di Diego Bertelli

 

È forse e soprattutto una questione di parole: «perché chi è senza parole è spesso indifeso oppure, al contrario, chi è senza parole aggredisce». Questa iniziale e già densa riflessione (umana, senz’altro, ma ricca di implicazioni, in senso lato, politiche) si legge nei primissimi passaggi di Qualcosa sulla terra di Davide Orecchio, racconto uscito nella collana «L’Invisibile» diretta da Martino Baldi per Industria&Letteratura, che giunge con merito al suo quinto titolo.

 

Se volessimo usare una formula più o meno accattivante, potremmo partire dicendo che Qualcosa sulla terra è un “racconto ecologico” e, per la precisione, un racconto di ecologia umana e animale. Siamo in una città che specie in estate prende fuoco periodicamente. Per chi ci vive non riuscire a trovare le parole e i nomi per ciascuno degli odori che ha il fuoco, a seconda di ciò che brucia, alimenta la sensazione di assedio subìta. Una condizione psicologica, anzi che fisica: quella della paura, che si unisce al terrore primitivo del fuoco. Ancora più importante, per questo, conoscere, ergo riconoscere qualcosa: se dai un nome a ciò che temi, impari a non temerlo più, o a temerlo di meno. Ma la paura di non avere a disposizione i nomi e la paura del fuoco non sono le sole con cui abbiamo a che fare. Qualcosa sulla terra è, in senso più generale, un racconto (favoloso, perché è anche una favola) incentrato sull’avere paura o, sarebbe più giusto dire, usando la parola al plurale, sull’avere paure: ci sono sia quelle di chi attacca sia quelle di chi è attaccato, esseri umani e animali, i quali interagiscono, parlano, tanto che non si capisce se stiamo leggendo una storia di cani, gatti, corvi, gabbiani in guerra fra loro. Le aggressioni e le fughe dovute alla paura sono un elemento imprescindibile del racconto, che declina uno dei tanti modi che gli esseri viventi hanno di entrare in relazione. E Qualcosa sulla terra è, nella sua atmosfera da animazione post-disneyana, anche un racconto sulle relazioni, che possono essere distruttive o, al contrario, in grado di determinare legami; possono essere, appunto, qualcosa (il pronome indefinito ha qui un significato anche valoriale, oltre che reificante: non solo una vita ridotta a una cosa, come vedremo, ma anche vita che vale qualcosa). Quest’ultimo genere di relazioni è il solo capace di salvarci in una terra devastata da incendi, alluvioni, morti, lotte, malattia, egoismi. È una situazione estrema in cui sembra che tutti siamo inevitabilmente vittime e carnefici l’uno dell’altro. Viene in mente un verso de L’osso, l’anima di Cattafi che recita così: «Sulla testa di tutti pende qualcosa». Torna, e non è un caso, il pronome qualcosa, in un poeta che peraltro è vissuto in una città del fuoco e in una città dell’acqua, come quelle del Sud e del Nord raccontate da Orecchio, e il fatto non stupisce. Perché la letteratura crea legami di senso nello spazio e nel tempo che sono spesso inspiegabili, anche quando le città in questione non sono le stesse, e i tempi non sono gli stessi, e neppure le esperienze in gioco.

 

Le città di Orecchio all’inizio sono vaghe, ma a poco a poco divengono riconoscibili (l’autore fornisce, a proposito, indizi inequivocabili): la Roma in cui vanno a fuoco i rifiuti, pare di poter dire, e la Venezia dell’acqua alta. Ma non importa veramente. Perché a contare sono gli universali, non i particolari. Almeno è così quando il racconto prende l’abbrivio, perché in Qualcosa sulla terra leggiamo di una città anonima, di carnefici e vittime anonimi, che ricordano spazi e presenze kafkiane (proprio Kafka è citato, indirettamente, quando compare, in forma puntata, il K.). Se poi volessimo continuare a ricercare paralleli, dovremmo anche citare il tema dell’accumulo insensato di quelli che Cattafi chiama, invertendo in modo semplice e rivelatore un sintagma bell’e fatto, i «beni che consumano la vita». E parlando di beni di consumo, come dimenticare un altro racconto favoloso come Marcovaldo al supermarket?, nel quale il tema dell’accumulo, croce e delizia del capitalismo, fa pari con il tema della malattia dell’accumulo, in una spirale industriale di generazione e distruzione che conduce alla creazione della discarica. In Orecchio, a sua volta, l’accumulo sfocia nei roghi delle terre dei fuochi e in quelli dei cassonetti di Roma. Conseguenza implicita di questa speciale malattia del benessere è l’autodistruzione, nella forme dell’emarginazione e dell’isolamento, e della solitudine, fino a quando non si muore (ci chiediamo se Orecchio aveva in mente le sequenze inquietanti della Teoria svedese dell’amore, in cui si narra come a volte, dopo molte settimane, si scopre una persona morta nel proprio appartamento).

 

Finora siamo rimasti su un piano volutamente generale, nonostante i possibili addentellati alla realtà attuale: città del Sud, del Nord, del fuoco, delle acque, vittime, carnefici, personaggi generici, anonimi: i tanti K. possibili, che siano uomini, donne, animali domestici oppure selvatici non importa. Ma ecco il twist narrativo, la vocazione che definiamo etica dell’autore: quella di raccontare la storia di qualcuno che aveva un nome e una vicenda, la storia di Bianca (personaggio bianco come il suo nome), con la quale riconoscerci, immedesimarci, dire noi. La vicenda passa così su un altro piano, che sviluppa il tema del Caso o, per dirla con il titolo di un film che ai suoi tempi ha avuto un bel po’ di successo, degli sliding doors. La storia particolare di Bianca è necessariamente anche la nostra storia: si avvera, quel passaggio descritto da Saba nel Borgo, di immettere la nostra nella vita «di tutti gli uomini di tutti i giorni» e qui, per la precisione, nell’«oscura vicenda» di una donna, come noi tutti, nata e aperta alle possibilità del mondo, dove una concatenazione di eventi casuali a volte permette a una vita di brillare, a volte di spegnersi nell’anonimato. Nella città dove si appiccano fuochi, Bianca muore bruciata, e sembra che non si tratti neanche un fatto di cronaca imputabile a una responsabilità specifica; perché la responsabilità diviene, soprattutto, collettiva. È la vicenda di un corpo estraneo, e questo corpo estraneo risulta, in tutta la sua tragicità, un corpo vero e proprio, umano, umanissimo, che nasce, cresce, affronta i desideri e gli ostacoli della vita, ha amici, amori, vede invecchiare e morire i genitori, invecchia lei stessa, subisce l’affronto di una malattia che toglie il respiro, la supera e poi rimane sola, dopo aver perso l’amata compagna. È una morte, quella di Bianca, che si fa immagine della fragilità e marginalità di tanti altri esseri viventi: una donna dunque sola, e anziana, che vive in un luogo marginale, un seminterrato, metafora già di una condizione sepolcrale; una «donna che non apparteneva ai pensieri del mondo», scrive Orecchio, e questa frase richiama alla mente Berkeley, quando afferma che «essere è essere percepiti». In questo senso, Qualcosa sulla terra è il racconto di un’esistenza che non è più, perché non è più percepita.

 

Sappiamo questo: che un incendio divora un essere umano; un incendio che non è dovuto all’odio, ma alla precarietà. C’è qualcosa di incoerente fra ciò che sembra avere provocato il fuoco (delle candele) e l’aspetto della casa di Bianca, dove non c’è neanche più il gas, perché agli occhi del narratore sembra essere avvenuta, invece, una detonazione. Che cosa è successo allora, veramente? Chi era Bianca? C’è stato un evento che ha determinato il passaggio dalla vita vissuta alla vita subìta? Dopo aver letto Qualcosa sulla terra, sapere significa fare i conti con le nostre coscienze, assumere su di noi una responsabilità, attraverso una concatenazione di testimonianze che è anche un passaggio di vite: Bianca rivive nel racconto della propria esistenza e passa, attraverso Gilberto (l’interlocutore del narratore), di vita in vita, fino a noi. E quando finalmente sappiamo chi era Bianca e conosciamo la sua storia (lascio al lettore il desiderio di scoprirlo), abbiamo anche una vita in più con cui fare in conti, con cui confrontarci, una vita che non possiamo ignorare, poiché tante altre simili esistono e chiedono di non essere ignorate.

 

Ricordate come inizia il proemio del Decameron, nel quale è contenuta un’esplicita dedica alle donne? «Umana cosa è avere compassione degli afflitti». Boccaccio continua dicendo che la compassione è richiesta soprattuto a coloro i quali l’hanno ricevuta, quasi volesse insegnarci una lezione da non dimenticare. Anche il Decameron fu scritto in tempi di malattia e morte (che in modo simile a quella descritta da Orecchio, toglieva il respiro). Per salvarsi dieci amici fuggono dalla loro città e sopravvivono grazie al potere della letteratura, raccontandosi storie. Fanno esattamente quello che Orecchio fa con noi, riuniti per l’occasione nello spazio assoluto della sua narrazione, dove la letteratura si fa, in modo analogo a Boccaccio, mezzo di resistenza e strumento di vera compassione.

 

[Immagine: Antonio Bolfo, Housing projects tower over the torn streets of Mott Haven, 2009, © Antonio Bolfo].

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