di Marco Ceriani
[E’ uscito da poco per l’Associazione culturale “La Luna”, a cura di Eugenio De Signoribus, Le sollecitudini di Marco Ceriani,a cura di Eugenio De Signoribus, illustrazioni di Andrea Guerra e Riccardo Bucella, con una nota di Dario Bertini. Presentiamo una selezione delle prose, accompagnate dalla nota di Bertini].
Nota di Dario Bertini
Vertiginosamente elaborate queste prose di Marco Ceriani (Uboldo, 1953), poeta tra i più dotati della grazia della lingua, restituiscono al lettore il gusto pieno dello stile che connota la grande scrittura. Una lingua che canta, la sua, vividissima e densa, calibrata nel segno inconfondibile e indelebile del magistero kafkiano, dalle sue affilatissime pagine. Ceriani, con la maestria di un prestigiatore, allestisce e strabilia costruendo un raffinato meccanismo di specchi e citazioni in cui si proietta l’onirico sogno di una mitica Praga, riletta, riosservata, riassemblata dagli occhi poliedrici di Gregor Samsa. Le sollecitudini, appunto. Un dono raro, una benedizione per i malati dell’inguaribile leggere, tanto per chiosare “Armonia”, la prosa che innesca questo libro, polifonico e iridescente. Una scrittura che, abbandonato il terreno della tradizionale narrazione, procede per improvvisi lampi, folgorazioni, striature di magnesio in un progetto ritmico che disgrega la materia letteraria, la rivive con sguardo partecipe e commosso, nella direzione sicura di affascinare chi legge .
Con mano ferma Ceriani riesce, dunque, a plasmare una realtà, o forse meglio una surrealtà, tanto magnetica quanto aporetica, in cui le ombre dell’esistenza si trovano rischiarate dalla pirotecnìa della parola che cerca sé stessa nel labirinto della Letteratura. Allora Kafka, certo, o K. (sigla del nome dei nomi, ci avverte l’autore), ma anche Ripellino, il suo sogno boemo; Vladimír Holan, di cui Ceriani è la voce italiana; Cervantes e il suo Quijote che alterca con la sua inaspettatamente colta giumenta, la cavallaccia.
Ecco, la luce di queste prose irradia il lettore: lo stordisce per la lucidissima ironia, lo irretisce nella fittissima boscaglia della sintassi, lo alletta in un palazzo cristallino ad ascoltare il suono di lingue lontane e, come per malìa, lo tiene prigioniero.
Per questa strepitosa oreficeria stilistica che Ceriani ha cesellato per noi dovremmo essere grati e perderci irrimediabilmente nelle sue pagine.
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ARMONIA. Ahinoi! Ci sono i malati dell’inguaribile scrivere; e poi ci sono i veri scrittori.
Alla loro scrivania oblunga, buon’ultimi, come un coperchio di bara essi stanno, attenti a non obliterare il calamaio seduto come un Buddha, con la penna di corvo intintavi a crudo.
Vi ci si riparano ombrelli e bruchi.
Questi ultimi vivono invano fuor della gabbia occlusa di scrivere inguaribilmente e morir magari poi del dirigere solchi entro cui far fluire il più torvo inchiostro o schiccherare fogli nel chiostro del
frontespizio, esibendo le spigolose piaghe del vivere loro in mezzo agli uomini come digiunatori o all’opposto asceti di bulimie, ma poi nella gabbia stretta delle loro parole conoscono a fondo il segreto dell’armonia.
P. lasciami andare, lascia che rischiari alla torcia del tuo telaio di uomini – i tanti che in te tralignano – il mio segreto di stare!
La P. designa Praga (e così per il séguito: e, se pure non sempre il nome di Praga, fatti della lingua in essa parlata: sia la viva céca che l’ormai più che minoritaria tedesca).
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RITRATTO IN UNO SNATURATO SPECCHIO. «Ti vedi da te stesso, vulgato in te medesimo, nel mentre, ad uno specchio, osservandoti mutato in ripugnante insetto – un coleottero, uno scarafaggio, una blatta che va a cerchi… – con tutta la tua severa o dolce debolezza al bel principio, corroborata da assidua temperanza dello spirito, reclami, con un ammicco sbalordito delle ciglia, una solidità franca e impronta nei bei lineamenti, una trama armonica al compatto trisma dei muscoli del viso che conferiscono al tuo sguardo la mobilità più sorprendente: guance ben rasate a ogni risveglio sino a quel mattino, e abluzioni come di dovere, questo il mattutino rito.
«Ti vedi da te stesso e resti con te solo, coi begli occhi orizzontali, così simili a una fessura, che è come firma d’una folgore scagliata da pianura a monti, occhi d’un grigio-acciaio penetranti e fondi, quali mai d’altronde si dettero in alcuno di così ficcanti; come se dovesse, nella cornice dello snaturato specchio, il tuo profilo corrispondere alla sollecitudine che, la Dio mercé, metti in ogni frase quando ti curvi sulla scrivania in noce e biffi riga per riga il dossier degli ordinativi; mentre agiscono là fuori, coi digrigni della bocca, le calunnie dei tuoi tanti accoliti: Grete, il papà, la mamma, il Procuratore in carne e ossa: così pazienti di non chiedere la clemenza al Procuratore come se fosse un Tito…; ma, domineddio!, perché lui proprio, quel campione di compitezza a gogna, e non un apprendista qualsiasi, perché lui s’è scomodato, schiodandosi dalla poltrona del suo tentacolare protettorato che rifluisce fin verso noi; per una simile bazzecola perché ha procurato a sé stesso il fastidio di venirmi in casa e dover tollerare così la vista, fastidiosa ma non più che questo, del me stesso insetto sfornato a grandezza d’uomo! – e il padre arcuato nel suo sopracciglio; la madre curva nel dolore come in una gonna mal cucita; la sorella che ti sprimaccia il cuscino e il bucato ti sciorina, recando il soffione della piccata lavanda e la borragine del casto spigo; tutta insomma la bella famiglia anche se incolpevole; e osservi come fanciullesco o acerbo ti sia il profilo che accenna appena, con la curva di naso o mento, a stridulo; passandoti il pollice di mano sinistra su tempia destra; quindi facendolo scorrere, su e giù sopra e sotto, lungo l’asse del viso, come se volessi lisciarlo da un acume di zigomo in una canonica dove è in uso il tedesco; il quale apparirebbe anche più arcuato e disegna invece, sporgendo, un breve arco d’indagine sul mondo come mai se ne vide un altro simile; e perlustrando la valle incavata della guancia, nello stesso istante in cui con la tua mano destra passi intorno alla lanterna dell’orecchio sinistro, accarezzandolo come faresti col mantello di un felino, contropelo, assicuri con tutto te stesso che se l’insetto è nella sua ronzante élitra, tu sei tutto in te con la tua umbratile figura che medita.
«In mezzo a tutto questo, fissi al tuo bel volto, sfavillano due occhi scuri o nero-acciaio, che qua e là mandano lampi, come di pagliuzze insondabili di grigio.
«Accompagni, stazionando come una taccola in Janský vršek, il bieco Carnavalet dei sudarî smacchiati con liscivia.»
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POSSIBILITÀ. Infine: preso da parole inservibili, come trovandomi nel bruciaticcio schiumoso di una tonnara; all’inforcatura, sotto i rami di luna, dell’agguato prossimo al gabbo; fra le giravolte e le corse per trottola, gobba su gobba, lacca su lacca, del camion del latte e dei veicoli, a randa, di polizie perenni e infauste teorie di trabiccoli; riuscendo, col salto del rospo e il contrappunto ahimè dello sgarro, a lucerne di casamenti e cancelli più desolati di una barba di capra; alle garitte dalle complici lampade, che oscillano al rimbrotto di un alt! calunnioso, se potessi millantarmi importatore o commesso e farmi precedere da borse a molte tasche, e valigie; e, infine, preso da voluminosi dossier, balbettanti le loro accuse invisibili, leggendo nel soprassalto di gola, al vantone degli interrogatori che schiuma, in un barlume ponendomi in ceppi e catene, contraddetti allo sbuffo e anatemi, mi appendessi per essergli ligio, ma non mi detestassi delatore o se vuoi spia, sarei pur sempre uno che rade con la peluria del viso il riquadro d’una finestra, rivolta però verso il giardino più interno di un condominio, senza casino di caccia.
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RISVEGLIO SECONDO. Ma se mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte anelando a un caffè nero, forte, per favorire in me l’idea che l’alba sia già bell’e spuntata, col suo carro d’oro, pronta a correre incontro al giorno noto pei suoi progetti, futili i più, e tuttavia m’accorgo da uno stucco alle persiane che ne annullano ancora, umidamente, nella quiete, i tinnanti stecchi, com’essa è lontana; a che segno, se nel gemito dell’avvolgitore me le riavvolgo, quelle tinnanti listarelle e mi dico: è lo stesso buio infetto: dov’è la persiana? e la finestra? la casa di fronte oltre la quale c’è il campo nel suo limitare, oltre cui c’è un’altra casa e infinite altre del sobborgo che dormicchia e che dal suo indomito angelus è ancora lontano? tanto che se anche mi sottolineo, in un ritornello: è ancora buio pesto! e fuori c’è la vita estranea che noi scavalchiamo e che ci scavalca con la balza e la frangia del sonno… – è appena un istante è appena un istante, che con un balzo felino l’alba fa impallidire e tremar l’aria e poi ce la rende fulva, bionda un tratto di più, come una spiga sulla sua resta che con la cerbottana scagli chicchi tra gli stessi avvolgibili che riprendono improvvisamente vita e alitare e che, nonostante le cispe agli occhi, siamo già in grado, uno a uno, di contare, liste che ai loro bordi d’una luce impetuosa s’avvolgono nel biavo e flavo del pallore dei gigli; fatto quel balzo che ti pone nel nuovo emblema del giorno come a disdetta, chi o che cosa da te scaccerebbe quella immagine di uomo che per l’innanzi fu solo a cenare, con sé stesso avendo riguardo soltanto di lasciar tinnire nel piatto il cucchiaio, tendendo pigramente l’orecchio al pallido acquario del televisore, e che è salto d’immagine che t’atterrisce poiché ti dici:
«Dal suo fianco non fu estratta la costola della sua donna…»
Ma, se ti giri sull’altro fianco e ti riavvolgi nelle coperte!