di Emanuele Zinato – Università libera, Università del futuro

 

I docenti universitari dovrebbero alzare di più la testa e guardarsi intorno: leggere sul serio le mail che ricevono in gran numero dalle strutture e guardare a come mutano i nomi e i concetti nella gestione dei loro atenei. Questo vagabondaggio “etnografico”, taccuino alla mano, come faceva il Balzac delle Illusioni perdute nella Parigi del primo ottocento, permetterebbe l’incontro con molte specie nuove e proliferanti e con nuovi profili umani. A esempio, le affollate aree comunicazione e marketing e gli Uffici eventi permanenti, il cui nome assonanzato include il non neutrale termine che domina tutte le “terze missioni”. Oppure, i servizi Ranking che ci informano come l’agenzia QS abbia appena avviato un processo di raccolta dati per l’“indagine reputazionale”. Reputazionale come emozionale o come promozionale: è proprio questo sintagma, un po’ poliziesco e un po’ anglomercantile, che mi spinge a formulare questa breve proposta.

 

Propongo a tutti i colleghi di svolgere una flânerie conoscitiva: una verifica delle parole-chiave più utilizzate nelle autodefinizioni dei nostri organi di gestione ai fini di collaudarne il senso, in modo straniante, e di misurarne il quoziente ideologico. Nei siti degli atenei, come in quelli delle imprese, ogni area oggi “vetrinizza” la sua mission. A esempio, le Aree organizzative della nostra Università si propongono tutte al pubblico mediante un breve slogan in inglese aziendale, subito dopo tradotto in un italiano modellato sul medesimo registro. Alcune parole ricorrono più volte, e sono quelle già individuate e criticate da Federico Bertoni in Universitaly: la cultura in scatola[1] (competitività, talento, eccellenza, opportunità), altre risultano non tradotte perché probabilmente considerate ormai patrimonio indiscusso. Proprio queste ultime meritano un supplemento d’indagine.

 

A esempio, l’ARRI (L’Area Ricerca e Rapporti con le Imprese) condensa la sua mission nel motto “We support university stakeholders in achieving their objectives: research funds, employment for graduates and innovation for companies”. Lo slogan viene subito dopo tradotto così: “Aiutiamo gli stakeholders dell’Università a realizzare i loro obiettivi: finanziamenti per i ricercatori, occupazione per i laureati, innovazione per le imprese”. Il termine Stakeholders non è tradotto: nel campo del management, con questo lemma ci si riferisce ai soggetti che possono influenzare il raggiungimento di un obiettivo aziendale, in quanto “titolari di fatto di interessi d’impresa” (investitori, clienti o fornitori).

 

L’ARU è l’Area delle Risorse Umane nella cui mission, spicca il termine teams: le squadre che collaborano alle medesime imprese. Si potrebbe dire una équipe: ma il termine francese risulterebbe desueto perché associato, nel senso comune, a un gruppo di lavoro scientifico, là dove quello inglese ha una sua più forte connotazione tecnica, economica e imprenditoriale.

 

We aim to develop talent and to create winning teams that are able to plan straightforward solutions to reach complex goals.

Sviluppiamo i talenti di tutti per formare teams di successo capaci di progettare soluzioni semplici per raggiungere obiettivi complessi.

 

Infine, la mission dell’ASIT, l’Area dei Servizi Informatici, è così sintetizzata e tradotta:

 

We aspire to achieve appreciation of our technological services, to take responsibility for development, to offer customer-oriented services, and to guarantee rapid intervention.

Desideriamo far apprezzare i nostri servizi tecnologici, assumiamo il rischio dello sviluppo, offriamo servizi orientati al cliente e interveniamo velocemente.

 

In questo caso spicca, tradotto, customer-oriented, l’attitudine del marketing dei servizi che più coinvolge la sfera “emozionale” e che comprende tutte le attività immateriali di after sales service.

Più in generale, torsioni e pudori rivelatori sembrano far capolino nelle traduzioni dei testi delle mission. Così “We aim to develop talent” diventa “Sviluppiamo i talenti di tutti”, con estensione ecumenica o addolcimento della selezione competitiva; “winning teams” diventa “teams di successo” piuttosto che “vincenti”; “appreciation” è reso senz’altro con “apprezzamento”, mentre il contesto vorrebbe, forse, un più neutro “consapevolezza”; e “responsibility” diventa “rischio”.

 

Un rapido vagabondaggio fra le parole che denominano scopi e azioni dei nostri uffici, insomma, ci rivela che i professori, i ricercatori, gli assegnisti, i laureati e gli studenti attuali sono inclusi, con qualche residua esitazione, in un habitat gestionale che li rende omologhi ai clienti, agli investitori e ai fornitori. Da questa medesima visione del mondo consegue l’istituzione degli “indicatori reputazionali” da parte di QS World University Ranking, uno dei grandi fornitori mondiali di ranking sulle università, creato per valutare gli atenei attraverso due gruppi di indicatori: gli indicatori reputazionali e quelli statistici. Nello specifico, gli indicatori reputazionali considerati da QS sono sei: i primi due sono la Reputazione accademica e la Reputazione aziendale.

 

Chi insegna all’università senza aver frequentato una Business School fatica ad applicare alla didattica e alla ricerca, se intesi come dialogo formativo e come critica dei saperi, questa griglia concettuale. Charles Fombrun, il fondatore del Reputation Institute, ci dice che l’interesse crescente nei confronti della reputazione dipende dall’influenza che questa esercita sulla competitività̀ dell’impresa. Per Fombrun (cfr. Reputazione: realizzare valore dall’immagine aziendale, Harvard Business School, Harvard, 1996), la reputazione è diventata in buona sostanza il vero indice per misurare le relazioni tra l’impresa e il mondo circostante: i modelli “innovativi” di rendicontazione d’impresa si devono basare su indagini che ibridano la performance economica (la qualità) con la sua performance simbolica, cioè con il modo in cui l’habitat socio-economico la percepisce. Il tasso di gradimento “morale” di un Ateneo da parte dei vari portatori d’interesse, è dunque assimilato a quello di una impresa.

 

I nomi dati alle cose non sono il risultato di un processo oggettivo e neutrale: hanno a che fare con un’egemonia ideologica, economica e politica. Il linguaggio, insomma, è sempre un segno e un sintomo da decifrare. Dunque, anziché accogliere passivamente i concetti e i processi ai quali alludono, considerati sempre più naturali e inevitabili, si può iniziare a discuterli in modo libero e critico. Gli anglismi aziendali nelle odierne università si combinano con la banalizzazione delle parole italiane nel conseguire un medesimo fine retorico tautologico e sillogistico: se si dice che la valutazione della ricerca si sta evolvendo grazie al rating reputazionale, a esempio, il verbo non è neutrale perché l’evoluzione e la novità oggi sono considerate sempre di segno positivo, mentre anche solo nominare le aree semantiche dell’ipotetico e del dubbio (per non dire del pensiero negativo o della critica dell’ideologia) potrebbe risultare sgradevole o lesivo dell’immagine ai fini “reputazionali”.

 

 La pietra d’inciampo per queste retoriche dominanti è (era?) data dal fatto che l’intera libera ricerca e la didattica si fondano (si fondavano?) costitutivamente sulla semantica dialogica dell’ipotetico e del dubbio. Viceversa, una università-azienda incentrata sul tasso di gradimento percepito, sugli stakeholders e sulla presunta oggettività degli algoritmi, esige un monologo che sciorina certezze e slogan: ritenuti “vincenti” perché esibiti come fondati su indicatori assoluti, assunti come indiscutibili.

 

Certo, dopo questo vagabondaggio critico e ironico tra le parole più frequenti, ci potremo sentir dire che siamo stati un po’ visionari e un po’ burloni, nonché “nostalgici” e “fuori dal mondo”, perché da tempo non siamo più nel contesto del modello humboltiano di università e perché già Max Weber un secolo fa aveva prefigurato il processo di “americanizzazione” dell’accademia. Mi sembra tuttavia lecito e necessario alzare lo sguardo, chiedersi cosa resti della nostra libertà intellettuale a processo di aziendalizzazione consumato. Non solo per criticare i modi e i rapporti di forza in cui oggi si concepisce, s’impone, si misura e si produce il “valore” di un Ateneo, ma anche per verificare se si possono allargare gli interstizi residui del nostro pensiero critico.

 

[1] “Perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane? Questa è la domanda fondamentale da porre all’università italiana del XXI secolo.” (F. Bertoni, Universitaly: la cultura in scatola, Laterza, 2016).

8 thoughts on “Reputazione accademica e libertà intellettuale

  1. Condivido assolutamente l’analisi di Zinato. Il processo di trasformazione delle Università in aziende di erogazione di CFU ha dei corollari devastanti: a)si addita e progressivamente si bandisce l’insegnamento della complessità (leggere intensivamente, scrivere, commentare, avere un atteggiamento critico attivo e consapevole, per stare ai nostri ambiti); b) si producono e accettano forme di precarizzazione della ricerca umanamente mortificanti e che stanno espellendo alcune delle migliori personalità; c) si annega il lavoro scientifico in una erogazione di titoli che rischiano di diventare vuoti (comanda la filosofia delle private telematiche, dell’insegnamento à la page, la qualità culturale si abbassa vertiginosamente proprio mentre una trasformazione antropologica globale sta telematizzando le menti, con fenomeni tragici di crollo cognitivo…). Si potrebbe continuare… Ma purtroppo i docenti non si organizzano e non fanno blocco sociale e intellettuale, come dovrebbero…

  2. ” Anglomercantile “. Mi sono ricordato di quando ho capito che gli inglesi sono, soprattutto, gente che vende. E’ stato molti anni fa, al British Council, quando ho scoperto che la British Library offre un magnifico servizio di fotocopie ma lo fa pagare magnificamente caro. Comunque mi è anche tornato in mente un diario che offro qui alla lettura, se qualcuno gradisce – in ogni caso: è assolutamente gratis: “ Lunedì 29 settembre 1997 – Stamani è stata una mattinata divertente perché invece che in biblioteca sono stato in giro per Roma. Ma non dirò del meraviglioso palazzo dei Dragoni in cui ha sede il British Council – era là che dovevo andare per la presentazione del nuovo sistema informatico Inside -, né della scalinata di marmo con gli scalini generosamente bassi, né delle volte allegramente affrescate, né di quanto « stiano bene » insieme i cento colori delle pareti dipinte con il bianco severo dei computer, il nero degli scaffali e il rosso della moquette, né dell’irresistibile direttore dell’agenzia italiana della British Library, un irlandese rosso e grasso che parlava un perfetto anglo-toscano – il così detto anglo-becero -, né della cravatta rosa del direttore generale della BL, né della magnifica giornata di sole, un sole da « settembrata romana », come ha detto il goffo spiritoso ubriacone insulare, né dei due indiani di cui uno con turbante viola che mi sono apparsi di fronte sbucando in via XX settembre, a ribadire l’impressione di « viaggio in Inghilterra » di questa strana mattina, bensì di fotografie. Nel senso di rollini. Allegro come un turista appena arrivato, ne ho comprati due in una confezione con annesso palloncino – da gonfiare. Il prezzo ammontava a lire italiane quattordicimila, ma, quando ho affidato alla commessa due banconote da diecimila, la giovinotta me ne ha chiesta una da mille, e, ricevutala, me ne ha data una da cinque. Io, sempre allegro come il turista di prima, me ne stavo già andando quando chi era con me – una specie di angelo custode – mi ha fatto notare che i conti non tornavano. Era la venditrice che doveva darmi mille lire anzi, a quel punto, duemila, altro che palloncino. Le ho avute, con tante ipocrite scuse, ma non era finita lì. Arrivato a casa ho constatato che i due rollini, in luogo delle previste trentasei pose, ne contenevano ventiquattro: quella voleva fregarmi e, in un modo o nell’altro, c’era riuscita. Per certa gente, ho pensato, rubare è una specie di vizio. « Inglese? » No, italiese. (Così, ho pensato, m’imparo a non stare « inside ». « “ Inside “ in che senso? » Nel senso di « in campana ») “.

  3. “chiedersi cosa resti della nostra libertà intellettuale a processo di aziendalizzazione consumato. Non solo per criticare i modi e i rapporti di forza in cui oggi si concepisce, s’impone, si misura e si produce il “valore” di un Ateneo, ma anche per verificare se si possono allargare gli interstizi residui del nostro pensiero critico.” (Zinato)
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    Scusa ,Emanuele, quando i buoi sono già scappati dalla stalla (universitaria, nel vostro caso), vuoi “criticare i modi e i rapporti di forza”? E “allargare gli interstizi del […] pensiero critico”, che è stato espulso non solo dall’università ma dalla società italiana? Cercarsi – ammesso che sia ancora possibile – delle catacombe, mi pare più saggio e (forse) lungimirante. Un saluto

  4. Francamente, devo dire che il colto, argomentato e logico articolo del Prof. Zinato mi ha spaventato. Ne è passato di tempo dal film di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello spazio” (del 1968) ma solo oggi ho compreso il viaggio che ha fatto la scienza, e dunque la cultura, passando dalla classicità all’ipertecnologia, per finire infine nelle mani di Hal 9000, il super-computer che si ribella all’uomo e prende il comando della missione per farla fallire. Ebbene, come nel film, l’astronave Università è ormai fuori controllo umano, preda ormai delle allucinazioni mercatiste (per dirla con un neologismo), della burocrazia digitale, di un linguaggio quasi disumano, di una ideologia che del merito ha solo l’insegna. Mi sono spaventato perché quando il linguaggio cambia paradigma vuol dire che la società si è trasformata, non è più quella che crediamo che sia, ma ha imboccato la strada dell’assurdo, e dunque non solo le élite economiche e intellettuali ci strumentalizzano, ma anche il linguaggio ci prende in giro. Come ha scritto Jean-Paul Fitoussi (“La neolingua dell’economia”)….”ormai parliamo una nuova lingua, impoverita e condivisa, con scarsi contatti con la realtà. Invece di controllare il linguaggio, siamo noi a esserne controllati. …Questo discorso si applica all’unica grammatica che ormai ottiene consenso in economia, quella legata all’homo oeconomicus”. La neolingua dell’economia, zeppa di anglicismi e di concetti presi dal “mercato” (come merito, profitto, competenza, competizione, successo, profitto, concorrenza ecc.) è basata su una teoria immaginaria (le dottrine neoliberiste) e ce ne serviamo per piegare la realtà ai bisogni indotti dal mercato, emarginando la nostra comprensione al frammento più improbabile del reale. Il discorso del Prof. Zinato è insomma la summa di questo nuovo paradigma linguistico, che dimostra l’avvenuta palingenesi della sovrastruttura scolastica e universitaria, secondo i desiderata imposti dalle leggi del mercato, attraverso nuovi ordinamenti e nuove riforme approvate dai governi negli ultimi trent’anni, ma dettate e coordinate dall’UE. Si può dunque dire che il processo di burocratizzazione centralistica delle istituzioni scolastiche, equiparate incoscientemente a organismi aziendali, è compiuto, salvo un successivo passo legislativo e politico verso una più accentuata privatizzazione dei servizi (scuola, sanità, trasporti, energia). Siamo perciò nel pieno di una rivoluzione che da un lato americanizza tutto l’occidente, dall’altro riduce la funzione educativa e formativa a semplice strumento di somministrazione di competenze, secondo le esigenze del mercato del lavoro. Non più persone di cultura e di autonomia critica, ma individui specializzati e ben addestrati al culto della competizione, della flessibilità, dell’innovazione, del successo, della precarietà. Questa è la nuova missione dell’Università e non solo. Le élite intellettuali e le baronie universitarie, assumono in questo quadro la funzione di dispositivi del potere economico e amministrativo delle élite finanziarie, come parte di una burocrazia parastatale senz’anima e senza missione, rivolta a produrre e riprodurre quel “capitale umano” necessario alla efficienza e alla efficacia della mega-macchina capitalistica globale. Mi spiace per il Prof. Zinato, e comprendo il suo malumore e la delusione per essere passati da élite intellettuale a impiegati di concetto di una assurda e alienante macchina burocratica, ma l’essersi lasciati travolgere da una “tempesta perfetta” senza opporre nessuna resistenza, anzi, accomodandosi alla meglio nel nuovo contesto, che mette tutti in competizione (singoli professori e singole Università) è forse stato il più grave errore storico che una Istituzione prestigiosa e una élite intellettuale abbiano potuto fare dal dopoguerra a oggi. E averlo fatto nell’indifferenza generale è ancora più grave e doloroso.

  5. Pur essendo sempre stato uno non omologato al sistema scolastico dominante (per cui ho pagato di persona), preferisco il modello universitario americano (che almeno ti fornisce gli strumenti per mangiare) a quello intellettualoide italico, pieno di aria fritta, sofismi, demagogia di sinistra ed ipocrisia spinta.

  6. Nel ringraziare chi è intervenuto per i commenti, aggiungo in breve:
    @Attilio Scuderi e @Giannantonio hanno toccato, nella loro conclusione , il nocciolo della questione: “i docenti non si organizzano e non fanno blocco sociale e intellettuale, come dovrebbero”; “senza opporre nessuna resistenza, anzi, accomodandosi alla meglio nel nuovo contesto”.
    Mentre gli studenti, con il movimento dell’ Onda Anomala hanno cercato – per l’ultima volta? – di opporsi attivamente nel 2008-9 (in quell’occasione il Presidente emerito Cossiga invitò il ministro dell’interno Maroni a infiltrare nel movimento agenti provocatori per screditarlo), i docenti universitari italiani restarono, anche allora, del tutto passivi.
    Dunque si può dire, davanti alla compiuta aziendalizzazione dei saperi, che, come scrive @Abate, “i buoi sono scappati da tempo dalla stalla”. Catacombe o interstizi che siano, personalmente non mi rassegno alla passività: credo ci sia sempre un momento per alzare la testa. Bertoni a esempio in Universitaly (2016) suggerisce un decalogo di resistenza incentrato sulla rinuncia al ricatto di ricevere valutazioni negative, oltre i ruoli ideologici che ci governato.

  7. Per completezza, ricordo che anche la scuola pubblica è oggi investita dal medesimo processo. Mi riferisco in specie al “Piano scuola 4.0” il cui lemmario è altrettanto tracotante e lesivo della libertà intellettuale. Anche a scuola domina la passività e l’ìndolenza con cui le ‘novità’ vengono accolte dagli insegnanti, con la segreta speranza che l’inerzia prevalga e che tutto resti immobile. O che arrivino quattrini da utilizzare poi autonomamente. In realtà stavolta i processi sono rapidi e irreversibili: anche perché supportati da molto denaro. Occorre dunque uscire dal cinismo: sarebbe già molto se si riuscisse ad alzare la mano nei Consigli (d’istituto e di Dipartimento) in molti – e non importa se in minoranza – e dire come Bartleby, (come suggerisce Bertoni) “I would prefer not to”, oltrepassando la rassegnazione e l’autosorveglianza.

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