di Valentina Sturli

 

La vita nascosta (Il ramo e la foglia, 2022), primo romanzo di Raffaele Donnarumma, affronta in poco più di trecento pagine un tema che, almeno apparentemente, abbiamo già visto trattare in altri testi: la vicenda è raccontata da parte di un ‘io’ narrante accademico, gay, quarantenne, in un momento cruciale della sua vita; il romanzo, infatti, si apre con la fine della relazione con l’uomo con cui il protagonista conviveva stabilmente. Mondo gay, accademia, prima persona evocano al lettore del romanzo italiano contemporaneo quasi automaticamente lo spettro di Walter Siti, spettro che sembrerebbe farsi più sostanzioso nel momento in cui si scopre che il testo, con un forte andamento saggistico soprattutto nella prima parte, parla anche di piattaforme di incontri, di palestre, di ossessione per il corpo e per l’immagine, di concorsi più o meno truccati, di beghe coi colleghi di università, di piccolo mondo di rivalità provinciali, di facciate pubbliche e di vite nascoste. Eppure.

 

Eppure, al netto di una certa aria di famiglia, il romanzo si dimostra di fatto piuttosto distante dal mondo di Walter Siti, spettro che ho evocato per lasciarlo dissolvere subito. Perché, se la materia sembrerebbe a tutta prima riprendere alcuni temi e stilemi che hanno imperato nel ‘sitismo’ a cavallo tra anni Zero e anni Dieci (Scuola di Nudo, Un amore normale, Troppi paradisi, Il contagio, Autopsia dell’ossessione, Exit Strategy etc.), il modo di raccontare, la voce di chi prende la parola sono completamente diversi. Diversi perché pieni di una strana – verrebbe quasi voglia di dire ‘anomala’ – carica di pietas dolente. Ma andiamo per ordine.

Il romanzo si apre con la fine del ménage tra il protagonista, quarantenne professore di università arrivato alla cattedra dopo anni di precariato, e il suo convivente S. La relazione è stanca, si trascina; i due si sono amati e traditi senza dirselo; quando uno dei due lo scopre, l’altro è messo con le spalle al muro e si lasciano. La scomparsa di S. apre una falla nella vita del protagonista, che ripercorre a ritroso il cammino che, da una disordinata scoperta del proprio desiderio omoerotico in adolescenza, sempre velata di tremore e vergogna, lo aveva portato ad una relazione stabile più o meno alla luce del giorno. Si iscrive quindi a un sito di incontri, ed entra nel mondo delle chat. Ora – qui è necessaria una brevissima pausa per un’osservazione: se c’è una cosa che invecchia in fretta, in certi romanzi, è il racconto minuzioso dell’uso di certe tecnologie di comunicazione, che poi vengono sorpassate in breve tempo. Se a qualcuno venisse in mente di ripescare un romanzo in cui gran parte della comunicazione tra i personaggi avviene sulla chat dell’antidiluviano MSN Messenger, o si usa il linguaggio degli sms che ci scambiavamo col Nokia 3310 nei primi anni Duemila, probabilmente quel linguaggio, quelle parole, quei testi ci sembrerebbero inesorabilmente invecchiati.

 

Bene, ci si potrebbe chiedere se è così anche per il mondo dei siti di incontri e delle chat descritti nel romanzo di Donnarumma. E ci si dovrebbe rispondere che il rischio viene sfiorato, ma in sostanza evitato: perché a parlare, a scandire le frasi, a interrogarsi sul senso di una emoticon ricevuta in risposta o ad attendere che una certa finestra si apra, è sempre quell’io moderatamente nevrotico, dalla voce pacata, curiosamente dolente. In altri termini, il mezzo tecnologico, il mondo delle chat, le insidie e le derive delle piattaforme di incontri sono esplorate sì con sguardo saggistico, ma mai fine a se stesso o didascalico. Fanno sempre parte dell’intreccio, sostanziano un certo mondo romanzesco – e forse questo è il punto di contatto più autentico e più proficuo con Siti. E tuttavia, a differenza di quest’ultimo (e per fortuna, si sarebbe tentati di aggiungere), in Donnarumma non c’è alcuna compiaciuta vertigine di abbrutimento.

 

Ma torniamo alla trama; sul sito di incontri, dove si può chattare in tempo reale anche senza poi doversi incontrare davvero, il protagonista fa la conoscenza di L., un ragazzo che si è addottorato nello stesso Dipartimento dove lavora anche lui. Dopo una serie di resistenze iniziali, soprattutto dovute alla paura che la vita professionale e la vita nascosta possano cominciare a coincidere, il protagonista si abbandona a quello che assomiglia sempre di più a un amore. L. è giovane, molto bello, intelligente, fascinoso, indolente, fidanzato e dedito a incontri occasionali: è, insomma, tutto quel che non potrebbe essere un compagno affidabile e quindi, proprio in virtù del fatto che ogni benché è segretamente un perché, il protagonista – che sa benissimo che sarebbe saggio giragli alla larga – sempre di più si fa attrarre nella sua orbita.

E qui, ancora una volta, potrebbe essere evocato un fantasma che però andrà subito, ancora una volta, tenuto a bada: quello delle tante narrazioni che, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Duemila narrano della vicenda di un intellettuale che si degrada per amore. È noto il pattern, che riguarda indifferentemente amori omo ed etero sessuali: si pensi a Emilio Brentani con Angiolina in Senilità, a Gustav von Aschenbach con Tadzio, ma anche al grottesco Professor Unrat del romanzo omonimo di Heinrich Mann… e la lista potrebbe essere ancora molto lunga, passando da Nabokov a Buzzati, da Moravia a Bassani a Coetzee fino appunto a Walter e al suo legame col culturista Marcello. In queste narrazioni un intellettuale dotato di una certa autorità cade preda dell’amore totale per un oggetto del desiderio che non solo non lo ricambia minimamente, ma che lo porta – passo fatale dopo passo fatale – sempre più sulla via dello smarrimento e del ridicolo. Bene, quando nel romanzo di Donnarumma entra in scena il personaggio di L., si può avere per qualche pagina l’impressione di incanalarsi in una trama analoga: il bel giovanotto che fa perdere la testa a chi la testa non vorrebbe né dovrebbe perderla.

 

E invece non è così, perché se è vero che il protagonista perde la testa per lui, non lo fa tanto e solo perché L. è bello, misterioso, sfuggente, ma perché proprio al centro di L. c’è un vuoto. Qui viene, a mio parere, la parte migliore del romanzo, la parte che fa davvero dire che chi l’ha scritto è dotato di una sensibilità letteraria – ma prima ancora psicologica – non comune: perché, dopo avere evocato la possibilità di uno schema già visto e averci giocato per un po’, ancora una volta lo disattende completamente. Le sparizioni di L., i suoi lunghissimi silenzi, le non risposte ai messaggi non sono infatti civetteria o disinteresse – del tipo, per intendersi, di quello che Eraldo Deliliers prova per il dottor Fadigati negli Occhiali d’oro di Bassani – no.

 

Quello che il protagonista scopre strada facendo è che L. soffre di depressione, in una forma abbastanza grave da farlo sparire per giorni, rispondere a monosillabi, vagare per la città senza uno scopo. E qui Donnarumma prova a parlare di una condizione difficilissima: quella di chi si trovi ad amare qualcuno che è spesso altrove, molto lontano, e che in questa sua lontananza suscita insieme sentimenti di rabbia, strazio, protettività, attrazione e impotenza. Man mano che il rapporto va avanti – se avanti si può dire per qualcosa che in realtà si avvita su sé stesso senza scampo – il protagonista capisce di essere legato a qualcuno che non ha centro né sostanza, e rimane calamitato proprio dal vuoto che porta l’amato a dissiparsi e a dissipare ogni occasione di vita. Il protagonista farà diversi tentativi di reagire, tutti ovviamente fallimentari: a niente serve prodigare cure paterne, a niente le esplosioni di rabbia, il prendere l’altro ‘con le buone’, il tentare (invano) di ferirlo, o di entrare nella sua vita rendendosi a lui indispensabile. Al termine di ogni nuova prova c’è sempre e comunque lo scacco. Uno scacco cui, nel finale, contribuirà attivamente il protagonista, e cioè proprio colui che aveva tentato di salvare l’amato, di ridare a quella vita un suo senso.

 

La vita nascosta è la narrazione esemplare, e verrebbe quasi da dire paradigmatica, di tutti quei rapporti in cui qualcuno, volendo salvare un altro, sta in realtà cercando di salvare se stesso; e di come spesso, venendo al contempo attratti e irritati dal vuoto al centro di qualcuno, stiamo in realtà cercando di venire a patti con ciò che è assurdo e intollerabile in noi. Cosa che la voce tenera e chirurgica di chi dice ‘io’ in questo romanzo sembra alla fine rivelarci molto bene, proprio a partire da una decisione fatale che il protagonista prenderà e che metterà fine al miraggio di rendere l’altro uguale a sé stesso, ovvero salvarlo da un destino di fallimento e di inerzia cui forse lo stesso protagonista, nonostante il suo successo accademico, teme di non essere riuscito a scampare.

 

 

[Immagine: Antony Crossfield, Dave 360].

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