parla): il pubblico va creato ed educato, e la scuola è una delle agenzie deputate a ciò; la critica stabilisce dei criteri di valore e dei canoni, che si riflettono poi sulla didattica.
@ Larry Massimo. Mi rappacifica anche il Meridiano a Scalfari. Sono usciti anche altri Meridiani dedicati al giornalismo e, nell’ottica dell’aprirsi alla contemporaneità invece che chiudersi e costruire muri e recinzioni, non mi scandalizza che si canonizzino anche quelli che sono ritenuti essere i migliori di quel “genere” che è l’elzeviro. Si può discutere se Scalfari o non piuttosto un altro, ma non vedo perché dire no a prescindere a un giornalista. Ripeto: c’è spazio per tutti. Poi se mi si dice che Scalfari è più degno di memoria postuma di Fenoglio (eh sì, nel canone non lo si poteva dimenticare…), allora non ci sto più neanche io.
Un paio di visioni stronzette:
la critica critica, la scuola esegue, affinché un giorno nessuna persona intervistata a caso dal tg1 non saprà rispondere come si deve sul geniale poeta
per fortuna i critici non contano un cazzo, a skuola non si fa un cazzo ( nonostante le continue torture canoniche ) e il “pubblico” vive serenamente con i libri che più gli piacciono. Il poeta geniale non se ne duole.
@ Daniele Lo Vetere
sono d’accordo, io mi riferivo, probabilmente in maniera non comprensibile, al fatto che l’educazione vale a prescindere dal tipo di pubblico che si andrà a sviluppare ( comunque sarebbe il caso di ammettere che il pubblico è un concetto ancora più labile di quello di letteratura per come la intendete voi. Per me anche Liala è letteratura, io non sono razzista ). Ovvero, anche dopo che si sia lavorato in maniera egregia, la situazione può benissimo risultare identica a quella odierna. A me pare triste che si facciano raffronti tra la situazione in cui DeLillo vende abbastanza ed è abbastanza riconosciuto e invece i nostri no. Possiamo provare dispiacere nel credere che molta gente non sappia cosa si perde, ma è più rispettoso e più realistico ammettere che la gente non si sta perdendo niente, sia chi non legge attualmente, sia coloro che leggono. L’intento della scuola superiore dovrebbe essere quello di trasmettere amore, curiosità eccetera per la conoscenza e la cultura, intesa come qualsiasi tipo di sapere trasmesso. L’idea che la cultura stia in certi libri e non in altri è un pensiero arbitrario privo di fondamento che non può e non deve essere insegnato. Formare studenti che amino leggere, o qualsiasi altra forma d’arte, non formare studenti che andranno verso determinate opere, per dimostrare che si è seminato bene. Finché ci saranno persone che credono in frasi come “letteratura con la elle maiuscola” la scuola non avrà fatto un buon lavoro. Finché continueremo a parlare in termini quantitativi di letteratura, ovvero tizio è un grande autore, caio è uno minore, la scuola non avrà fatto un buon lavoro.
@ RRLyrae
sono d’accordo anch’io che un canone sia praticabile, ma così cambi le carte in tavola. Ritenere che alcune opere non abbiano validità letteraria, non poca o tanta, nessuna, come si afferma nell’assioma 1 e come altri hanno affermato a proposito di Camilleri Mazzantini Giordano è un’ operazione arbitraria che non poggia su nessuna base oggettiva. C’è solo l’accordo di un certo numero di persone. Questo dalle mie parti si chiama razzismo, o fanatismo.
sì vabbeh, razzismo, fanatismo, tutti uguali, tana libera tutti, ciao eh
da far cadere le braccia, davvero
Per Dfw vs Jf
Guardi che scrivere “non posseggono validità letteraria notevole” non significa dire che “non sono letteratura”. La chiave sta nell’aggettivo, mi scusi.
Liala, Mazzantini, Giordano sono ovviamente letteratura. In questa discussione qualcuno ha semplicemente sostenuto che esistano scrittori che hanno “prodotto” letteratura migliore. E che da un lato dispiace vedere che questi secondi non trovino un pubblico numericamente significativo, dall’altro si ipotizza che agli studenti sia eventualmente più produttivo, ai fini della formazione di un tale pubblico, proporre i secondi rispetto ai primi. Il “razzismo” o il “fanatismo” non c’entrano molto.
Sono convinto che, messa in questi termini, possa convenire anche Lei.
Il problema fondamentale però resta, e per questo insisto.
È inutile discutere sull’attuale drammatica insignificanza della critica nella società attuale, se la critica non ha il coraggio di dire, a chiare lettere, ovviamente argomentando sensatamente, non solo e non tanto che i romanzi di Moccia sono peggio di quelli di Philip Roth (troppo facile), ma, appunto, come dice l’assioma 10 “quali sono i narratori e i poeti italiani (e non solo) attualmente più rappresentativi?”.
(“Attualmente”: non Volponi, Fenoglio, e compagnia cantante).
Altrimenti, scusate, ma la critica a che cosa serve? Se non ha questo coraggio, tanto vale veramente limitarci ai recinti dello storicismo e dello strutturalismo, sopra citati.
E allora, forza coraggio: sparate.
Poi, però, dovremo interrogarci se davvero sarebbe utile far studiare a scuola Moresco invece di Tasso, Siti al posto di di Manzoni, e Mozzi invece di Carducci: magari sì, ma non si può far finta che il problema non esista, a meno di non portare a 6 anni la durata delle scuole superiori.
Aggiungo:
Paolo Zanotti in “Dopo il primato. La letteratura francese dal 1968 ad oggi” dedica l’ultimo capitolo a 4 autori in piena attività che propone esplicitamente di far entrare nel canone letterario francese (sono Carrère, Littell, Forest e Volodine).
Devo sperare in qualche studioso francese, per vedere una proposta analoga per la letteratura italiana?
@ Alessandro
nell’assioma 1 c’è scritto chiaramente che le opere letterarie di valore oggi non sono affermate per mancanza di pubblico. questo significa, se preso alla lettera come io credo che vada preso, che nessuna opera che oggi ( questo benedetto oggi più o meno da quando comincia? ) ha un certo successo ha valore. Da qui la mia domanda su tre autori che sono affermati, i più volte citati Giordano Mazzantini Camilleri. Ho chiesto: a nessuno viene in mente che abbiano scritto opere di valore? mi è stato risposto che no. non ho chiesto se fossero opere notevoli, termine astratto, ma valide, termine che rimanda appunto all’appartenenza in un dato insieme, quello delle opere valide e quello delle opere che non lo sono. quello per intenderci dei libri che sono considerati “letteratura” e dei libri che non lo sono. io ritengo che questa distinzione sia impossibile, e che le distinzioni che la critica ha il compito di fare non debbano basarsi su queste categorie. non si può dire che un libro sia migliore di un altro, e non per questo viene a mancare il senso della critica. l’operazione concettuale che consente di separare le opere di valore senza base reale per farlo, ma solo perché alcune persone lo hanno deciso, o lo credono possibile, a me richiama il razzismo o il fanatismo, che poi posso anche ritirare, non voglio mica offendere. non ritengo accettabile però l’idea che si possa decidere cosa sia di valore.
che a scuola siano insegnati gli autori compresi nel canone non esclude il mio discorso. certo che ci sono autori che riescono a stagliarsi sugli altri per tutta una serie di motivi, e che per comodità diciamo essere migliori, non l’ho mai messo in discussione, ho messo in discussione il principio per cui si vuole distinguere attraverso presunte qualità intrinseche che sono, per me, condivisibili ma non reali. la qualità letteraria appartiene a qualsiasi opera, è ciò che sviluppa qualsiasi narrazione.
Camilleri, Giordano e Mazzantini hanno senza dubbio scritto opere “valide”. Camilleri, secondo me, anche qualcuna “significativa”.
Non è possibile però accettare il principio secondo il quale “non si può dire che un libro sia migliore di un altro”. Così come non ha senso (mi perdoni) affermare che “la qualità letteraria appartiene a qualsiasi opera, è ciò che sviluppa qualsiasi narrazione. La “qualità letteraria” non è un’entità metafisica, che c’è o non c’è. È un qualcosa magari difficile da definire chiaramente e mutevole nei tempi e nei contesti, ma riconoscibile e, in misura ovviamente del tutto imprecisa, “misurabile”.
D’altra parte sarebbe assurdo pensare il contrario: se esistono musicisti più bravi di altri, pittori più bravi di altri, calciatori più bravi di altri, commercialisti più bravi di altri, perché non dovrebbero esistere scrittori più bravi di altri?
Sennuccio del Bene è poeta inferiore a Petrarca, Guerrazzi scrittore inferiore a Manzoni. O no?
@ Dfw vs Jf
Continua a sembrarmi che il discorso razzismo/fanatismo qui sia inappropriato. Io interpreto il razzismo come la condanna aprioristica di qualcosa o qualcuno in base a caratteri esterni non verificati. Non credo che questa discussione riguardi cosa “è letteratura” e cosa “non lo è”, ma cosa sta più in alto e più in basso in una gerarchia di valori e come ci si accorda per costituire questa gerarchia. Se poi il tuo discorso vuole essere una negazione radicale di ogni diritto di costruire una scala di valore, secondo me usciamo addirittura dal merito del discorso letterario. Nessuno vuole buttare giù dagli scaffali delle librerie Liala o Giordano, ma che Liala o Giordano (sono solo due esempi a caso) vengano equiparati a DeLillo o a Houellebeq (sono altri due esempi a caso), non mi pare sensato né penso che possa portare alcun vantaggio agli stessi Liala o Giordano.
Quello dei programmi scolastici è un problema serio, come è stato detto, soprattutto per ragioni pratiche: io non credo che la selezione di “letteratura classica” proposta nelle scuole sia inutile o vada modificata, ma effettivamente la sua scansione, così com’è organizzata adesso, impedisce per “banali” ragioni di tempistica l’approccio alla letteratura del secondo Novecento in generale. Se si trovasse il modo di recuperare questa lacuna in modo diretto chiaramente mezzo problema sarebbe risolto, perché lo studio scolastico è necessariamente selettivo, e aiuterebbe i giovani lettori a visualizzare anche la letteratura contemporanea come un campo ordinabile, se non ordinato. Ma in linea di principio io penso che una vera istruzione critica possa già essere un grande passo avanti in questa direzione. Intendendo critica nel senso ampio del termine: cioè capacità di valutare non solo in base al gusto della narrazione che ci trascina lì per lì (che è legittimo e sacrosanto, ma non può diventare l’unico criterio) ma anche in base a rapporti un po’ più complessi tra scrittura e realtà, rapporti che ci sfuggono se non veniamo educati a vederli.
va bene, niente razzismo e fanatismo.
@ RRLyrae
ma possiamo uscire da questa logica alto\basso? possiamo cambiare l’assioma 1, con “nell’Italia di oggi ci sono opere x che faticano a trovare spazio, e noi abbiamo il piacere di provare a fargli spazio”, senza per questo immaginare un pubblico da redimere e da forgiare? abbandonando lo sguardo commiserevole verso “il pubblico” ignorante? Io non equiparo Giordano con Houellebecq, penso che il secondo abbia da dirmi qualcosa di più, ma che pure il primo abbia qualcosa da dire, e questo per me basta a dire che ha scritto un’opera di valore.
Possiamo immaginare che a scuola si insegni la letteratura e poi ogni persona sceglierà da sé?
poi nella discussione riguardo l’insegnamento scolastico vi state concentrando sugli autori contemporanei da insegnare, ma il punto, come anche messo negli assiomi è il come si insegna, non quali autori vengono insegnati. un programma senza autori contemporanei e magari anche stranieri incide solo sulla cultura dello studente, non sul suo futuro gusto, altrimenti avremmo studenti che fuori dalla scuola leggerebbero i classici, cosa che non è.
“Possiamo immaginare che a scuola si insegni la letteratura e poi ogni persona sceglierà da sé?”
Bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa significa “insegnare la letteratura”. Secondo me, la semplice storia della letteratura è essenziale per la cultura personale, ma è troppo facile pensare che tanto basti e che alla fine ognuno scelga da sé, anche perché se l’editoria continua a tendere sempre più verso la pubblicazione del vendibile io, per profonda che sia la mia cultura, non potrò che scegliere tra questo vendibile-venduto. Se l’insegnamento invece riuscisse ad allargarsi a discorsi di carattere più ampio, secondo me l’intera letteratura cambierebbe aspetto agli occhi degli studenti. Basterebbe che di tanto in tanto, nello spiegare Petrarca o Manzoni, il professore decidesse di spendere dieci minuti (non ne servirebbero di più) per far notare ai suoi studenti come tra una figura retorica e una paternale moralistica questi autori abbiano detto cose che ci riguardano, anche se non condivideremo mai i loro contesti concreti e non avremo mai nessun vantaggio pratico da ciò.
Quanto all’uscire dalla logica alto/basso, non sono d’accordo: proporre un canone significa necessariamente selezionare qualcosa che riteniamo “più importante”, cioè che per noi sta più in alto rispetto ad altro. Non c’è bisogno di dire che questa selezione non è assolutamente condivisibile, come nessun canone lo è, tanto più che con il passare del tempo anche il livello di gradimento di un canone subisce mutamenti.
@ RRLyrae
però il tuo discorso cosa ha a che fare con l’idea che oggi le opere affermate non siano di valore e che secondo me creare un insieme di opere di valore e un insieme di opere non valide non sia possibile?
Io non so cosa dire di più, ma l’idea che ci siano persone che la pensano come te, o come Casadei, con tutta la preparazione che dimostrate, mi mette una gran tristezza. è da quando sono nato che “la gente non legge i buoni libri, non vede i buoni film, non ascolta la buona musica”.
@ Dfw vs Jf
Non vorrei finire off topic rispondendo ancora, ma quest’ultimo commento mi ha fatto rendere conto che forse non ho espresso bene quello che volevo dire. Quando parlo di selezione o di gerarchia, io non ho assolutamente in testa una bipartizione netta tra un Olimpo di opere approvate e un ghetto di sotto-letteratura da disprezzare. E non penso neanche (questo mi pare di averlo accennato) che un’opera vada automaticamente considerata priva di valore per il fatto di essere affermata. Ancora, tutto questo discorso – e a questo proposito mi permetterei di sollecitare l’opinione dello stesso Casadei – non mira a “indottrinare” chicchessia su quali siano i libri da leggere, i film da vedere o la musica da ascoltare.
Mi dispiace se i modi in cui ho cercato di chiarire la mia idea (forse troppe volte, ahimé) sono stati tali da darti l’impressione che un’aristocrazia autoeletta di esperti – ai quali generosamente tu mi associ, anche se non credo di avere tutta la preparazione che mi attribuisci – stia deliberando su cosa “gli altri” devono preferire. Quello che volevo dire è solo che tutti noi sappiamo valutare un libro, ma i criteri in base ai quali lo valutiamo non sono una fornitura standard della mente né doni del cielo: sono strumenti che aumentano e si approfondiscono con l’educazione e la guida dei modelli proposti da altri, anche se non li condividiamo. La scuola e la critica non devono imporre autori o spartire il campo letterario in settori preferenziali, ma affinare questi strumenti e moltiplicare i livelli sui quali ognuno di noi misurerà – secondo i propri caratteri individuali – il valore delle opere d’arte che ha di fronte.
la questione dell’insegnamento secondo me non risolve il “problema” del grande pubblico: quanti cittadini frequentano una scuola superiore in cui l’insegnamento umanistico ha uno spazio rilevante? Se non sono la maggioranza è improbabile che un migliore insegnamento incida sulle vendite. Certo l’impostazione storicista, quella che mi è stata messa a disposizione, non fornisce intrinsecamente strumenti critici ma forse uno studente che sceglie un liceo ha già una disposizione a considerare rilevante un testo letterario (ovvero ha l’idea che un libro possa aumentare la sua conoscenza della realtà oltre che rappresentare un momento di piacere-intrattenimento). Cercherà e continuerà a cercare e ad apprezzare la qualità, anche se un autore non è stato citato dal suo insegnante (che non potrà mai citare sensatamente tutti gli autori di qualità)
Poi mi domando: perchè io non ho letto Zanzotto? Dico Zanzotto perchè mi parete tutti convinti che valga la pena di leggerlo, ma mettete il nome che preferite. Se Zanzotto non è elitario, magari raffinato ma non accessibile solo a professionisti, allora io posso leggerlo con soddisfazione, è me che dovete prendere nel cerchio, io comprerò quel libro.
Io in libreria ci vado spesso, a me non è arrivato il messaggio che leggere “è da sfigati”. Zanzotto in libreria si trova, non è che il mercato è stato così spietato da farlo scomparire, conosciuto solo da parenti e amici solo perchè non era conforme al “canone-per-fare-soldi” o potente, raccomandato ecc.
Se avesse avuto una visibilità pubblicitaria ampia, cartelloni su tutti i muri, critica univoca che grida al miracolo, lo avrei letto? Sì, certo, per lo meno lo avrei sfogliato in libreria e poi magari lo avrei comprato. Penso che siate nel giusto se pensate che un grande investimento pubblicitario aumenterebbe le vendite. Ma è una via percorribile? Le case editrici non pensano che sia economicamente conveniente; per una istituzione che voglia aumentare la sensibilità dei cittadini, quanti autori dovrebbe promuovere a questo livello per ottenere questo risultato?
Se Zanzotto fosse stato sostenuto personalmente, economicamente, da qualche istituzione, con una cattedra, un lauto stipendio, sarebbe cambiato qualcosa? Non mi sembra che questo mi avrebbe avvicinato, che avrebbe aumentato le sue vendite.
Io credo di non aver letto Zanzotto perchè nella mia vita non sono capitato di fronte ad un recensore intelligente e interessato a me (dico a me come lettore curioso, disponibile, non professionista ma non incolto) che mi raccontasse Zanzotto in modo a me comprensibile e che mi dicesse perchè lo trova notevole e perchè lo potrei trovare notevole io.
Concesso che il problema delle scarse vendite di letteratura di qualità sia un problema mio (di cittadino che perde una opportunità di crescita mentale) e non degli autori (che coltiveranno la loro arte guadagnandosi il pane con un mestiere qualsiasi), questo è il mio suggerimento: che si promuova una critica letteraria di vari livelli, da quello più divulgativo (tipo quark per le scienze) a quello più per “addetti ai lavori”, così da sedurre quanti più lettori possibili. Tra incontri culturali cittadini, radio, web e TV (magari non in orari pregiati) non dovrebbe essere troppo costoso creare opportunità di questo tipo.
La scuola c’entra ben poco, per come la vedo io, c’entra soprattutto in che canali ti sei ficcato.
Ho conosciuto ragazze e ragazzi con una laurea in Lettere dentro le sacche che eleggono Baricco come mentore letterario, motivando la loro preferenza con parole del tipo “mi fa emozzionare tanto”.
Il vero dramma sta nelle proposte che il sistema editoriale fa, che sono proposte di bassa lega, sia a livello letterario che giornalistico, sia a livello estetico che gnoseologico; sono offerte che consolidano ed alimentano una descrizione e una produzione assai semplicistica e fasulla della contemporaneità, della realtà, della politica, dell’arte e chi più ne ha più ne metta, visioni lontanissime dai fatti accaduti, notoriamente ignorante, e speculativa.
Non solo Mondadori, ma anche Gems e Feltrinelli possono permettersi di editare, distribuire e vendere colla stessa divisa i loro scartafacci. Ndò sta il libero mercato? Quante cose possono imporre questi gruppi in termini di cose letterarie, gusti, mode, canoni, scale valoriali, parametri di giustezza estetica, e pure soprattutto di controvalore politico?
Ci domandiamo spesso cosa ci arriva in tavola, ci dovremmo in realtà domandare anche cosa ci arriva sulla scrivania.
L’industria delle grandi narrazioni accetta solo quelle scritture che non mettono a rischio la fragilità delle loro nebbiose verità…. verità solitamente comode da sposare per i lettori che si dividono fedelisticamente in sostenitori ed antagonisti.
L’unica soluzione è dire le cose alle spalle della committenza, scrive nel sottopelle dei libri, nel sì detto sottotesto…. uno molto capace nel far questo è Bolano, oppure Montesano…. ce ne sono anche altri. bisogna arrangiarsi, d’altronde i circoli e circoletti che nei lustri passati permettevano un poco alla volta a Montale di essere riconosciuto grande poeta, a Gadda di diventare il più importante scrittore italiano del Novecento (per me è meglio Landolfi) non hanno più presso pubblico e case editrici lo stesso peso di prima, quando uno come Pasolini o come Manganelli o Calvino scrivevano libri e articoli che poi venivano guardanpò anche letti. Sciascia possiamo dire che ha scritto dei bestseller… oggi un bestseller che riscosso pure ottima critica è stato Gomorra che oltre a dir poco in termini letterari (il che è gravissimo) dice niente soprattutto in termini di elaborazione intellettuale delle cose, di etica, analisi sociale….
non parliamo poi di che arriva sulle tavole degli italian per merito di giornalisti e telegiornalisti…
insieme fanno tutta una grande gabbia di enunciati che ci contiene tutti, si può decidere di fare i furbi fischiettando e nel frattempo seminando trappole, oppure uscire uscire proprio, isolarsi e continuare a fare altri mondi, e allora, ha ragione Stan, non ci possiamo lamentare che ci tengano ai margini… già è tanto a quel punto che non ci mettano in prigione quali disertori e disfattisti ché tanto è questo quello che succede nei regimi.
A- E allora?
B – Direi che oggi è un giorno memorabile …
A – In che senso?
B – Oggi ho la certezza di abitare in un altro paese, diverso da quello in cui abitano Casadei e la maggior parte dei commentatori …
A – Ti riferisci all’enfasi che ritiene possibile cambiare le cose?
B – Esatto. E in particolare a quella specie di enfasi consolante che esprime chi ritiene possibile cambiarle a partire dalla scuola …
A – Quindi manca una conoscenza adeguata della scuola italiana?
B – No, il contrario. Sono io inadeguato a comprendere lo stato di cose. Ma questo è uno degli inconvenienti di essere ignorante. Vedi, amico mio, nel paese dove vivo io la scuola, proprio per come è strutturata, allontana dalla letteratura, o per lo meno dal piacere della lettura. Bada, lo dicono i dati sui “lettori”: pochissimi, a fronte del numero degli studenti.
A – In effetti, non penso che il problema sia su quali autori puntare, bensì di educazione del “gusto” …
B – Hai ragione: il “pubblico” non può esistere finché il “gusto pubblico” non cambia. Ci si chieda: cosa forma il “gusto” … Non prendiamoci in giro: la scuola uccide il “buon” gusto …
A – Solo la scuola?
B – No, certo. La formazione del “gusto” sociale è un meccanismo complesso, dove interagiscono elementi di diverso tipo, critici compresi … Anche qui non prendiamoci in giro: le recensioni, il più delle volte, sono marchette; i saggi sul contemporaneo latitano; si sono sprecati fiumi di parole sul bluff-Saviano (letterariamente parlando); addiritura un famoso critico, molto in voga in certi ambienti “off”, in questo compreso, ha indicato come “migliore poesia” un poema di un famoso poeta che era, in realtà (e a detta dei più, per lo meno in segreto), una immane cagata! La critica si scredita da sé …
A – … e alimenta il meccanismo …
B – Al posto del canone: il cannone.
A – Cannabis?
B – No, proprio il cannone caricato a sale&chiodi!
A – L’intervento di Dinamo coglie nel segno.
B – E non è la prima volta. In fondo, se il pubblico è assente lo spettacolo si può fare lo stesso: per se stessi.
A – Questa l’ho già sentita …
B – Beckett, amico mio; Samuel Beckett … Non proprio l’ultimo dei pirla …
A – Se intendo bene, bisognerre liberarsi degli equivoci e dei pasticci legati all’importanza del pubblico …
B – … portando sino alle estreme conseguenze la verità del punto 1.
A – Un vicolo cieco. Chi ha il coraggio di continuare a fronte di una simile verità?
B – Soltanto coloro per i quali la letteratura è una necessità.
A – Disfattista.
B – Mettiamola così: laddove è certa la mancanza di pubblico a causa dell’incapacità collettiva di affrontare la profondità (perché questo ci rimanda l’epoca), non ha senso separare la questione dell’educazione del gusto da quella del cambiamento della società. Ma per cambiare la società non serve la letteratura.
A – Ma a cosa serve, la letteratura?
B – A conoscere l’umano, a patto di non accondiscendere mai all’umano.
A – Il contrario dei propositi qui enunciati. Anziché la ricerca di “valori popolari”, il continuo smantellamento del meccanismo …
B – Ti rispondo con un autore di alto valore letterario, Thomas Bernhard: bisogna precipitare tutto nella catastrofe.
A – Diffidare dell’euforia …
B – … e della speranza. L’unica beatitudine è non essere affiliati …
*ding* *ding* – nel percorso iniziatico che non riuscirete mai fare , a pena della vostra stessa estinzione , avete raggiunto la consapevolezza di un bimbo di tre anni e vinto una bambolina – passate alla cassa e ritirate il premio , l’ attestato del fatto che siete sostanzialmente inutili a chi vi legge – tenga duro professoressa salabelle , se ancora resistiamo lo si deve a gente come lei – *ding* *ding*
@ RRLyrae
grazie per le risposte e per la discussione. Probabilmente sono stato avventato in certe considerazioni. Che esista un’idea d’elezione penso sia indubbio, io stesso che sono più ferrato in musica cado in ciò che considero un errore. Non volevo certo metterti fra gli aristocratici, o almeno non in un senso accusatorio. Nel senso più ampio del discorso di partenza io continuo a percepire l’idea che la letteratura sia qualcosa di esoterico, cui accedere tramite l’insegnamento, e che per vari motivi oggi, gran parte delle persone non abbia accesso a questa possibilità. Posso sbagliarmi, ma a leggere gli assiomi questo risulta. Mentre è un discorso valido se parliamo di fisica, non lo ritengo valido se parliamo di letteratura, perché la ritengo un’espressione umana svincolata da criteri “oggettivi”. Qualsiasi criterio di scelta o di canone deriva dal riconoscimento di qualità astratte che prima ancora che ragionate vengono “sentite”. Per questo mi pare che si vogliano dare patenti di nobiltà d’animo. Insomma penso che X non può essere né più né meno né ugualmente significativo in confronto a nessun altro. Che ciò che mi può dare Zanzotto, ho provato a leggerlo qualche mese fa, con tutto che non leggo molta poesia e che sono abbastanza ignorante, lo posso trovare anche nell’ultimo dei poeti, anche nelle scritte sui muri, perché ciò che traiamo dalla poesia ha a che fare con l’umanità, e non la ritengo escludibile da nessun discorso organizzato possibile. Ho bisogno di essere istruito per comprendere il linguaggio di Zanzotto, ma il linguaggio e le forme letterarie sono tecniche, e sono comunque superficie, per quanto complesse possano essere, e nascondono il sentimento, non lo creano. Che poi una certà comunità non ritenga delle opere rilevanti per il proprio discorso critico è un’altra questione.
@dfw
il linguaggio e le forme letterarie sono tecniche, e sono comunque superficie, per quanto complesse possano essere, e nascondono il sentimento, non lo creano.
questo però è un assioma tuo, indimostrato e, in sostanza, vero solo se consideri il sentimento in poesia qualcosa di scorporato dal linguaggio: e se consideri ciò, di fatto ammazzi qualsiasi discorso sulla letteratura.
non è affatto detto che sia così, come non è detto che “Che ciò che mi può dare Zanzotto, ho provato a leggerlo qualche mese fa (…) lo posso trovare anche nell’ultimo dei poeti, anche nelle scritte sui muri”. no, ci sono delle distinzioni innegabili all’evidenza, che immagino si possano cogliere con facilità. hai precisato giustamente che non leggi tanta poesia e che sei abbastanza ignorante (almeno in poesia), se ho capito bene. ma allora, poiché, concludo logicamente, trai le tue conclusioni in base alle tue conoscenze, non pensi che sarebbe utile provare a riflettere criticamente e studiare su queste cose per considerare anche il punto di vista di chi ama zanzotto o simili? magari cambieresti idea. o hai paura di metterti in gioco?
@ Lorenzo Marchese
Beh, io non volevo fare un assioma, che comunque come tutti gli assiomi sono indimostrabili e non credo siano soggetti a criteri di verità. Io contesto gli assiomi di Casadei per ciò che vogliono dire e perché si basano su una lettura sociale non condivisa, per ciò propongo di modificarli. E spero poi di aver tratto le mie conclusioni non solo in base alle mie scarse conoscenze, ma soprattutto dal ragionamento. E non capisco come ciò che dico possa ammazzare i discorsi sulla letteratura. Tanto più che sono un lettore di questo blog, e che sono appassionato di letteratura. Ma la mia convinzione si basa sullo scetticismo. Come possono dei discorsi scritti in una lingua, per il fatto di essere organizzati in una maniera o in un’altra esprimere un valore chiamato “letteratura” in termini quantitativi? Mi pare impossibile, stiamo sempre nel campo dell’accordo di massima, tral’altro continuato nel tempo. E con tutta questa approssimazione come si possono escludere delle opere? Per fare un esempio, l’idea contenuta nella poetica stilnovista ( correggetemi pure ), per cui la donna è una sorta di tramite per l’elevazione spirituale, o che lo stile stesso possa far raggiungere questo obiettivo, è scusate tutti, una stronzata. Che Dante sposti la nobiltà d’animo dagli aristocratici del tempo, a coloro che sanno amare ( e spero di non aver detto un’altra cazzata ), è un passo avanti per l’umanità ma ancora indietro rispetto ad oggi, oggi che sappiamo che l’anima non è uno spirito, ma un’attività cerebrale. Ritenere che DeLillo sia più significativo è possibile solo se escludiamo senza diritto e senza motivi reali altre persone da un discorso generale. Finché restiamo nel particolare di una forma artistica va bene, è il compito della critica, non lo metto in discussione. Ma l’idea che particolari forme esprimano una qualità raffinata, superiore, per me rimanda senza dubbio all’invenzione, alla credenza spirituale. Le distinzioni che facciamo tra qualsiasi opera le possiamo fare in base alla loro specificità, non in base al fatto che alcune oltrepassano una certa linea e si trasformano in altra cosa, quest’altra cosa quando avviene, dove sono i confini? Il punto di vista di chi ama zanzotto lo seguo volentieri, fino a un certo punto però, per questo sono intervenuto. Molti esprimono la paura di un discorso per cui “se una cosa vale l’altra allora niente ha più senso”. Mi pare che un pensiero del genere nasconda piuttosto la paura che in realtà non siamo davvero convinti di ciò che vale ( e per fortuna direi ), e per ciò abbandonate le fortezze del sapere ecco i barbari ( e scusate, ma Baricco lo prendono per il culo in ogni dove, ma se vende tanto e piace tanto non possiamo essere felici e basta? ). usciamo da questa concezione.
( devo uscire, potrò rispondere eventualmente dopo le 21. comunque ringrazio Marchese per avermi preso sul serio )
“se consideri il sentimento in poesia qualcosa di scorporato dal linguaggio”
aggiungo al volo che un discorso simile mi interessa moltissimo, per motivi di studio personale in musica, dal punto di vista compositivo. è uno scoglio sul quale sbatto spesso, ma lo vorrei affrontare con una concezione atea. è un discorso sconclusionato, ma mi è stato offerto un concetto in una frase.
Stimolanti diversi degli ultimi interventi: Cleo, Seligneri, Stan. Provo a dire ancora alcune cose. Non mi ha stimolato per niente, invece, Father time, ma dirò brevemente anche di lui.
Mi piace quello che dice Dinamo Seligneri; mi pare molto ficcante in tre punti, anche se su di uno (se mi consenti) vorrei (pro)porre un’obiezione.
1) E’ vero, fino a qualche decennio fa, scrittori come Gadda, la cui lettura richiede passione e fatica, erano mainstream. Il filtro però allora, oltre che quello degli editor e degli editori, era anche quello dei loro colleghi, gli altri scrittori, che componevano tutti insieme una società organica, quella letteraria, che aveva forza e potere egemonici, come ho già detto. Oggi forse uno scrittore è molto più schiacciato dentro le logiche editoriali tout court, ma io non conosco il mondo editoriale da dentro e non vorrei dire cose generiche. Forse allora creare un pubblico non è solo un problema di critica, scuola, editoria, come abbiamo scritto in molti qui, ma anche di amicizie, in senso buono: negli anni Trenta uno scrittore in erba o anche un semplice amatore poteva andare a Firenze, presentarsi alle Giubbe rosse e farsi conoscere, per essere giudicato da persone competenti come Montale, Luzi, Vittorini, Gadda, ecc… (loro stessi son passati anche per quel canale). Oggi non esistono luoghi d’incontro simili. Anche per questo frequentiamo i blog, credo, no?
2) La letteratura non è una forma di rassicurazione, ma di destabilizzazione delle proprie certezze. Anche io non amo la consolazione spiccola e le fughe dalla realtà. Sempre ricordando, però, quel che De Sanctis diceva di Leopardi (e che Raboni ripeteva per Montale): che in tanto pessimismo sul mondo, la sua poesia fa venir voglia di vivere. Dunque, è consolante. Certo, oggi c’è troppo entertainment (il di-vertimento di Pascal: fuga dalla propria angoscia) nella letteratura e l’editoria, con le sue logiche attuali, ne è largamente responsabile.
3) La scuola c’entra ben poco, hai ragione. Nel senso che non basta averla fisicamente frequentata ed aver ottenuto gli attestati legali per dimostrare di avere compreso l’essenziale. Lo so, ci sono laureati in lettere che leggono solo Baricco (e si “emozzionano”, come dici tu). Infatti credo che il problema del pubblico, posto in termini non astratti (come se potessimo smuovere le masse), ma concreti, significhi anche come far sì che le nuove leve di chi sceglie un percorso intellettuale e umanistico tengano forte la barra del timone, formandosi una disciplina, un gusto, un’intelligenza, in mondo che si rendano conto che c’è molto altro oltre (e al di sopra di) Baricco. Tuttavia la scuola c’entra se, passando per quel percorso, qualcosina nella direzione dell’educazione del gusto e della cultura si è riuscita a fare. Questo riguarda strettamente il problema di come dare qualità alla nostra scuola e valorizzare gli insegnanti che quel lavoro di affinamento sugli studenti provano almeno a farlo.
Su quel che dice Cleo, due cose:
1) Si domanda perché nessuno le abbia mai parlato di Zanzotto. Ecco, il problema è che Zanzotto scriveva poesie e la poesia è un genere che ha un numero ristretto di lettori (è un’ovvietà, scusate, mi serve per far tornare il ragionamento). Diciamo che, senza cercarli, è facile imbattersi casualmente in nomi nuovi di prosatori; difficile che capiti anche per i poeti, se non li si cerca. Neanche un poeta che muoia arriva al “grande pubblico”, se non si è distinto per altro: di Zanzotto qualcosa s’è detto perché ultimamente aveva ottenuto una qualche fama nelle polemiche contro la Lega. Sanguineti addirittura fu nominato (ma in coda e en passant) in un tg nazionale del pranzo o della cena. Invece su di uno come Giudici, secondo me grandissimo, ma che non si è distinto come “opinion maker”, nulla. Solo nelle riviste specialistiche e sul Domenicale del Sole24ore. I narratori hanno la vita un poco più facile, credo.
Tuttavia io non negherei che Zanzotto è un poeta così erto da allontanare i lettori che non siano specialisti o visceralmente appassionati di poesia. Un poeta si sceglie anche il suo pubblico, scrivendo; e per alcuni, come per lui, restare fedeli a una cogenza interiore di dettato è irrinunciabile, anche a costo di riuscire oscuri (diverso da chi gioca a fare l’oscuro per sembrar profondo alle masse, come diceva Nietzsche). Lo stesso Montale, all’uscita delle prime poesie di Zanzotto, osservò che i suoi versi avevano una tale stratificazione di sensi da sfidare il più acuto lettore (e se lo diceva l’acuto lettore Montale, possiamo crederci). Zanzotto non è per tutti o per tanti? No, non lo è. Allora la poesia è un linguaggio per adepti? No, ci sono tanti poeti. Si scelgano quelli che più consuonano con sé. Per tornare alla discussione sul pubblico, ha ragione Casadei quando osserva che in Italia ci sono almeno 5000 lettori potenziali di Zanzotto e che è urtante il ragionamento dell’editore che dice “posso pubblicarlo, anche se mi fa 500 copie, tanto recupero soldi con altri”. Tuttavia Zanzotto forse non avrà mai più di 5000 lettori, mentre la Szymborska è diventata un fenomeno mondiale (e se si vuol discutere della sua immediatezza e semplicità io ci sto, ma chiarendo che semplice non è, sempre, uguale a banale). Ecco, magari per ampliare il pubblico dei lettori di poesia si potrebbe partire dalla Szymborska e salire, per virtù di educazione del gusto e delle capacità di decrittazione di un testo poetico, su su fin verso Zanzotto. Nella salita qualcuno si stancherà e si fermerà prima, ma non tutti sono alpinisti e sarà già tanto aver portato molti a passeggiare.
Insomma, il problema del pubblico è anche un problema di come continuare a tener dentro persone come Cleo, che si definisce “lettore curioso, disponibile, non professionista ma non incolto”.
Su qual che dice Father time: intervento sterile e cafone, di chi passa, getto uno sguardo di disprezzo e sputa; per di più nascosto dietro un nickname. Per come la vedo io, sarebbe bene usare il proprio nome e cognome, ma può andar bene anche il nick, a patto però di non avvantaggiarsi dell’anonimato per colpi bassi. Mi rivolgo a chi filtra i commenti: ma non si diceva, nel regolamento del blog, che i commenti ad hominem sarebbero stati censurati? A me quello di Father time pare un intervento “ad homines”, visto che tratta tutti noi con sufficienza e non porta nulla alla discussione.
Gentile Father time, visto che anche io insegno e lo faccio con passione e, spero, intelligenza, eviti di sputar sentenze su chi discute, come se stesse perdendo tempo in chiacchiere. Quando sono a scuola il pc con il blog è spento e anche io lavoro come la professoressa Salabelle da lei citata. Anzi è lì che si verifica se riesco a mettere in pratica ciò che qui teorizzo. Perciò chiedo rispetto.
Diverso invece il caso di Stan, che è altrettanto polemico di Father time, ma ha il pregio di esprimere un pensiero vero e di articolarlo. Chiederei comunque anche a te di evitare i sogghigni di compassione verso chi, povero illuso, discute su “che fare?”. Tu sei liberissimo di pensare “niente di nuovo sotto il sole”, ma anche chi qui discute è libero di farlo e di pensare di poter cambiare le (alcune) cose.
Detto ciò, capisco però anche la tua posizione beckettiana e il tuo orgoglio di non essere affiliati a nessun partito.
Anche io penso, come te, che sia tutto vano. Ogni minuto dispari. Però, nei minuti pari c’è un’altra parte di me che dice: primo, insegni e hai il dovere (mica professionale: umano) di seminare speranza e non disperazione; secondo, il tuo amato Leopardi ti ha insegnato, a furia di sgualcire le pagine dei suoi libri, che di fronte alla Natura che ci può schiacciare come formiche con picciol pomo in un attimo, l’unica cosa buona che possiamo fare è fare come la ginestra, che sarà spazzata via dalla prossima eruzione di lava, e che tuttavia risorge sempre di nuovo e non piega la testa (non la piega, ma non l’innalza superba pensando che noi si sia il culmine della creazione); terzo, la realtà ha sempre rappresentato per l’uomo, come vuole Heidegger, una “resistenzialità” alla nostra azione e a noi sta provare a scalfirne almeno un po’ la rocciosità; se no che senso avrebbe la mia e la tua vita? (a meno di non essere Beckett, e allora la tua parte di uomo la fai scrivendo che nulla ha senso: che è COMUNQUE scrivere, cioè far qualcosa per l’Altro); quarto, anche tu, mi dico fra me e me, hai sempre pensato che fosse meglio scavarsi la propria nicchia e resistere, ma oggi c’è il rischio serio che il sistema ti venga a stanare fin dentro il rifugio e allora non c’è soluzione: bisogna far fronte comune, per quanto è umanamente possibile.
Hai ragione, insomma, la scuola italiana disamora alla letteratura, proprio perché è COSI’ congegnata. Infatti io lavoro per cambiarla. Scusa, volevo dire: per cambiare la porzioncina di realtà che mi sta intorno.
Cordialmente
@dfw.
non c’è di che. cercherò di essere più chiaro, saltando i punti sui quali non penso di poter discutere.
in ogni scienza o presunta tale esistono delle distinzioni. in ognuna il ragionamento va di pari passo con le conoscenze che ci si forma nel corso delle proprie letture. altrimenti si scivola nell’indifferenziato, che uccide ogni riflessione critica, e in generale uccide la letteratura.
non sto parlando di confini, di credenze spirituali o che so io. non sto parlando di oltrepassamenti di linee, le opere letterarie non sono manzi da competizione e nessuno lo crede più, anche se è comodo fingerselo nel pensiero. ma hanno delle specificità, dei valori letterari differenti. e, soprattutto, se ci si vuole riflettere sopra bisogna aver letto, aver conosciuto almeno un po’ ciò di cui si parla, questa letteratura sulla quale la gente da millenni impegna la propria vita, prendendo tutto a burla, magari, ma scrivendo dannatamente sul serio. da qui si torna al discorso sulla scuola, che per me è il punto focale del discorso. da lì si deve partire, e dalla famiglia. senza, non si può pensare neanche di iniziare la discussione.
“Che Dante sposti la nobiltà d’animo dagli aristocratici del tempo, a coloro che sanno amare ( e spero di non aver detto un’altra cazzata ), è un passo avanti per l’umanità ma ancora indietro rispetto ad oggi, oggi che sappiamo che l’anima non è uno spirito, ma un’attività cerebrale.” (Dwf vs Jf)
Sorvolando sul discorso di cosa sia l’anima, nel quale non oso addentrarmi, tu valuteresti Dante in base alle sue conoscenze pratico-scientifiche? O la poetica stilnovista in base ai concetti a cui si riferiva? Mi sembra un modo riduttivo di vedere la letteratura: a me personalmente certe considerazioni di Dante fanno persino sorridere, se le guardo da una prospettiva di evoluzione scientifica, ma quando leggo il passo della Vita nova in cui lui si ritrova inaspettatamente di fronte a Beatrice, e “tutti li spiriti” gli vengono “distrutti”, la mia reazione non è di ridere perché nel Medioevo un uomo colto credeva che i cinque sensi fossero abitati dagli spiriti, ma di immaginare lo smarrimento di una persona segretamente innamorata che si trova di colpo accanto alla persona. E tra l’altro trovo che il modo in cui tutto questo è espresso (linguisticamente) sia straordinario, molte volte superiore al modo in cui la stessa idea viene espressa da Moccia. Il confine non c’è, ma c’è una gradazione: se leggendo un’opera letteraria ti ritrovi a pensare “ecco, com’è vero!” allora vuol dire che quell’opera sta parlando di qualcosa che ci concerne, e allora importa poco se la forma esteriore con cui lo fa ai nostri occhi è datata o assurda.
@ FatherTime
Non credo di aver capito il senso del tuo intervento: se la seconda persona plurale del tuo discorso sono “i critici”, come mi pare di capire, e se il discorso teorico sulla letteratura secondo te è inutile, che cosa ci fai su questo blog?
@Daniele Lo Vetere
Sulla scuola penso questo, che l’unica cosa che possa fare la scuola per finanziare la riuscita dell’impresa dei buoni lettori e la ricezione letteraria è rendere lo studio delle materie letterarie difficile e esigente (non ottuso, lo studio, direi scientifico) al massimo grado possibile, sottrarlo al mare magnum dell’opinabile…
Deve usare tanto bastone e nascondere le carote.
I ragazzi devono consumarsi gli occhi colla letteratura alla stregua delle vecchie traduzioni di latino; devono farsi, come si dice, il sangue giallo.
In questo modo avremmo almeno delle classi di lettori severissimi e potenziali innamorati dei classici, con modelli di riferimento altissimi, can(n)oni d’eccellenza… per lo meno in questa maniera, a parità di conoscenze, chi ha inclinazione per la letteratura saprà rendersi flessibile e rapportarsi positivamente alle proposte attuali; chi invece questa inclinazione non ce l’ha non si potrà mai fare impressionare dalla prosa di Baricco o da quella di Erri De Luca.
E’ un progetto utopico?
Forse sì. e non è un progetto, ma un ripiego, perché interventi didattici così composti potrebbero essere realizzati solo in licei o istituti secondari all’avanguardia… ciò che significa? significa che per l’ennesima volta concentriamo le nostre forze sui ceti più fortunati (e anche più ricchi) lasciando il grosso pubblico (parimenti elettorato) sempre e solo in mano dell’industria editoriale di questi anni.
Compito dell’umanista è anche vedere quali argomentazioni preconfezionate arrivano al bar, oltre che sulle scrivanie dei professori e dei liberi professionisti, e sopra le tavole imbavagliate… c’è un motivo per cui mesi fa si parlava solo degli assiomi del berlusconismo, ed oggi si riciclano i suoi sottoprodotti come l’antipolitica, la partitocrazia, i tecnocrati corrotti europeisti, i finanziamenti ai partiti…
chi impone il temino scopiazzato dei nostri discorsi? non parlo di Grande Fratello, non io. ma non se ne esce ugualmente, purtroppo.
Non so dire se tanti di voi siete afflitti dalla Sindrome di Stoccolma o siete i funzionari della SPA Sindrome di Stoccolma (esser contenti della Mondadori perché fa i Meridiani ne è un chiaro esempio). Il problema è che avete terrore di orientare la discussione sul punto centrale, quello del superamento del concetto di cultura che tutto avvolge, arte, scienza, istruzione; concetto che si è del resto involuto per avere il più possibile di clienti, ciò che ha reso la letteratura PROPAGANDATA dal sistema editoriale (CRIMINALE) sempre più contenutistica, sempre più alla portata dei lettori, prodotta cogli stessi enunciati dei lettori, se non dai lettori stessi: questo è quello che abbiamo intorno in Italia, una letteratura fatta direttamente dai lettori, con enunciati rozzi quanto le teste dei loro destinatari; ciò che, lo dico ai poveri professori, mette del tutto fuori gioco l’insegnamento della letteratura tout court, specie la poesia, di fatto degradata al livello dei misteri eluesini…
Bisogna aggredire il concetto di cultura, questa è la verità, cultura che del resto non è affatto un BENE COMUNE, come si vuol far credere ai giovani e agli ingenui, ma è forse la causa prima della impossibilità di comunizzare almeno in termini di esperienze estetiche e di linguaggio; perché in epoca moderna la cultura è un attrezzo inventato per rendere centrale la nuova classe di oppressori (lo dico in termini brechtiani…), che negli ultimi tempi, in pochi e ben saldi al comando, hanno deciso di trascurare i loro immediati sottomessi, che tanto non si ribelleranno mai, per rivolgersi direttamente alle masse di oppressi, ben sapendo che se li fai sentire colti, parte di una élite, anch’essi diventano innocui, a maggior ragione se fai finta di vietargli le droghe… (le culture pop sono questa roba qui…).
Ps: informo chi vuole usare contro di me la citazione ” quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola ” che la frase esatta è questa “Wenn ich Kultur hore, entsichere ich meinen Browning” ” Quando sento la parola cultura tolgo la sicura alla mia Browning “; e non è di Goebbles ma fa parte di un dramma di Hanns Johst, centrale nella CULTURA NAZISTA. D’altra parte io non ce l’ho con la cultura in generale, in quanto contenitore di scienza, arte, istruzione, ecc, ce l’ho però fortemente con questo concetto di cultura, quello che si è affermato nel ‘900, che ha vieppiù asservito le espressioni ai bisogni dello Stato, e che sembra più ostacolare che favorire le nostre vite associative, le nostre libertà individuali di scienziati, artisti, docenti, studenti, pubblico…
tanti di voi chi?
@ Lorenzo Marchese
Io non sono abbastanza istruito per cogliere la gran parte delle specificità letterarie, ma sono abbastanza istruito da poter capire ( e mi stupisco che non lo capisci tu e i possibili amanti di zanzotto ) che le specificità letterarie non possono essere quantificate e messe in relazione attraverso le comparazioni di ordine quantitativo. Questo mi porta a suggerire di cambiare l’assioma 1 in “oggi non ci sono abbastanza persone in grado di comprendere zanzotto” non perché non sappiano riconoscere il valore letterario tutto, che non esiste, ma perché non possono accedere alla specificità letteraria di zanzotto, che esiste e si sviluppa attraverso la sua tecnica. E che porta a riconoscere che qualsiasi opera letteraria ha la sua specificità e il suo valore, dunque anche Mazzantini Giordano Camilleri Baricco Moccia. Non capisco perché consideriamo “sbagliato” che le persone entrino in contatto con gli autori da me citati. Davvero non riesco a pensare che qualcuno si danni l’anima per questo. Sono considerati a torto la spia di una carenza sociale.
@ RRLyrae
ma: cosa impedisce a un testo di Moccia di essere percepito come “vero” per una persona? Allora quelli che leggono Moccia sono masochisti?
Il mio esempio su Dante voleva dire che la sua idea era basata su un’assurdità, non che fosse assurdo credervi. Questo non per darne un giudizio, ma per legarlo all’assurdità di credere che esista un valore letterario generale racchiuso in determinate opere. È umano e comprensibile credervi, ma io sto rompendo le scatole da giorni proprio per contestarlo. O meglio, mi va benissimo che qualcuno ci creda, non mi va più bene se questa credenza porta ad affermazioni tipo “DeLillo non dovrà mai eccetera”. Siate propositivi.
Caro Lorenzo Marchese, non so chi siano gli altri di quel “tanti di voi” cui si rivolge (contro cui si scaglia) Larry Massino. Mi associo a te nella domanda, ma credo che uno di quelli sia proprio io, visto che questo commentatore torna sulla mia frase dell’esser contenti per l’esistenza della collana dei Meridiani.
Suggerisce per me una diagnosi: Sindrome di Stoccolma. Ora, non credo; almeno, non ne vedo i sintomi, visto che credo di possedere invece ancora un sano senso critico. Ringrazio comunque Larry Massino per la compassionevole intenzione di risvegliarmi alla mia realtà di fantoccio in mano a una Cultura-Potere onnipervasiva e ossedente (mi sento un po’ Neo davanti a Morpheus), ma credo di essere già sveglio.
Sostenere, Larry, che tutta la cultura novecentesca sia promanazione del mercato, di stampo pop, costruita allo scopo di tenere le masse nell’ignoranza è un gran bell’affresco romanzesco, ma nella realtà non regge. Intuisco, dietro le tue parole, degli spunti interessanti, ma capisci che se usi argomenti di stampo benaltristico (“la vostra discussione non ha senso, siete degli illusi, ma che siete tutti innamorati del nostero carnefice?, …”) rifiuti di confrontarti sul merito e screditi i tuoi stessi interlocutori, sempre che ti interessi averne.
Mi piacerebbe, per tornare alla discussione, sapere se Casadei ha qualcosa da dire e se vuole riassumere ciò che secondo lui è emerso di interessante, sempre che qualcosa sia emerso, a suo parere. Non so se fosse sua intenzione, come a me pare che un poco sia capitato, che il dibattito diventasse una guerra (di parole, non mi fraintendete: i più hanno usato cortesia e dialettica) fra concezioni elitarie e popolari di cultura, fra disperazione di poter mai fare qualcosa e illusione di chi crede di avere possibilità d’azione.
Credo che i suoi Assiomi fossero anche provocatori, ma invitassero a proposte pragmatiche, sulla base di alcune parole d’ordine. Mi sembra che forse ci siamo un po’ tutti arenati su questioni importanti ma che stanno a monte di ciò che lui suggeriva come punto di partenza.
@ Dinamo. Se con la tua richiesta di rigore intendi dire resistere alla faciloneria della scuola repleta di mammismo, psicologismo, comprensione verso ogni pippa mentale adolescenziale, niente compiti a casa, ludicità, ecc… mi trovi perfettamente d’accordo con te.
Quanto all’essere militarmente duri, come dici (e sempre che non sia un paradosso dialettico), dici tu stesso che funzionerebbe solo in limitati contesti, ma se guardi il resto, vedi solo opinioni da Bar sport. Credo che se le cose le guardiamo da lontano appaiono proprio come dici tu; ma se le avvicini e parli con solo due o tre degli avventori del Bar sport, qualche lumicino qua e là lo si intravede sempre. Proviamo a lavorare su quello, almeno, no?
Non capisco perché consideriamo “sbagliato” che le persone entrino in contatto con gli autori da me citati. Davvero non riesco a pensare che qualcuno si danni l’anima per questo. Sono considerati a torto la spia di una carenza sociale.
ma io non ho detto questo, suvvia. e non credo che nessuno consideri sbagliati i gusti di nessun altro: i diciassette anni li abbiamo passati tutti, se non erro. il mio discorso era ben più complesso, si prega di non semplificare a beneficio dello scontro, sovente compiuto in queste discussioni sulla rete, fra un’inesistente categoria di “amanti dei monnezzoni” e “parnasostronzi”.
lo preciso ancora una volta: non si parla di giusto o sbagliato. ho detto invece che per riflettere sulla letteratura, sulla varia importanza o pregnanza delle opere letterarie, bisogna conoscere un po’ la letteratura, oppure il rischio di vacchebigie è forte. che opere come quelle di mazzantini e giordano (ormai sono stati tirati in ballo come emblemi, poveretti …) abbiano un qualche valore proprio mi sembra scontato, non c’è bisogno di martellare per affermare il concetto. quello che, studiando, si vuole fare è operare delle distinzioni, delle analisi che rendano il quadro più sfumato. sui pareri soggettivi e sui gusti sarebbe inutile discutere.
beh, penso che dalle rispettive posizioni non schioderemo di certo. io ho proposto di cambiare l’assioma 1, di uscire dalla logica che parte dalle distinzioni necessarie per arrivare a farne graduatorie di importanza. resto convinto che ciò che si trova in zanzotto è la stessa cosa che si trova sui muri con forme e tecniche diverse. non volevo certo semplificare nulla, né sostenere che non serva studiare per accostarsi alla letteratura. se però io chiedo “a nessuno viene in mente?” e mi risponde che no, poi invece che si, mi pare che così scontata la domanda non fosse. e mi pare che ci siano eccome persone che hanno da ridire sui gusti altrui, si veda sopra il rammarico per i laureati che leggono Baricco, che è proprio di chi crede che certi valori siano evidenti e stiano in certe parti e solo in quelle. come anche di chi si permette di chiamare certe classifiche “di qualità”, cadendo nel ridicolo.
Penso che il motivo per cui non ci schioderemo possa essere che stiamo discutendo su piani diversi, e se è così, per quanto ci affanniamo a venirci incontro, non ci troveremo mai. In generale mi sento di sposare l’ultima opinione espressa da Lorenzo Marchese, ma aggiungerei una postilla alla sua conclusione: discutere sui gusti in termini di giusto/sbagliato è ovviamente una pretesa insensata se non barbarica, ma “discuterne” in senso ampio secondo me non è affatto inutile. Nel senso che (per me) non è affatto privo di interesse ascoltare le ragioni di chi legge Baricco, perché il fatto che io non lo trovi valido dipende da una mia impostazione mentale che, nel confronto con altre impostazioni mentali diverse dalla mia, può uscire modificata in meglio, o almeno dotata di maggior consapevolezza. Trovo imprescindibile rimanere sempre coscienti del fatto che il nostro punto di vista è, appunto, il “nostro”.
Per quanto riguarda la discussione in sé, credo che D. Lo Vetere faccia bene a notare che forse il treno ha deragliato, però mi viene da fare una riflessione a monte: credo che la maggior parte di noi, qui, sia unita nella sfiducia di poter agire sul mondo (stan, il tuo dialogo con te stesso è molto grazioso, ma io non ho visto da nessuna parte questa “enfasi consolante” di cui tu parli). Ma credere realisticamente che modificare lo stato di cose sia difficile, se non impossibile, non deve essere una scusa per rinunciare ad analizzare la situazione e cercare di capire da dove partono i problemi. Nessuno è onnipotente, ma se ci occupassimo solo di quello che possiamo concretamente realizzare, penso che le nostre vite sarebbero ben meno consapevoli. Del resto, la mia sensazione è che Casadei non si aspettasse di vederci proporre gli articoli di una nuova costituzione della repubblica delle lettere, ma questa è solo la “mia” sensazione…
che poi io non è che voglia proprio andare incontro, ma piuttosto dar fastidio :-)
io martello la mia visione ottimistica dello stato di cose, che è ottimo, almeno nel campo delle lettere, nettamente più ricco e vario rispetto al passato, e nettamente più a disposizione di un pubblico nettamente più ampio e felice, grazie magari anche agli sforzi di chi propone gli assiomi di sopra.
“Militarmente duri” è un’espressione che non ho usato, perché proprio non potrei usarla, è contro la mia natura dilettantesca ed insufficiente, il mio carattere libertario prima di tutto il resto.
Dico che le materie letterarie dovrebbero essere precettate con più serietà per la retorica, la metrica, il canone, la distinzione di generi, le poetiche, dovrebbe dare dei punti fermi, punti fermi “alti”, fare della storia della letteratura…. nel convincimento basilare che le forme estetiche sono in divenire, in un divenire che tiene conto del contrasto con la fissità delle forme appena studiate.
(Se c’è un film che ha fatto morire dei poeti dentro la culla questo film è L’attimo fuggente).
Sul fatto dei bar, ti dico che provengo da ambienti e famiglia operaie (anche un po’ contadine) sono paro paro uno del popolo, quindi conosco benissimo i bar e ho quindi la fortuna di sapere quel po’ di latino per commentare qui (ché un po’ di tempo a scuola me l’hanno fatto perdere cazzo), e so il baresco, anzi lo parlo, pure il dialetto parlo, ma non è questo il punto, magari i comici gli attori i telegiornalisti che appaiano in tv avessero solo un’unghia del linguaggio e della mimica corporea di tanta gente che conosco io….
Il punto è non escludere la gente dai libri, e dico libri perché mi diletto a scribacchiare, manganellianamente parlando, sennò direi di un’altra arte. Parlo di costruire insomma opere che non siano solo per quei quattro milioni di italiani che sono i lettori forti, e che hanno tempo, serenità, fiorini, o capamatte, di leggersi tre quattro libri al mese (la def generale mi sembra è 12 libri l’anno, ma mi sembrano pochi). L’istruzione c’entra in quanto impollinatrice di abitudini, stimoli, costumi, hobby, tra cui la lettura… il grado d’istruzione che prendi a scuola e poi dopo dipende al novanta per cento dei casi dall’ambiente in cui vivi, dal tuo ceto, quindi dalla fortuna o dalla sfortuna di avere o no possibilità economiche. Ecco perché parlo di costruzioni letterarie a più entrate, multi screen, col diritto pure di perdersi quando e quanto si vuole.
Una casa editrice/gruppo editoriale come la Mondadori si rivolge alla gente perché ha una distribuzione fortissima, capillare, la Mondadori e le sue sorelle mirano al mercato dei lettori deboli, al grande mercato di cui dicevamo sopra, quello di chi singolarmente si pappa uno massimo due romanzi all’anno. E il fatto è che a questi che leggono uno due romanzi all’anno a questi gregari la Mondadori o chi per essa rifila lo scarto, ‘a schifezz de la schifezz… ecco allora il mio discorso nel primo commento: bisogna fregare la committenza, scrivere dietro alle sue spalle, scrivere magari nel genere (che per molti puristi della letteratura è appunto l’Impuro, l’Ibrido), giallo rosa noir fantascientifico, e disseminare questo genere di cortocircuiti, trappole, grande scrittura. Non è quello che ha fatto (magari in maniera più spiccata perché i tempi eran diversi) il nostro amato Sciascia? non è quello che faceva Bolano? Oggi un libro come A colpi d’ascia di Bernhard sarebbe stecchito dal mercato che lo farebbe a polpette in una casa editrice minore per un circuito straminoritario. Ma a qualcuno è venuto in mente che (mutatis mutandis) La parte dei critici di Bolano, romanzo inserito in 2666, contiene colla stessa intelligenza la stessa carica di denuncia del mondo culturale artistico?
Chi tra questi due libri ha più possibilità di entrare in casa della gente?
PS OT(?): volevo dire che a differenza di quanto sostenga qualcuno della riserva, i lit(e)-blog muoiono se i pezzulli che vi si vergano non sono buoni, perché la gente che non è scema se ne scappa, quando i pezzi invece sono stimolanti (come questo qui) i commenti e la gente arrivano (il che si riallaccia col mio ragionamento appena concluso sopra)… non è colpa di facebook. Non famo ride li polli.
@dfw
sulla notazione riguardo le classifiche di “qualità”. hai fatto bene a mettere fra virgolette, perché ritengo sia questo l’intento primario della classifica, e l’ho anche illustrato in altri commenti a un post sull’argomento: proporre, in antifrasi ironica alle classifiche di “quantità” più diffuse e popolari, una classifica che per la sua natura intrinsecamente commerciale fa attrito (e, si spera, produce reazioni) con la letteratura. per come la vedo io, è il vecchio metodo del parlare col linguaggio dell'”avversario”: ma è solo una metafora personale e non ha valore prescrittivo.
per il resto, gli interventi sono più o meno tutti interessanti e ringrazio chi li ha formulati.
“bisogna fregare la committenza, scrivere dietro alle sue spalle, scrivere magari nel genere (che per molti puristi della letteratura è appunto l’Impuro, l’Ibrido), giallo rosa noir fantascientifico, e disseminare questo genere di cortocircuiti, trappole, grande scrittura” (Seligneri)
Ma è sicuro che la si freghi o semplicemente nello “scarto, ‘a schifezz de la schifezz…” si aggiunge appena un aroma d’élite?
Non è quasi come far cadere sugli abiti sporchi e puzzolenti di un barbone delle gocce del migliore profumo ?
Detto in altri termini:
Ma perché non ci si chiede più come hanno fatto i lettori “forti” a diventare forti? e perché i lettori “deboli” sono o sono diventati deboli?
Non è mica una questione che si risolve tra letterati…
“Compagni, parliamo dei rapporti di produzione!”
Ancora? Ma non siamo più nel 1935!
Appunto.
Io mi permetto di porre l’attenzione, ma oramai sono fuori tempo, sugli assiomi 6 e 7. possibile che non si possano stabilire dei parametri per quanto flessibili e sfrangiati, su concetti che a mio avviso sono (e volutamente!) largamente condivisibili come “tradizione” e “costanti antropologiche” come base di valutazione? non dico che non siano opinabili, dico solo che potrebbero e sottolineo potrebbero trascendere anche le piccole derive egotiche e vagamente derridiane che la discussione ha assunto finora. certo, ci sarebbe da interrogarsi sul senso di “comunità”, sul ruolo della tradizione e della sua formazione (e qui giù a parlare di lingua dei re!) però, diciamo, avrebbe un suo senso, grazie
Ennio Abate, che in Italia non ci siano tanti lettori, addirittura che battiamo tutti i record del malamente europeo in fatto di lettura (e nn solo) è risaputo. E’ colpa del fatto che abbiamo una scuola che non incentiva? è colpa dell’editoria? degli scrittori? dei traduttori, dei critici? che siamo in tanti poveri e in pochi ricchi o normostipendiati? è colpa che l’Italia è un paese di vecchi e vecchie?
pare negli ultimi mesi che i lettori forti siano in calo, persi per strada un settecentomila unità. so’ troppi? mi ricordo d’aver letto così, po’ darsi mi sbaglio.
Sul fatto delle gocce di profumo per giacche in malora, mi sa che stai fuori strada. Nel senso che io parlo in primise di letteratura, e in secundise di un canone letterario esistente che non mi invento io, un canone ben funzionante in quanto dinamico e di rottura (quindi che fa continuamente i conti colla letteratura che l’ha preceduto), un canone composto da alcune tra le penne migliori dei nostri tempi (ho parlato di Bolano, di Montesano, di Sciascia – in parte anche di Camilleri forse troppo compiacente col pubblico e l’editoria per erti versi – , potrei dire di Scerbanenco, di alcuni romanzi dell’imbattibile Rugarli, potrei parlare del grande Bukowski, dell’enorme Fante) quindi scrittori di razza la cui poetica per un modo o per un altro non si scorda della gente, non si scorda che non ci siamo solo noi a sto mondo, che esistono anche gli altri…. vedi Ennio la mia copia dell’Ulisse ha la guida alla lettura, cià le istruzioni… ora Joyce per me è il più grande del Novecento e guai a imporre qualsiasi cosa agli artisti (anche a chi non lo è), guai a legiferare che l’arte debba essere accessibile a tutti, ma ci sono scrittori per cui questo o è stato naturale raggiungerlo per la loro vita o formazione, o per cui è stato importante arrivarci.
Non è una via di mezzo, Ennio, non è infilare calzini puliti sopra piedi sporchi, è un processo artistico compiuto ed univoco in sé, che esce dal forno tutt’insieme, è un romanzo, un racconto, ognuno lo fa come crede, secondo il suo stile senza doversi camuffarsi, lo fa scrivendo al meglio di quanto sa… non si sta mica dicendo di educare nessuno, si tratta solo di riuscire a produrre manufatti dentro cui si entra anche senza il dottorato in lettere e filosofia….
Che infatti pure io me lo sò scaricato joyce, co’ gogol maps incluso che te vedi li giretti de quei due , còsi, blum e un antro, che nun s’arriva mai, er funerale, er cane, che poi sul finale c’era lo striming, ma ‘sti stronzi daàmericani ciànno chiuso megavideo e gniente, bucio de culo che me sò scaricato pure quer figo de moccia, lo shrekspir de noantri, ‘mmazza, “ce sta à ruggine a ponte mirvio”, babi e step…
io per esempio potrei parlare del grande lebowski, altro che il taccagno con le ali
saluti
Molto interessanti le 3 liste di assiomi, e alcuni percorsi analitici li condivido.
Però temo che il fattore umano di chi si occupa di libri in questo momento non sia preso molto in considerazione…ma il discorso ci porterebbe troppo fuori tema…
Ho letto invece qualcuno invocare un canone. Credo che per quanto riguarda gli scrittori contemporanei sia impossibile in questo momento storico fare ordine, in primo luogo perché al di là del vero problema dei lettori il problema più grande in editoria mi sembra quello della distribuzione…se in libreria (virtuale o reale che sia) i libri che ti mettono sotto il naso sono sempre la stessa dozzina be’..difficile che se non per puro caso si possa ampliare il raggio di letture consapevoli.
Un discorso sui classici e i lettori (a mio avviso il classico è prima di tutto un libro capace di creare nuove generazioni di lettori…) deve essere fatto, con poco snobismo e molta praticità…in questo stiamo tentando di coinvolgere i nostri lettori e dopo una prima puntata siamo approdati a dei primi dati parzialissimi su cui però cominciare a riflettere….per ora ci stanno riflettendo i lettori mentre critici giornalisti editor editori e scrittori sembrano tenrsene alla larga…sarebbe interessante sapere il perché ma sarebbe soprattutto interessante sapere il loro rapporto con i classici…
http://samgha.wordpress.com/2012/04/25/i-classici-che-fingiamo-di-aver-letto-la-nostra-top-ten-2-i-primi-dati/
A – Non basta mentire per essere Jago …
B – … e non basta la scuola per avere familiarità con la letteratura “di valore” …
A – … ma neanche il tuo «sogghigno di compassione» basta …
B – … così come non basta favoleggiare obiettivi impossibili o docenti virtuosi …
A – … Il docente virtuoso manomette e chiosa, l’intera, inonesta situazione è sottaciuta con affabulazioni consolanti e si promettono iniziative e impegni serali che mentono sull’agonia nostra diffusa … E allora cosa serve?
B – Il cannone, serve; è il solo strumento che possa aprire falle.
A – Blasfema lingua da terrorista, la tua. Chi sei tu?
B – Uno di passaggio. Se la città dorme, solo le bombe la possono svegliare. Le campane, invece, possono chiamare a raccolta solo i fedeli. Gli scrittori nitriscono. Gli editori sono complici e ruffiani. I critici parlano a vanvera. Bestie e becchini: questa è la letteratura. Canuti e moribondi essere si aggirano nella scena chiassosa. Perché avere pazienza? Un cannone, il mio Nulla per un cannone!
A – Si spara per dare il benvenuto …
B – … e per sparigliare tutto …
A – Ma facciamo sforzo di devozione al dialogo, orsù …
B – Vedi, amico, il mio «sogghigno di compassione» era rivolto all’illusione che si possano cambiare le cose senza cambiare *radicalmente* la società; questa è per me l’illusione di chi non riesce a capire cosa formi il “pubblico” (e il suo “gusto”). A maggior ragione se parliamo di letteratura; la quale letteratura è troppo incline a subire, in se stessa e nella sua ricezione, l’andamento generale del *pensiero*. Ora, la nostra è una società che disdegna il pensiero, tanto più se “profondo”; a te risulta qualcosa di diverso?
A – In effetti, anch’io abito un paese dove ogni “profondità” è bandita.
B – E allora che futuro può avere una letteratura di valore?
A – Ben poco, direi.
B – Il punto 1 di Casadei non è solo una verità ermeneutica, ma anche una condizione oggettiva: dato un certo livello di pensiero sociale, la stragrande maggioranza delle opere sono – non possono che essere – in accordo con esso … Voler invertire la tendenza senza mettere in dubbio il meccanismo generale è, detto fuori dai denti, stupido.
A – D’accordo, però se faccio l’insegnante, e se magari ho consapevolezza dei veri “valori”, mi prodigherò per far sì che ai miei allievi arrivi il meglio …
B – Ma sarai sempre un granello di sabbia nel deserto del nulla … E se volessi astrarre la tua condizione dal contesto, faresti un’operazione dubbia dal punto di vista della logica e dell’intelligenza … Diciamocelo francamente: nel nostro paese la letteratura di valore è marginale e con pochissime possibilità di emergere.
A – Ma come invertire la tendenza?
B – E se prendessimo cosapevolezza che la tendenza non si può invertire? O per lo meno che non lo si può fare finché la società è … è … è … L’unica parola sensata che mi viene in mente è *capitalistica* … Io, per di più ho anche molti dubbi sulla possibilità di invertire la tendenza anche a fronte di un sommovimento generale nell’ambito del pensiero.
A – Perché?
B – Forse perché, ai fini di “intercettare” le mutazioni socio-antropologiche (Cfr punto 7 di Casadei) e di renderle “popolari”, altre dimensioni creative sono più efficaci: cinema, musica, teatro … Il surplus di profondita che la letteratura di valore permette – e lo può! – resterà sempre una possibilità per un numero ristretto di persone. Quando si è cercato di rendere “popolare” questo surplus (il realismo variamente declinato, e soprattutto quello espunto dalle “sperimentazioni” – per capirci, non quello quello “epico” di Brecht o quello “allegorico” di Sanguineti, ma quello “socialista” di Lukaks o quello da “reportage” à-là-Saviano o, come si usa dire oggi, quello “civile” dei saputelli di pseudo-sinistra), i risultati letterari sono sempre stati pessimi. Con buona pace di Abate, la “democratizzazione delle arti” è un processo impossibile: lo sviluppo del pensiero individuale sarà sempre – storicamente e culturalmente e biologicamente – ineguale …
A – Abate? Che c’entra ora Abate?
B – Ha riportato tutto il discorso a un discorso “di classe”. Sacrosanto, certo; però anche un tantino miope. E poi la frase di Brecht è decontestualizzata. I «rapporti di proprietà» sono, per Brecht, «la radice del male». Brecht però sa benissimo che la letteratura è «un affare di pochi» – lo chiama esplicitamente «un privilegio»; e sa benissimo che solo una società non più basata sul denaro e sul capitale potrà porre in essere dei correttivi. Ho l’impressione che talvolta Abate confonda l’arte con la propaganda; strano, se si pensa che Brecht, così come Majakovskij prima, avversava l’arte da agit-prop (e non a caso puntava tutto non sui “contenuti”, bensì sulla “forma” – splendida la sua difesa del monologo di Molly contro gli attacchi dei “realisti”).
A – Dunque pretendere che la letteratura sia “popolare” è …
B – … è il trucco idiota d’una prestigiatrice da mercato … La letteratura, specie se “di valore”, è una lussuria sgarbata che può essere applaudita solo da pochi: questa è la realtà. E sì, la nostra società raggela il desiderio, sublimandolo in oggetti ben levigati privi di foia. Si dipingono affreschi eleganti e taciturni, anziché demoni sfrenati e bocche villane … Chi ama l’infedeltà – e lo dice apertamente – è bandito …
A – Ma qui tutti, da Casadei ad Abate, puntano sulle possibilità di poter *educare* il pubblico ai veri valori …
B – Guarda, ti riporto un passo dallo stesso articolo di Brecht da cui Abate ha tratto la frase sui rapporti di proprietà: «E poi anche il fascismo trova che l’educazione è stata imperfetta. Si ripromette grandi cose dalla possibilità di influenzare le menti e di rafforzare i cuori… Alla brutalità dei suoi sotterranei adibiti alla tortura aggiunge quella delle scuole, dei giornali, dei teatri. Educa tutta la nazione e tutto il giorno. Non ha molto da offrire alla grande maggioranza, quindi ha molto da educare. Non dà da mangiare e quindi deve educare
all’autodisciplina. Non può metter ordine nella sua produzione e ha bisogno di guerre: deve quindi educare al coraggio fisico. Ha bisogno di vittime e quindi deve educare al sacrificio».
A – Nel contesto, una frase ironica.
Grazie a tutti per questo dibattito, ricco di spunti di cui terrò conto. Proprio sulle parole chiave (pubblico, critica, canone, letteratura contemporanea e scuola…) e sui problemi ad esse legati spero che sarà possibile realizzare degli incontri che puntino non solo a parlare della nostra realtà, ma a cambiarla. Almeno sulla necessità di creare, nelle scuole, come si diceva una volta, di ogni ordine e grado, nuove dinamiche di fruizione e di valorizzazione dei nostri testi migliori diciamo sino agli anni Sessanta penso che siamo tutti d’accordo. Personalmente, cercherò di lavorare anche in questa direzione e di proporre nuovi assiomi per analizzare i motivi per cui è così difficile mettere in pratica programmi in apparenza semplici e condivisi.
questa è la libertà… pubblicare a discrezione, leggere a discrezione. se gli autori “colti” non vengono letti vuol dire che non sono all’altezza, se i poeti non sono letti vuol dire che non sono all’altezza, manieristi senza comunicatività e senza fascino. saluti
(per quanto riguarda i poeti c’è anche un altro discorso: perché dovrei spendere ogni giorno 15-20 euro per un libro che finisco in un’ora quando su internet e in biblioteca si trova moltissimo materiale gratuitamente? i poeti sono molto più letti di quanto non siano acquistati…)
@stan (Donnarumma?) — qualche anno fa sviluppammo l’intuizione del cannone -come superamento del canone- in nabanassar (e-book n.6 dal link), su spinta e stimolo di Angelo Rendo… intravedevamo l’apertura al dilettante per mezzo del social web 2.0, a cui pensavamo sarebbe seguito da parte dei professionisti l’esca di una buona parola, di una finta accoglienza, a scopo di minima pubblicita’ e perpetuazione del canone; mi sembra che questo sito tenga ancora ben salda la distinzione per virtu’ di cursus honorum, ma il mercato va da un’altra parte. Peraltro, i risultati estetici prodotti dai professionisti non sono migliori di quelli prodotti dal meglio del disordinato web italiano, per cui davvero tale distinzione non avrebbe piu’ ragione d’essere. Oggi quel cannone lo chiameremmo gamification. Saluti.
@fu giusco
stan come donnarumma? buon dio, non credo proprio.
comunque, sarei curioso di leggere qualche “risultato estetico” prodotto dal meglio del disordinato web italiano, potrebbe per favore indicarmelo o fornirmi dei link? grazie =)
Caro Il fu GiusCo,
mi dispiace deluderla, ma io e Donnarumma siamo uno la testa e l’altro il patibolo. O se preferisce: due naufraghi sbattuti su isole diverse; ma anche il voltafaccia di Costantino: da una parte il terrore del Dogma, dall’altra la seduzione del Dogma nascente (decifri da lei l’allegoria). Vede, carissimo, questo Non-Io, in realtà, è nient’altro che il doppio di ognuno, e quindi un multiplo dei tutti, della Policastro compresa. Sono la vostra verità inconfessabile; sono l’avvento del pensiero che temete.
Caro Lorenzo Marchese,
sono tentato di dire che i miei dialoghetti sono uno dei possibili “risultati estetici” del disordine webbico, godendo io appieno della scrittura in commento e spassandomela nell’alimentarla di relazione. Io mi ci dedico con poco zelo, direi proprio da dilettante; ma ho l’ardire di ritenerli esercizi ben più degni di molte scritture professionali. Mi perdoni la modestia.
Ma anche Stan. è stanco del proprio sparire e proprio in virtù di questo sfinimento offre agli astanti una traccia di se stesso: in cambio vi chiedo di non fondare famiglie o regni.
@stan
grazie mille, mi ha strappato una risata prolungata e sterile. per via di ciò, le perdono la modestia e tutto il resto.
Interessanti commenti, in quasi tutti ho trovato almeno un frammento con cui sono d’accordo. Però vedo che si insiste a dire che Zanzotto vende cinquecento copie, questo non è vero, le cinquemila le ha raggiunte e superate, certamente con il tascabile del ’73, a cura di Stefano Agosti e credo anche dopo.
E in più, spero che nessuno svenga, a Zanzotto Giordano era molto piaciuto.
peraltro, secondo me il discorso più centrato andrebbe fatto non sulle copie (questione quantitativa strettamente legata a contingenze socio-economico-culturali) ma sulla percezione che di questo poeta un pubblico ampio ha; su un suo possibile insegnamento a scuola; su una sua diffusione che entri nelle coscienze, come è stato per montale.
E in più, spero che nessuno svenga, a Zanzotto Giordano era molto piaciuto.
mi si dà un’informazione che non conoscevo=) sarebbe interessante sentire un commento articolato di zanzotto (che, immagino, esiste in forma scritta).
Non esiste in forma scritta, o almeno non mi risulta. Ma in fondo, perché stupirsi? Sono tante e curiose le ragioni per cui un testo può essere apprezzato anche se si presenta (credo, io non l’ho letto) in una forma poco complessa.
Caro Stan,
l’ultima volta ti avevo intercettato a proposito di NO TAV, se non sbaglio…
Solo ora e per caso mi accorgo che mi hai eternato in uno dei tuoi “esercizi ben più degni di molte scritture professionali” e ne sono lusingato. Però i miei connotati sono un po’ stravolti e allora, visto che sono all’antica (pignolo, pedante), mi permetto di correggerli con questa variante al tuo dialogo tra A e B, facendo interloquire un mio emissario, Samizdat.
Ciao e grazie
*
B – Con buona pace di Abate, la “democratizzazione delle arti” è un processo impossibile: lo sviluppo del pensiero individuale sarà sempre – storicamente e culturalmente e biologicamente – ineguale …
Samizdat – Abate? Che c’entra ora Abate?
B – Ha riportato tutto il discorso a un discorso “di classe”. Sacrosanto, certo; però anche un tantino miope.
Samizdat – Ma vedi che io Abate lo conosco. Sono gli altri che l’accusano di zdanovismo e di riportare tutto il (loro) discorso a un discorso “di classe”. Lui è ben più problematico (anche se testardo) e, più semplicemente, dice a molti critici e poeti, che prima sbavavano per Fortini o per Brecht e si davano l’aria di aver letto più di lui Marx:
– Ma non eravate anche voi della compagnia? Perché avete voltato gabbana senza dare alcuna SERIA spiegazione?
In più, vedi che non c’è più alcun bisogno di una “democratizzazione delle arti”. L’hanno fatta gli altri (per Abate quelli che stanno col Capitale).
B – E poi la frase di Brecht [riportata da Abate] è decontestualizzata. I «rapporti di proprietà» sono, per Brecht, «la radice del male».
Samizdat – Anche qua semplifichi troppo. Abate non solo non ha decontestualizzato Brecht o la sua frase, ma ripubblicando l’intero testo di Brecht sul sito di POLISCRITTURE (http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=231:bertolt-brecht-intervento-al-i-congresso-internazionale-degli-scrittori&catid=1:fare-polis&Itemid=13) l’ha fatto precedere da questa sua premessa:
« Questo testo di B. Brecht è tratto da Verifica dei poteri di F. Fortini, Il Saggiatore, Milano 1965. Ancora oggi alla prima lettura si coglie l’incisività della sua prosa e la sua volontà politica di misurarsi con le cose storte del mondo con una determinazione che a quei tempi e in lui era saldissima: che «alla brutalità dobbiamo opporre il bene». Un Brecht “buonista”, allora? Niente affatto. Egli non è mai stato nelle schiere di quanti «parlano di educazione al bene» e si adattano a svolgere una funzione ornamentale (mettendo fiori sulle catene, come diceva Marx) o una funzione lenitiva (e embedded), più o meno tollerata in certe circostanze dai sistemi di dominio. Neppure accetta, però, di mettere «sotto processo la ragione» arrivando all’«elogio della brutalità», atteggiamento che fu tipico del fascismo. Brecht, insomma, si poneva realisticamente il problema di difendere l’umanità dall’accusa di essere brutale per natura. Certo, la brutalità era ed è ancora oggi «un buon affare», ma Brecht era ancora fiducioso nella possibilità che essa potesse diventare “un cattivo affare”.
Ci sono due passaggi nella parte finale di questo bel discorso che vanno aggiornati e senz’altro corretti. Il primo: quando Brecht sostiene che il «grande insegnamento» («la radice di tutti i mali sono i
nostri rapporti di proprietà») è ormai messo in pratica nell’Urss dei suoi tempi («in un paese che rappresenta un sesto della superficie terrestre, dove gli oppressi e i nullatenenti hanno preso il potere»). Purtroppo noi sappiamo qui Brecht si sbagliava. Il secondo: nell’uso del termine «rapporti di proprietà». Meglio sarebbe oggi dire «rapporti sociali capitalistici». Per aggirare (e senza entrare in discussioni doverose in ambiti specialistici) certi equivoci: che il capitalismo storico sarebbe stato solo “privato” o in mano ai “privati” ( o come , ancora qui ripete Brecht, lo «spietato dominio» solo di «una piccola parte dell’umanità»); che i mezzi di produzione passati in certe esperienze storiche (Russia, Cina) sotto proprietà statale sarebbero d’un tratto diventati “socialisti”. [E.A.]
B – Brecht però sa benissimo che la letteratura è «un affare di pochi» – lo chiama esplicitamente «un privilegio»; e sa benissimo che solo una società non più basata sul denaro e sul capitale potrà porre in essere dei correttivi. Ho l’impressione che talvolta Abate confonda l’arte con la propaganda; strano, se si pensa che Brecht, così come Majakovskij prima, avversava l’arte da agit-prop (e non a caso puntava tutto non sui “contenuti”, bensì sulla “forma” – splendida la sua difesa del monologo di Molly contro gli attacchi dei “realisti”).
Samizdat – Anche qui ti sbagli di grosso. Basterebbe tu leggessi certe sue discussioni sul blog MOLTINPOESIA (ad es.: http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/01/discussione-ennio-abate-leonardo-terzo.html; http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html) per capire che sbagli bersaglio.
A – Dunque pretendere che la letteratura sia “popolare” è …
B – … è il trucco idiota d’una prestigiatrice da mercato … La letteratura, specie se “di valore”, è una lussuria sgarbata che può essere applaudita solo da pochi: questa è la realtà. E sì, la nostra società raggela il desiderio, sublimandolo in oggetti ben levigati privi di foia. Si dipingono affreschi eleganti e taciturni, anziché demoni sfrenati e bocche villane … Chi ama l’infedeltà – e lo dice apertamente – è bandito …
A – Ma qui tutti, da Casadei ad Abate, puntano sulle possibilità di poter *educare* il pubblico ai veri valori …
Samizdat – Ti assicuro che per Abate ti sbagli. Oltre a quanto riferito sopra, leggi questa risposta a un suo amico “educatore” più o meno “civico”:
Delle tue poesie politiche o di quest’ultima sull’uguaglianza giuridica, che abbiamo pubblicato sul blog credo di poter dire che, muovendosi su un piano di pacata critica razionale ma molto generale, e cioè senza riferimenti alla cronaca, ai personaggi, a questioni scottanti, la passa liscia, per così dire. (Vedi anche i due commenti che ha suscitato). Non scuote però. Non chiama in causa i lettori reali. Si rivolge a un lettore futuro o saggio, che non c’è in giro (per quanto prima detto). La sua “verità” non fa male, non irrita. Metti poi che già il fatto di presentarsi come poesia attutisce il suo impatto politico, come sapevano bene Fortini e Pasolini che, per ottenerlo un po’ tale impatto, assumevano due modi antitetici: il massimo della freddezza o la volontà di scandalizzare e provocare. Non credo che sia un tuo limite personale. E’ il momento storico che ha spuntato le unghie politiche anche ai poeti che vogliono fare “poesia politica” o “civile”. Io continuo a ripetere che, se la società è diventata incivile, non possiamo fare una poesia civile o nei modi di una volta, perché appunto non c’è più un ‘noi’ a cui rivolgerla. Tra parentesi, i modi con cui M. affronta certi temi femministi o ugualitari sono fuori dal tempo. Continua a parlare come se le donne a cui si rivolge fossero tutte delle femministe degli anni Settanta. Io non so darti (e darmi) suggerimenti per ora. Ma penso che si debba tener conto quando si scrivono poesie politiche di questa situazione.
B – Guarda, ti riporto un passo dallo stesso articolo di Brecht da cui Abate ha tratto la frase sui rapporti di proprietà: «E poi anche il fascismo trova che l’educazione è stata imperfetta. Si ripromette grandi cose dalla possibilità di influenzare le menti e di rafforzare i cuori… Alla brutalità dei suoi sotterranei adibiti alla tortura aggiunge quella delle scuole, dei giornali, dei teatri. Educa tutta la nazione e tutto il giorno. Non ha molto da offrire alla grande maggioranza, quindi ha molto da educare. Non dà da mangiare e quindi deve educare all’autodisciplina. Non può metter ordine nella sua produzione e ha bisogno di guerre: deve quindi educare al coraggio fisico. Ha bisogno di vittime e quindi deve educare al sacrificio».
A – Nel contesto, una frase ironica.
Samizdat- Beh, chiamala ironica. Pardon, dimenticavo che voi l’ironia la spremete dappertutto anche da …
@alcor
scusa, non avevo capito che fossi intervenuta tanto per il gusto di =) alla prossima
sì, solo per il gusto di dire che il pubblico non è diviso in bocchi rigidi e non comunicanti, come mi pare qualcuno sostenga qui, anche i più insospettabili riservano sorprese; alla prossima:–)