di Laura Pugno

 

[Esce oggi per Hacca Edizioni Melusina, un libro di Laura Pugno illustrato da Elisa Seitzinger. Ne proponiamo alcune pagine e un’illustrazione].

 

Così ora è da sola, Alice, e può esplorare Nostra Signora della Foresta, Santuario, la ragione per cui è arrivata fino a lì, per cui ha compiuto, pensa, quello strano viaggio. Emma le ha scritto, ha suscitato la sua curiosità. Non dubita, non ha mai dubitato Alice, che Emma stesse eseguendo le ultime volontà di Marie-Ange, dichiarate o meno che fossero. Dall’altro lato rispetto alla grande cucina e alle camere comuni si apre una stanza ancora più grande e più nuda delle altre, con vista sulle onde del mare azzurrissimo, battuto incessantemente dal sole, un letto – poco più che sacchi tenuti insieme da lenzuola, pieni di qualcosa che forse sono piume, forse alghe, o un misto delle due cose – enorme, addossato a una parete, una cassapanca e un lettino di legno. Dev’essere qui che sua madre, Agnès, dormiva da bambina. Quell’infanzia, pensa Alice, non ha avuto niente in comune con la sua, con gli appartamenti in affitto o le residenze universitarie, i college di mezza Europa, le lingue continuamente cambiate, l’Accademia di tutti i Paesi come una comunità, i convegni in tutte le stagioni, le estati lunghe e dai cieli sempre più alti, sempre più al Nord. Quell’infanzia è stata vissuta in un altro tempo, direbbe quasi un altro mondo.

 

Perché mai Marie-Ange avrà scelto proprio quel luogo per fondare la sua, di comunità, la sua comune – per gli abitanti di Stellamarina, la sua setta o strana religione? Il cognome, certo, poteva tradire un’origine italiana, ma chissà di dove, e da quelle parti i Daras non hanno proprietà. Vagabondaggi, forse, incontri, amori o amicizie di quella giovinezza furibonda, e ancora dopo, molto dopo. Perché sono qui, si chiede Alice, sfiorando con le dita la coperta su quel lettino minuscolo, la stoffa che porta ancora l’incavo del corpo di sua madre bambina, o di chissà chi.

In fondo alla grande stanza dove Alice si trova ora, due travi a x sbarrano una scala bianca – marmo forse? possibile che sia addirittura alabastro? – che si avvita a spirale, si stringe a chiocciola e scende nelle profondità. Alice si fa piccola piccola, già è così magra, riesce a sgusciare sotto i legni incrociati. Il passaggio è proibito, ma qui non c’è rimasto nessuno a proibire, quei luoghi non sono più di nessuno, neanche delle Luci del Nord, anche se forse, pensa Alice, sarà meglio che mi sbrighi a dare un’occhiata, prima che Emma ritorni. Potrebbe non avere piacere di trovarmi qui.

 

La scala scende nelle profondità della terra-mare. Alice si fa luce col cellulare, sente un filo d’aria, deve entrare da qualche parte e infatti sopra di lei si aprono fessure nella roccia da cui filtra il giorno. Tutto è traslucido, trasluminoso direbbe, c’è acqua per terra, forse trasuda dalla roccia, la sfiora con un dito, è acqua calda, ci sono sorgenti termali su quella piccola isola, e infatti da sotto sembra salire un lieve vapore. Sta per tornare indietro, dove mi sto cacciando?, quando di colpo la scala si allarga in una balconata naturale, un parapetto di roccia, e sotto di lei si apre un antro enorme, bianco, di pietra levigata e lucida, uno spiazzo candido al cui centro si dilata un’apertura. Da lì viene il vapore, nella pietra lattea che sembra quasi morbida alla vista si apre un cerchio perfetto, un ombelico. Sotto l’acqua dev’essere calda, è la sorgente, da lì si sversa in mare.

 

A Alice vengono in mente i cenotes del Messico, acqua dolce in mezzo alla giungla, le gallerie e le grotte sotterranee, ma qui tutto è bianco e luminoso e marino. Era lì, sulle coste del Messico, che l’aveva portata uno dei suoi ultimi lavori, istruttrice di immersioni subacquee, dopo aver lasciato gli studi di biologia marina. Aveva presto lasciato Cancún per Tulúm, dormendo sulla spiaggia avvolta nell’amaca di agave, accanto a bungalow senza luce elettrica, di notte soltanto candele, e cellulari spenti; aveva esplorato quella sorta di laghi o cavità le cui acque scure, dolcissime sulla pelle, contenevano oro e scheletri di corpi sacrificati, lì da secoli, invisibili nelle profondità. Poi sarebbe andata ancora più lontano, Argentina, Cile, lo spagnolo ormai una seconda lingua nella sua bocca, o la terza o la quarta. Poteva smettere per qualche tempo con l’estate lì nell’emisfero australe, lavorare sulle navi da crociera che percorrevano lo stretto di Magellano fino a Capo Horn. C’era un amico che le aveva detto che avrebbe potuto aiutarla, c’era sempre qualcuno per darle una mano a trovare il prossimo lavoro finché quel qualcuno, o il lavoro, non svanivano dalla sua vita, oppure era Alice a svanire, e andava bene così. Poi era successo tutto insieme, la Cina, l’epidemia, la pandemia. I lockdown, lo spazio aereo chiuso, le call con il volto di Agnès invecchiata nello schermo della webcam, nella residenza per anziani in Francia, la rsa dov’era – Agnès a cui la demenza aveva tolto l’espressione serrata, chiusa a chiave, che era sempre stata la sua e che appariva ora così curiosamente, così insensatamente felice. Poi anche la rsa, a cui comunque nessuno poteva più accedere, era stata chiusa per Covid – a un certo punto, come tutte, come tutte ovunque – e erano cessati completamente i contatti.

 

Per qualche settimana Alice non aveva saputo più nulla, nonostante i tentativi, le telefonate – finché sua madre una notte non si era alzata, nella camicia da notte candidissima, o almeno così Alice la immaginava, Agnès, ancora col pieno controllo del corpo, senza pannoloni e catetere, una veste bianca e i piedi nudi, e i capelli bianchi che erano diventati bianchi tutti insieme come se improvvisamente si fossero coperti di neve. Agnès che in qualche modo era diventata invisibile a tutti, era uscita dalle porte, era uscita dalle finestre, aveva attraversato le portefinestre e i muri e i campi e forse le sale svuotate della talassoterapia per cui quel centro andava famoso, famoso nel mondo: era letteralmente scomparsa. Era allora che erano iniziati i sogni.

E i sogni di Alice, le sue notti come i suoi giorni, avevano sempre a che fare con l’acqua.

 

Intanto lì dov’è, Alice si è mossa, un passo dopo l’altro ha sceso la scala avvitata nella roccia, ha superato la balconata naturale, è su quella superficie pianeggiante ora, leggermente concava, accogliente, bianca e lucida, il vapore rende tutto dolce e caldo, Alice toglie le scarpe, sfila la maglia e gli shorts, si affaccia sull’orlo dell’apertura a forma di cerchio, l’acqua sotto si alza e si abbassa con il ritmo di un corpo, sistole e diastole, non è bollente, Alice ricorda quando in Islanda si è trovata sul bordo dei geyser, la quiete dei geyser prima che scagliassero in aria il loro getto d’acqua, la stessa sensazione, la stessa potenza, in un tempo sospeso. Venivano qui, pensa, era questo il luogo del rito, precristiano, preromano, per questa ragione qui sopra è stato edificato il tempio, poi la chiesa ha riadoperato il luogo, è questo il centro. Sotto, l’acqua è bianca e torbida, sopra di lei l’aria piena di sale, la grotta deve comunicare, in profondità, ma quanto in profondità? con il mare.

 

Da lì, può tornare indietro o fare una follia, tuffarsi – poi in qualche modo deve essere possibile risalire in superficie, tornare a riva, tornare a casa, pensa incongruamente, anche se quella non è casa, non lo è mai stata. Il cerchio salino nel bianco alabastro sembra prometterle il tuffo perfetto. Il rituale perfetto, il gesto-parola di addio. Certo, tuffarsi lì è da suicidi, tuffarsi in quell’acqua è –

 

Alice si tuffa.

 

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