di Giacomo Tinelli
[È uscito in questi giorni il volume di Giacomo Tinelli, L’io di carta, edizioni del Verri, Milano 2022, pp. 163. Ne pubblichiamo un estratto per gentile concessione dell’editore].
I testi primari al centro di questo libro escono negli anni zero del duemila. L’avversario e Troppi paradisi, i due libri centrali del corpus, sono pubblicati da Einaudi rispettivamente nel 2000 e nel 2006 e fanno parte di una stagione che, sebbene non sia ad enorme distanza, è sufficientemente lontana per riconoscere un significativo scarto culturale, sociale ed economico rispetto ai nostri giorni. Fino a quindici anni fa, internet e la civiltà digitale non erano ancora così massivamente diffusi; nessuno smartphone portava la rete direttamente nelle tasche delle persone; l’inquinamento, tutto sommato, era ancora percepito come un problema di qualità della vita nelle zone urbane del pianeta, e il cambiamento climatico relativamente distante nel futuro; in Europa non era ancora intervenuta la cosiddetta “crisi” del 2007/2008, che ha ristrutturato violentemente i rapporti di forza e la distribuzione delle ricchezze in occidente, sconvolgendo, in un solo decennio, la classe media e concentrando rapidamente i capitali nelle mani di poche aziende. Quei libri erano direttamente, intuitivamente contemporanei: le paturnie di un borghese, come il personaggio di Siti, tormentato dal proprio desiderio e smanioso di trovare un senso complessivo e allegorico alla società dei consumi, i dubbi etici e gli struggimenti psicologici di un alto borghese parigino come Carrère avevano una loro collocazione nel panorama dell’attualità. Leggere ciò che Siti scrive sul paradiso realizzato in terra dai consumi quindici anni dopo, quando il numero delle persone che vivono in povertà in Italia è triplicato, suona davvero beffardo. Il consumo di massa si propone sempre più come un bazar chiassoso con merci di infima qualità, il cibo diventa veleno, la plastica è ovunque, le violenze simboliche e materiali del nostro mondo sono sotto il sole. Nessun paradiso realizzato, nessun riscatto morale della borghesia. Il mito dell’affluent society naufraga in un avvenire indefinito e oscuro.
Beninteso, non che l’attualità in sé determini il valore artistico dei libri, che semmai, con il tempo acquistano una loro collocazione più definita nel sistema letterario e, azzardiamo pure, si avviano ad diventare dei classici di inizio millennio. L’allentamento del legame con il presente è inevitabile, e purtuttavia il meccanismo psichico attorno al quale si costruiscono e si orientano ideologicamente la soggettività individuale dei protagonisti nelle opere di Carrère e di Siti continua ad essere in relazione con le strategie del potere nel presente, con l’incessante sollecitazione ideologica dell’individualità singolare, che dilaga pressoché in tutti i media di oggi. Ciò che mi interessa, in Siti e Carrère, è l’esperimento formale con l’io narratore e protagonista dei testi, che evidenzia un problema cruciale della cultura contemporanea, ossia l’incontro, che nell’ambito della formazione dell’identità ciascun soggetto è inevitabilmente costretto a fare, con le immagini, in particolare con la propria. Tutto ciò è stato nominato dalla psicanalisi come fantasma: l’idea – tra l’ammaliante e il persecutorio – che ciascuno ha di se stesso; la propria immagine come forma plasmabile dal linguaggio e dai segni e tuttavia mai realmente afferrabile dal soggetto; lo specchio come paradigma della produzione di una forma spettrale, speculare e irraggiungibile che tuttavia tormenterà il soggetto per la vita. Se tale immagine, per costituzione, non può in nessun caso sovrapporsi al soggetto, essa è comunque in grado di attivare la tensione psichica narcisistica e determinare in modo sostanziale le forme e gli oggetti del desiderio. I due autori compiono un esperimento letterario proprio con questo meccanismo psichico narcisistico, mettendolo sulla pagina “letteraturizzato”. Da questo punto di vista, interrogarsi sullo strumento psichico e ideologico, cioè sul fantasma, avrà sempre un interesse al di là del rapporto con l’attualità, ed è per questo che poco sopra ho azzardato la carta – non troppo originale, in verità – del classico come un testo che non smette mai di parlarci.
Se da un lato, dunque, i rapporti di forza e di produzione hanno devastato la classe cui appartengono i protagonisti dei testi di Siti e Carrère, questo giochetto del fantasma è un dispositivo psichico ancora largamente sfruttato e sollecitato nel presente. Solo, è orientato su contenuti differenti, più aggiornati e coerenti con un’ideologia che – nel perdurare dell’euforia consumistica – possa giustificare le strette sugli stili di vita di larghe fasce della popolazione imposte nella nostra epoca. E infatti ecco all’orizzonte un nuovo puritanesimo morale, un moralismo di ritorno riguardante sempre più spesso (ad esempio) la materia ambientale. “Basta plastica, basta automobile, basta carne. Sentiamoci in colpa. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità distruggendo ambiente e società.” Nessuno, tuttavia, si preoccupa di scorporare questo “noi”, che esiste solo quando arriva il conto, non certo mentre qualcuno sta con le gambe sotto al tavolo e qualcun altro serve.
So che questa premessa sembrerebbe andare troppo oltre, se si considera che tra le mani si ha un testo di critica letteraria. Di fronte a tale obiezione, è il caso di rispondere che ignorare tali questioni significa trascurare il contesto materiale in cui si produce il campo culturale del presente, e cioè il luogo su cui insistono la letteratura e la critica. Non è lontano, cioè, il rischio di ripetere formule cristallizzate a partire da un idea di cultura che nella realtà non esiste più. Se viene a mancare l’ampio strato sociale medio al quale gran parte delle politiche culturali del novecento hanno fatto riferimento; se l’idea di consapevolezza e il concetto di egemonia non trovano più una base sulla quale attecchire; se le dinamiche sociali ed economiche e “l’imborgataramento” di cui parla Siti producono ampi strati della popolazione sostanzialmente analfabeti, allora è urgentissimo interrogarsi sul senso di una politica culturale da un punto di vista materialistico. Ne va, insomma, del senso, della capacità e persino della possibilità di un intervento nel presente culturale. Non è un caso che né Siti né Carrère tralascino il problema della capacità della letteratura di incidere nel presente: come reagire di fronte alla moltiplicazione dei linguaggi e delle narrazioni? Che rapporto ha la finzione con la realtà, qual è il loro punto di reazione? E probabilmente la vera domanda da porsi, forse un po’ smisurata ma, io trovo, centrale, è se una politica culturale sia ancora possibile in queste condizioni sociali, culturali, economiche.
Per questo, se dovessi ricominciare a scrivere questo libro probabilmente lo farei diversamente, ponendo in maniera più forte e sin da subito tale questione. Ma dato che la critica, a differenza dell’arte, forse non sa giocare d’anticipo, allora offro questo testo al lettore come uno strumento anacronistico.