di Anna Maria Carpi

 

[E’ uscita in questi settimane per Einaudi L’aria è una, un’antologia che raccoglie poesie edite e inedite di Anna Maria Carpi. Presentiamo una scelta di 10 testi].

 

 

DA UN ABBRACCIO di due ancora giovani

una notte nel letto coniugale

vorrei esser venuta. Una luce velata,

stanza in ordine, lenzuoli immacolati,

l’esistenza sicura, i miei parenti e i tuoi.

No, troppa gioia, troppa leggenda,

io non vengo di qui.

Lui non aveva posto né futuro,

lui odiava i parenti,

mezzi niente, e fra di loro c’era

l’età che avanza,

le scenate – l’amore andato a male

è una belva ferita che devasta.

Dopo di me dormirono ognuno in una stanza.

Mi hanno amata,

sempre discordi circa il mio destino,

e il mio destino è diventato immenso.

Io un nulla incoronato

e votato a sconfitta. Oh non del tutto,

ho fatto tante cose

sempre al riparo delle istituzioni:

mi piaceva insegnare.

Ho un posto, uno stipendio come tanti.

Visto da fuori, tutto ben riuscito.

Ma all’inizio lui disse: come me,

tu farai la scrittrice,

e io ho obbedito.

So scrivere, ho una certa mia maniera,

ma tutti sanno scrivere,

ho una casa decente e faccio inviti,

ho un matrimonio in cui si va d’accordo

sulla guerra in Iraq, non su di me –

nessuno può capire la stortura

che significa scrivere, impossibile –

e le scenate che si facevan loro

fra le stanze o in cucina

io le faccio a me stessa.

La macchia dell’origine perdura,

sono quei due che parlano e che dicono:

tu non ci hai riscattati.

Niente di questo,

sono rimasta a mezzo.

La mia ora di gloria è nell’infanzia,

nell’attesa dei due,

e per questo li amo e per questo li odio

sopra ogni cosa.

 

*

 

UNA MADRE io l’ho avuta,

viva ardente

sempre via con la mente

inetta a vivere.

Sarà stata poi lei? Mai le ho dormito in grembo.

Era un uccello

che migrava

con le ali tarpate.

Così io non ho misericordia di me stessa,

e non ho niente che mi abbracci dentro.

 

*

 

TU MI CHIEDI, DOTTORE,

perché di lei non parlo,

perché non dico mai: mia madre.

Io non lo so,

certo che è un po’ sospetto.

Bambina mia, non essere una donna:

povere donne!

«Lui diceva così?»

Sì, un’ossessione.

Non dico mai mia madre:

io non l’ho avuta,

io non mi sento nata da una donna.

Non c’eran donne in casa,

nella casa irreale,

solo un’adolescente,

Paolina,

travagliata e fantastica,

oppure un’ombra,

curva,

sbigottita.

 

*

 

LI HO TANTO ODIATI,

tanto voluti morti

gli amici,

di cirrosi,

di tubercolosi,

di tutte malattie che finivano in osi.

Non so perché. Sono i giorni, i mesi spesi

ad andare a trovarli.

Guanti e polsini

come Mackie Messer,

libertini variabili, niente hanno mai promesso,

hanno il sacro diritto di cambiare.

Io preferisco Jack lo Squartatore,

il gioco con l’eterno,

preferisco l’amore.

 

*

 

QUI SUL MIO TAVOLO:

ho la luce accesa,

una tazza tedesca di Bayreuth,

le biro e nella scatola

che ho foderato io di carta a fiori

la gomma il temperino

il rotolo di scotch la cucitrice,

Rapid One, è svedese.

Guardali, uno ad uno,

non pensare, non muoverti.

Solo un metro più sotto

c’è la disperazione.

Ancora un’ora, poi berrai qualcosa,

poi guarderai le mail, il telegiornale,

poi qualcuno telefona.

 

*

 

E PENSO A MIKI, carcerato a Bollate,

Miki che scrive:

“Se fossi un uomo di certo potrei

stare a sentire gli altri

e intessere parole ed argomenti

capaci di far quadrare il tutto.

Se fossi un uomo

non starei certo in branda fino a tardi

risvegliandomi

soltanto per sbrigliare

questa mia improduttiva fantasia.

Se fossi un uomo saprei senz’altro scindere

l’amore dalla figa

dividermi fra loro allegramente.

Ma un dio malvagio al capitano Achab

e a Miki sulla fronte

ha impresso questo marchio di dolore.

Fu sull’uscio di casa che mi dissero:

dove vai, non andare. Piove, non vedi?

Io riempivo lo zaino.

Non metto maschere e non seppi rispondere.

Voltai le spalle

andai.

Che mi fermassero? Non ci credevo.

E ora in questo luogo dellattesa

dove siamo e non siamo

rimpiango le parole che non dissi.

Ma voi, fratelli umani,

considerate:

è al pari di voi che respiriamo

e l’aria è una”.

 

*

 

UN NOME NOTO scrive sui giornali

e ora punta il piccolo esordiente

un orfanello, le gengive rosa

un’anima da Africa assetata,

ora celebra un forte, un arrivato

passioni tristi, un figlio del passato,

e ne dice ogni bene esagerando –

tanto per dire, ché non crede in niente

né in lui né in altri –

e anche i veri grandi l’han stufato

come i cartelli sulle case in vendita

tutte magnifiche, tutte eccezionali.

E in cuor suo: poesia, sorella pazza

della prosa,

ancora, ancora, che ci stai a fare?

 

*

 

VENEZIA SI CHIAMAVA

ma di campo in campo

non rimane nessuno.

Nebbia d’acqua e di fumo,

ultimo lembo della veste

di un dio né buono né malvagio.

Dio è indifferente e viaggia senza volto

col vento verso la terraferma

donde anch’io vengo.

Si chiamava Venezia.

Chi non c’è stato, chi non l’ha avuta?

Sono venuti sino dalle steppe.

E non c’era più altro che taverne,

cambiavaluta e gadget.

Sembrava Cuba, Haiti al tempo dei pirati.

Ma a chi importava? E non erano il peggio i transeunti,

il male oscuro

erano gli abitanti.

Il Dorsoduro intorno alla Salute

era una roccaforte di arlecchini.

Anche di far progetti contro il mare

ne avevano abbastanza.

Ora il mare è venuto.

Gli ultimi amici

se ne sono andati in terraferma.

Giù dal campo vedo

che nella casa vuota va e viene il vento.

Anche il mio piccolo gatto se n’è andato

in terraferma.

Non c’è più la Giudecca là davanti

e i pochi

deboli lumi ancora accesi

sono di gente che fa trasloco.

 

*

 

E QUANTO AL SESSO!

Pietroburgo, neve disciolta,

case ricche e bordelli da impiegati,

dietro un tramezzo rantola una pendola,

sul comodino piange una candela,

e l’icona ti guarda…

«Lei quando fa l’amore

vede questo?»

Sì, cose russe e del secolo scorso

il sottosuolo, la sonata a Kreutzer.

il sesso parla in russo

di servo e di padrone,

di due che non son uno,

e di resurrezione.

 

*

 

I VECCHI che mi scrivono e so bene perché,

i figli chissà dove, i giorni vuoti.

Vecchi tanto per dire, hanno i miei anni,

ma io ai miei non credo,

il passato è una curva

e là da quella io confondo i nomi

e a chi la scorge   ̶

confusamente –

cosa ne può importare?

Io non so abitare

che la giovinezza

io nello zaino ho solo la speranza.

 

[Immagine: Foto di Anne Lass].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *