di Gilda Policastro

 

[A un anno dalla scomparsa di Vitaliano Trevisan, riproponiamo in versione ampliata la recensione di Gilda Policastro a Black Tulips, uscita su Linkiesta del 7 novembre 2022].

 

Vitaliano Trevisan è stato uno dei più grandi autori non «della sua generazione» (come ha scritto Einaudi sulla copertina del suo ultimo libro), ma, all’opposto, della letteratura italiana non generazionale degli ultimi quarant’anni. All’interno del suo percorso il postumo Black Tulips, rivisto ma non completato dall’autore (com’è evidente dalla brusca interruzione dell’ultima pagina), si colloca cronologicamente indietro rispetto alla sua produzione più recente: soprattutto a Works, ultimo romanzo (o autofiction) edito in vita, a cui lo stesso autore fa riferimento, nel libro nuovo e purtroppo definitivo, quando retrodata di vent’anni l’esperienza che si accinge a raccontare. Un tentativo di spaccio di pezzi di auto usate in Africa, quando lavorava come portiere di notte in albergo: questa la trama, recuperata dal taccuino della sola memoria perché, nell’esperienza vissuta, l’auctor dice di non aver portato nulla con sé, volendosi affidare alla sola percezione sensoriale. Il tempo si rivela poi decisivo anche sul piano extradiegetico, dal momento che Trevisan narratore continuamente, nel testo, interrompe il racconto, dilaziona e differisce, rimandando a un’altra pagina, a un altro momento della storia: è il caso, ad esempio, della statuina che per la prima volta “porta da lui la Nigeria” tramite uno zio, o del richiamo continuo a un libro o uno scritto di là da venire, e chissà quando (chi legge lo sa, a differenza di chi scrive, o forse esattamente come lui: mai più). Insistiamo però sull’elemento intradiegetico, la dislocazione spaziale, resa plastica dalla domanda sbilenca che il narratore si lascia sfuggire di fronte alla dilatazione dei tempi e alla restrizione di indipendenza che avverte sin dall’approdo: «Che cazzo ci sono venuto in Nigeria a fare?». D’altra parte il tema del libro era stato anticipato in più occasioni con formulazione tutt’altro che accattivante: “la prostituzione delle nigeriane”, l’infimo gradino, a quanto ci informa il testo, dell’offerta in strada dei corpi di donne. Parlo, qui, volutamente di libro e non uso il termine romanzo (o, di nuovo, autofiction), che fungerebbe da moltiplicatore di vendita, almeno nelle aspettative editoriali. Lo dice l’autore stesso che si tratta piuttosto di una testimonianza di vita (e purtroppo soprattutto di non più vita), vita che, testualmente, per quanto lo riguarda, non è mai diversa dall’opera. Di sicuro non è un libro per tutti, anzi, non dovrebbe, forse, essere letto da tutti. Perché si presta a mille equivoci interpretativi rispetto all’ideologia dell’autore, la cui sola conoscenza approfondita e purtroppo irreversibilmente interrotta vale a scongiurare. E perché, soprattutto, l’autore rivisita e personalizza l’estetica del frammento e dei frantumi per la quale non siamo assolutamente pronti, come lettori, in Italia. Abbiamo amato Annie Ernaux, e di più la amiamo legittimati dal Nobel, perché i suoi paragrafi inframezzati dalla riga bianca li lega una trama riconoscibile all’interno di coordinate oramai convenzionali, e anche laddove tale trama s’avventuri in temi scabrosi, siamo sempre nei limiti dell’accettabilità (e dicibilità) borghese, familiare ai lettori nostrani (alle lettrici, soprattutto, a quanto pare). L’auctor Trevisan, maschio cisgender, dichiaratamente ostile al pensiero della differenza, ma allo stesso tempo creaturale direi francescanamente, empatico verso gli ultimi per impulso rovinoso e incontenibile, mette le mani dentro le questioni più drammatiche che riguardano la vita dei singoli e le società da perlomeno un paio di secoli: il movimento dei popoli per disperazione e costrizione, la sopraffazione e il dominio coloniale dell’Occidente predatore, dunque la tratta dei neri (delle nere, soprattutto), che muove dal Cinquecento e non è mai scomparsa, la prostituzione, appunto, e l’essere diversi, o dicotomici (uomini e donne, generi e sessi, etnie e razze, neri o bianchi) in un mondo ricompattato (o rappezzato) da una serie di parametri come il successo e la ricchezza. Anche in Nigeria, in mezzo alla più fonda sporcizia, anomia e miseria, i privilegiati hanno il box doccia in bagno e l’aria condizionata in camera. Ma il rovescio della prospettiva orientalista è subito espresso, e ribadito a più riprese: l’oyio, il bianco, lo strano, il fantasma, è lui, l’autore. E lo è prima di tutto perché lo era già: color bianco spettro e “strano” (i truccatori dei film in cui ha recitato: «ti opacizziamo»). Trevisan è stato l’unico scrittore italiano degli ultimi 40-50 anni (direi dopo Pasolini) a non sventolare il vessillo dell’accoglienza e dell’integrazione come contraltare o alternativa a quella che in Black Tulips chiama «griglia vittimologica», a riprova di una mera facciata di civiltà e di bontà elettive e, viceversa, a spostare drasticamente l’ottica spostandosi fisicamente lui in un mondo che non è il nostro, senza rete e senza protezione. Non accompagnato da nessuno, non al servizio di una tivù o di un giornale, soltanto in virtù di «amico» (così si definisce) di alcune ragazze nigeriane conosciute nel «quadrilatero del degrado», a Vicenza, sua città natale (in realtà un paese, Cavazzale, diventato periferia con l’abusivismo). Sintomatico l’episodio in cui racconta di aver aspettato impaziente l’esito di una discussione in igbo che lo riguardava:

 

[…] difficile concepire un razzismo che non sia di bianco contro nero, ma viceversa. E quando capita, come in questo caso, uno non può dirsi che, in fondo, l’uomo nero ha tutte le ragioni di odiare l’uomo bianco. Che, a guardar bene, è un altro classico pensiero da oyibo, il quale, sentendosi superiore non solo economicamente, ma anche intellettualmente e moralmente, tollera e paternamente comprende.

 

Fatica, il pubblico mainstream, a riconoscere in Trevisan uno scrittore (figurarsi il migliore, senza partita e rivali, in questo millennio), perché non apparecchia nessuna storia di quelle che ci siamo abituati a leggere nei romanzi correnti: nessuna redenzione, consolazione, ricomposizione, conciliazione, uscita verso la luce (e catabasi, se mai, nella discesa delle ragazze letteralmente deportate, tra cui la deuteragonista Adesuwa, nome parlante nell’abbreviazione ricorrente Ade). Nessuna delle idées reçues sul mondo dei diversi, degli ultimi, degli sfortunati e dei criminali: incompossibile col nostro, miracolo che ne sia tornato vivo (almeno da lì). Ma è anche l’autore che rivendica la sua diversità dalla sinistra benpensante e garantita, che esibisce la sua conclamata sociopatia nei contesti abituali per gli scrittori (i premi, i festival, le occasioni mondane), che descrive senza opacità il livellamento economicista dei fenomeni culturali e l’ingolfamento della produzione/fruizione a tutti i livelli:

 

Il commercio, lecito e non, segue le stesse logiche e pone in essere le stesse strategie: dato un territorio, si crea domanda saturando l’offerta.

 

Aggiungendo, in nota:

 

Succede lo stesso coi festival letterari […]. Nessuna voglia di approfondire. Ci basti dire che, a dispetto delle buone intenzioni, quelli che hanno avuto successo, e vogliono durare, come del resto durano, devono continuare ad avere successo, cioè incrementare o quantomeno mantenere stabile, il numero delle presenze cioè la congestione.

 

Si tratta di affondi non infrequenti, negli scritti di Trevisan che proprio in Works, sintomaticamente, aveva raccontato il transito dai lavori all’opera (sfruttando l’ambivalenza tutta inglese del termine eponimo) senza nessuna epica trionfalistica, e al contrario non nascondendo insoddisfazione, disincanto e scherno verso lo stesso autoinganno. Ma qui c’è in ballo qualcosa di più grosso e potente del mondo letterario-editoriale-merceologico. La parola che viene sempre in mente leggendo Black tulips è pericolo: perché le strade sono buie, perché gli sconosciuti sono infidi, perché gli agenti a tutela dell’ordine manganellano alla cieca, e nemmeno di quelli che hai sempre accanto puoi veramente fidarti. La stessa percezione diretta è incerta, oscillante, annebbiata dalla stanchezza, dalla fatica fisica, da stati allucinatori dovuti al caldo, all’umido, alla notte, al sonno. L’inconciliabilità perenne è la vera forza che anima il dramma, cioè la vita: le contraddizioni e tutto quello che non puoi accomodare in un ordito predisposto dalla sartoria romanzetto e devi per forza eiettare in frammenti, con tanto di note, note su note, a ogni pagina, con la funzione di esaltare la visione obliqua («le note sono scorci», cioè un modo di vedere le cose da un’altra prospettiva, non frontale). Quello che fa, in questo libro, Trevisan, è coerente con il suo percorso, ma anche profondamente nuovo: la sua lingua si rastrema, alla Beckett: modello convocato sorprendentemente nella parte finale, che piega verso una visione quasi elegiaca della condizione schiavile delle donne di strada (anzi, delle donne che sotto la strada, da un pertugio, ingannano le attese immaginando le vite e le storie dei passanti attraverso frammenti di visione – from the shoes, con trasparente allegoria). Ma, di più, si allenta e contrae, si nega e autocancella proprio nell’atto di sddoppiarsi nella traduzione dal pidgin, e nella sua perfetta padronanza: ne rimane una specie di scheletro, snodi di senso lasciati andare a mo’ di appunti, in loose writing, scrittura a perdere (o voce robotica, come da navigatore di Google). E più toglie più parla, questa lingua: dell’impotenza di fronte al dolore, dell’inadeguatezza degli strumenti umani, della sofferenza, delle differenze, delle disuguaglianze, della precarietà, della sofferenza (sì, di nuovo: citando l’autore «nel dubbio, ripeto due») e dell’insofferenza di fronte alla normalità dei comportamenti socialmente passabili o peggio obbligatori (non siamo «normali», siamo «normati», nell’adesione al circuito produttivo e riproduttivo), della malattia (lucidità o eccesso di profondità) fisica e mentale, della fatalità, del proposito o del desiderio di morire, del disagio di tutti e di ciascuno in un modo suo proprio. È un libro che fa vergognare il lettore (o almeno, dovrebbe) di non essere all’altezza del compito, agli occhi di uno che ci vedeva così scorciato, e acuminato. A distanza di un anno dalla morte, scusaci ancora, Vitaliano, e grazie, di questa ennesima sberla. Ogni libro di Trevisan lo è, ma questa volta la lacerazione è immedicabile.

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