di Rachel Bespaloff
a cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò
[Proponiamo alcuni estratti da L’eternità nell’istante. Gli anni francesi 1932-1942 di Rachel Bespaloff, a cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò, uscito da poco per Castelvecchi editore © 2022 Lit edizioni s.a.s.
Nata in Bulgaria nel 1895 da una famiglia ebrea di origini ucraine, cresciuta in Svizzera dove studia composizione prima di trasferirsi a Parigi negli anni Venti, Rachel Bespaloff è una filosofa i cui scritti sono oggetto di una nuova grande attenzione nel panorama internazionale. Tra le prime interpreti di Heidegger, dialoga con Gabriel Marcel, Jean Wahl, Gaston Fessard, prima di emigrare negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione nazifascista. Qui insegnerà letteratura francese e organizzerà gli Entretiens di Pontigny, ospitando Jean-Paul Sartre, Hannah Arendt e Jacques Maritain.]
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Il costo della pace. Il pensiero di Rachel Bespaloff
Da “Sulla questione ebraica”, lettera del 4 ottobre 1938 (pp. 404-497)
Caro signore, ciò che è appena successo è talmente inaudito che non ci basterà tutta la vita per valutarne la portata. La storia è forse quello che lei diceva: alcune giornate fatidiche di cui un’epoca, poi, dovrà sbrogliare le conseguenze. Dopo la crisi, interrotta da questa folle tensione, stordita, ritrovo con stupore la vita quotidiana. Non si andrà a combattere. C’è quell’infinito sollievo per i propri cari, per tutto ciò che si ama, per la Francia. E, al contempo, quale umiliazione! Eccola qui, dunque, questa pace costosa, tutta precaria e provvisoria, così lontana da quella che ci era necessaria. «Una pace nell’onore» dicono. Non vedo l’onore… Mai il testo di Péguy ha avuto più ampie risonanze. Mi ossessiona in questi giorni. Non so se abbia sentito il discorso di Hitler, per radio. Era la prima volta che lo sentivo parlare e l’ho trovato temibile – nonostante tutto – per quel fascino potente che la fede assoluta nel proprio destino gli dà, per quella potenza di odio (eccolo, l’odio) che emana da lui e assilla il suo popolo, e soprattutto per quell’arte di costruire una realtà sulla menzogna più impudente che si sia mai vista, con il cemento di qualche verità. E più aumentavano le menzogne, alla fine del suo discorso, più era spaventoso: ogni parola faceva sanguinare in anticipo la vittima.
Wir sind entschlossen,
Mag Herr Beneš jetzl wählen.
L’ironia di quel wählen… ma quale senso del ritmo! L’indomani, devo confessarlo, ascoltando Chamberlain, sono rimasta tremendamente delusa. Dietro quella nobiltà, non scorgo altro che stanchezza, abdicazione, mancanza di fede nella propria causa… Quanto ha ragione Tolstoj quando afferma, in Guerra e pace, che la vittoria appartiene non a colui che ha l’armata più forte, ma a colui che ha meno paura di combattere. E, certo, non sto dicendo che fosse necessario combattere, ma che il modo con cui è stata evitata la guerra equivale a una terribile sconfitta. C’era soltanto quell’alternativa? In ogni caso, Hitler ha appena vinto la guerra del 1914. Che sorga da qui un nuovo ordine dell’Europa, può darsi. Che sia ciò che auspichiamo, ne dubito…
Confesso pure che trovo indecente lo spettacolo di queste folle che applaudono gli uomini che portano loro la pace di Hitler, le condizioni dell’armistizio di Hitler, condizioni che avrebbero rigettato con disprezzo se avessero osato presentargliele qualche mese prima. È scandaloso che la sventurata Cecoslovacchia debba assistere al giubilo del mondo mentre la stanno smembrando… Eppure, se c’è qualcosa che gioca contro Hitler, in questo momento, è proprio quella pace che lo invischia intralciando i suoi movimenti, la felicità dei popoli graziati all’ultimo secondo. Lo sventurato ha dovuto rassegnarsi al peggio: eccolo costretto ad accettare ciò che voleva strappare… Credo di non aver mai capito, prima di oggi, che cosa significhi la parola PACE. Ma non era più una parola, era un immenso incantesimo formato da tutti i terrori, da tutte le suppliche, non dell’umanità in generale, ma di ogni individuo in particolare. Era prodigioso…. D’altra parte, sono proprio convinta che tutto quanto accaduto non poteva non accadere. Di fronte alla Germania quale è – «i tedeschi credono che la forza debba manifestarsi con la durezza e la crudeltà, quindi si sottomettono volentieri e con ammirazione; si sentono una volta per tutte sbarazzati della loro sensibilità per le più piccole cose, e si godono religiosamente il proprio terrore» (non sono io a sottolineare, ma Nietzsche) – l’Europa stanca e sazia del dopoguerra non ha saputo essere abbastanza forte per essere giusta… Si parla molto in questo momento degli errori del Trattato di Versailles, ma chi osa ancora ricordarsi che è stata la Germania a volere e a fare la guerra? Questo avvilimento davanti al vincitore non mi rallegra affatto… In realtà, non so se Chamberlain sia un salvatore o un becchino… Credo tuttavia – e qui temo che non saremo d’accordo – che sia stato un errore scartare sistematicamente la Russia, non dico dalla Conferenza di Monaco, ma da tutte le trattative. Stalin non è più attraente di Hitler, ma la Russia non sarà sempre staliniana e si ricorderà di tale disprezzo. Non è lei a dover temere di più le imprese della Germania. Basti vedere, del resto, il giubilo della stampa tedesca mentre annuncia che la Francia «abbandona la mappa russa». Nessuna Europa senza una Russia risanata […].
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Da Sull’Iliade (1943), “La commedia degli dèi”, pp. 476-481
Nell’Iliade non mancano la comicità e l’umorismo, e sono gli dèi dell’Olimpo a fornire il materiale. La corte di Zeus gioca più o meno il ruolo dell’ambiente che circonda Alessandro in Guerra e pace. In questi Immortali l’assoluta futilità di esseri che la sorte sottrae alle prove della comune condizione umana raggiunge una sorta di dignità fastosa e decorativa. L’assenza di “serietà” (e serio qui non è sinonimo di pesante) che, per Omero come per Tolstoj, caratterizza i subumani, fa degli dèi nell’Iliade e della gente di mondo in Guerra e pace perfetti personaggi da commedia. Al contrario degli eroi dell’epopea che, pur non essendo causa di nulla, sono responsabili di tutto, essi sono causa di tutto e non sono responsabili di nulla, a partire da se stessi. Lì dove l’individualità non si afferma sotto ciò che la schiaccia, la responsabilità non ha dove appigliarsi: si sfilaccia nello scoppio di risa che sanziona il trionfo dell’incoerenza. In questo modo gli dèi sfuggono alla categoria dell’innocenza e, insieme, a quella del peccato. Agenti provocatori, scaltri propagandisti, partigiani eccitati, questi non belligeranti non detestano affatto il profumo del massacro, lo sproloquio delle passioni tragiche. Condannati a una perpetua sicurezza, senza intrighi e senza guerre morirebbero di noia. «Crudeli voi siete, o numi, distruttori!» grida loro Apollo, che non li ama. Questa irriverenza non intacca, in Omero, il rispetto della pietà. Il patto che lega la città ai suoi protettori divini santifica la tradizione in cui si incarna lo stile stesso della durata. Inattaccabile, essenziale al cuore dell’uomo, è soltanto la tradizione che strappa al divenire il segreto della continuità. Essa sola conferisce fascino alla costrizione e fa della costrizione una realtà affascinante. Anche quando la statua della divinità va in frantumi, il basamento del sacro rimane. Non c’è nulla di sacrilego nelle invettive che gli eroi dell’Iliade muovono al «figlio di Crono terribile», quando hanno ragioni per lamentarsi di lui. Zeus, d’altra parte, non si formalizza per questi comportamenti. Quando i capi della città se la prendono con gli dèi che hanno accolto nel loro focolare, al loro consiglio, alle loro guerre, è perché gli dèi godono di buona salute, ricevono ricche offerte e non vegetano nel freddo rispetto di un culto senza vita. Perché ciò che i Greci domandano devotamente ai loro dèi non è l’amore ma la benevolenza – la consacrazione dello sforzo che raggiunge l’equilibrio attraverso le sofferenze dovute all’eccesso e le negazioni legate all’estremo. Se l’amore è del tutto assente dai rapporti tra uomini e dèi, trova talvolta un sostituto nell’amicizia – l’amicizia tra Apollo ed Ettore, in cui il rispetto, la fiducia reciproca, la familiarità e la distanza, la felicità nell’ammirare, la felicità nell’insegnare, la gioia nel dare e nel ricevere compongono un’armonia vicina a quella che si manifesterà più tardi nell’affetto che un Socrate, un Platone sapranno ispirare ai loro discepoli. Al di fuori di quest’amicizia ai margini della pietà tradizionale, noi non vediamo, tra i mortali e gli immortali, che legami d’interesse e di convenienza, che ricollegano il mondo riparato della corte e dei grandi al mondo a rischio dei combattenti e della guerra. Le discussioni e le riconciliazioni tra Zeus ed Era, la scena di seduzione in cui Era, armata del magico nastro di Afrodite, riesce ad abbindolare il suo sposo, quella in cui Zeus, scoprendo al suo risveglio l’inganno della moglie, minaccia di scagliarla giù dall’alto dell’Olimpo e di lasciarla sospesa nell’etere – sono veramente degne di un’operetta. Ma anche qui, la verità umana situa questa commedia coniugale sul piano di una realtà più sostanziosa. Era, dai grossi occhi stupidi, con la sua ostinazione più ebete che cattiva e quelle trovate geniali che mette in campo quando si tratta di imbrogliare il disgraziato Zeus, procurandogli una «guerra di nervi» da cui lei esce sempre vittoriosa; Afrodite, incantevole e futile nella sua debolezza non disarmata, tutta sorrisi e capricci da bionda fatale; Pallade Atena, la guerriera dai muscoli virili, esperta e perfida, capace di domare Ares e di farlo rotolare a terra, la ragazza terribile che sa contenere a lungo il suo risentimento, macerare il suo rancore, cuocere a fuoco lento la sua rivincita: queste tre divinità, che il giudizio di Paride offende fino all’eccesso, rivelano ciascuna a suo modo l’altra faccia dell’eterno femminino di cui Andromaca, Elena e Teti incarnano la purezza tragica. Zeus è il solo tra gli abitanti dell’Olimpo ad avere una vita più completa. Gioca il suo ruolo nella farsa e non fallisce un solo rombo di tuono, il che non gli impedisce di divertirsi. […] Lo scetticismo disincantato del Cronide anticipa stranamente quello dell’Ecclesiaste. Zeus non ignora che gli dèi possono morire, e si inchina alla grande divinità cieca che regna indistintamente sui mortali e sugli Immortali. Attento al flagello che segna il peso della sconfitta sulla bilancia d’oro della fatalità, Zeus lascia che si compia l’irreparabile. Non difende ciò che ama di più: quella Ilio che egli protegge non l’abbandona forse alla furia di Era? Non consegna forse Ettore ai colpi di Achille? Zeus non interviene, come fa invece il Dio d’Israele, per punire e salvare, vendicare e riscattare. Distributore indifferente dei beni e dei mali, Zeus si limita a proporre all’attore lo scenario del dramma in cui deve recitare la sua parte: «Due vasi son piantati sulla soglia di Zeus, dei doni che dà, dei cattivi uno e l’altro dei buoni». Spetta all’uomo trarre quel che può da questa miscela. Zeus spettatore non è, come il Dio creatore, una forza al di sopra della forza, una potenza della volontà al di sopra della volontà di potenza. La forza, in lui, non è che un’apparenza decorativa, il simbolo di una realtà che egli rappresenta ma non incarna in alcun modo. Più ancora che nella natura, è nell’uomo che Omero ha divinizzato la potenza. Ma non la glorifica che nel suo aspetto limitato e finito, in quanto energia peritura che ha il suo vertice nel coraggio che la misura. Inseparabile dal corpo perfetto che anima, questa energia partecipa al gioco eterno delle forze cosmiche, da cui sostanzialmente non differisce. Lo straripamento dello Scamandro al ritmo della collera umana, la fuga dell’eroe davanti al dio-fiume infuriato rievoca lo spavento di migliaia di fughe nel regno animale. Se Achille non è niente più che una particella della natura, la natura intera fa eco all’esistenza gettata lungo il torrente dei fenomeni. E la natura divinizzata, umanizzata, non è neppure il gran Tutto in cui l’uomo si dissolve in un beatificante annientamento. Al contrario, la natura partecipa alle lotte degli uomini: il cielo, la terra, i monti, i fiumi sono coinvolti nel conflitto. Zeus è il solo a non intervenire. Non modella la storia a colpi di martello, come fa il Dio d’Israele; vede in essa soltanto il luogo delle tragedie della forza, dei drammi della passione collettiva – l’oggetto di una rappresentazione che non conosce la giustizia divina né vi si appella. Dio di un mondo soltanto contemplato, Zeus affonda con esso nel precipizio dell’alba. Ma basta questo sguardo sereno, che domina dall’alto le lontane conseguenze, perché la guerra di Troia sia altra cosa che non una mischia sanguinaria e una assurda tenzone, perché essa acquisti un senso che la restituisce all’economia dell’universo e insieme la isola, la singolarizza, la sottrae al flusso degli eventi. L’interesse appassionato dello spettatore divino propone all’esistenza la sua attività metafisica. Cosa importa se gli dèi soccombono insieme agli eroi… Immortali, i versi del poeta diranno la tristezza infantile di Achille, i rimpianti di Ettore, i pianti di Andromaca. Contrariamente a ciò che afferma Nietzsche, Omero non è il poeta delle apoteosi. Quel che esalta, santifica, non è il trionfo della forza vittoriosa, ma l’energia umana nella sventura, la bellezza del guerriero morto, la gloria dell’eroe sacrificato, il canto del poeta nel tempo futuro: tutto ciò che, vinto dalla fatalità, continua a sfidarla e la sconfigge. In tal modo l’eternità di Omero, incentrata sulla volontà dell’individuo, si contrappone all’eternità di Tolstoj, nella quale lo scisma dell’individuazione viene ricomposto. Al di là del cristianesimo, il demiurgo di Jasnaja Poljana ci conduce verso l’Asia, verso l’India dei mistici e dei santi, mentre il poeta della Ionia, attraverso il paganesimo, ci muove verso gli scogli aguzzi dell’Occidente cristiano.
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Da “Su Heidegger. Lettera a Daniel Halévy” (1932), pp. 162-165
Più volte, durante la lettura di Essere e tempo, mi è tornata in mente la fine del secondo Faust. Sepolto nell’assorbente contemplazione del Vorhanden, Faust aspira a essere gettato nell’Esistenza, preso dall’esistente. Ma appena il suo voto è esaudito, appena ha goduto dell’inesauribile abbondanza del possibile di cui lo colma la sua giovinezza ritrovata, si dibatte nell’inestricabile, è preso in trappola e alla fine deve fuggire. Di metamorfosi in metamorfosi, di strappo in strappo, egli prosegue, ottiene il pieno possesso del suo essere. Costantemente sich-vorweg, non si stanca di progettare (projeter) un mondo, di proiettarvisi (s’y projeter) tutto intero, risalendo il declivio del verfallen, senza posa «bramando l’impossibile». Non si fermerà se non quando sarà sfuggito alla coazione del “qui” (ciò che Heidegger chiama das faktische Da).
Das verfluchte Hier!
Das eben, leidig lastet’s mir!
È allora che risuona e lo colpisce l’appello alla Sorge, ripetuto quattro volte.
Ich heisse der Mangel
Ich heisse die Schuld
Ich heisse die Sorge
Ich heisse die Noth
Di poco successiva all’apparizione della Sorge ecco infine la Morte.
Dahinten! Dahinten! von ferne, von ferne.
Da kommt der Bruder, da kommt er, der Tod.
Faust rifiuta e rinnega questa verità sull’Esistenza svelatagli dalla Sorge, questa lucidità ch’essa gli accorda.
Doch deine Macht, o Sorge, schleichend gross,
Ich werde sie nicht anerkennen.
L’appello è stato vano: Faust è diventato cieco. Un’ultima volta, con tutta la sua potenza, tenta di sfuggire alla «suprema possibilità» (die eigenste, unbezügliche, unüberholbare Möglichkeit) e lancia la sua invocazione all’istante:
Verweile doch, du bist so schön!
Ma subito dopo muore. Faust comunque si salverà. Ma non c’è spazio per la Grazia nell’universo di Heidegger, né per l’innocenza…
Basta… almeno io le faccio la grazia della Zeitlichkeit e delle sue tre estasi. Non sarebbe stato inutile, tuttavia, confrontare la durata bergsoniana – sforzo grandioso benché abortito di accordare il ritmo del Vorhanden al ritmo dell’Esistenza – con la Zeitlichkeit di Heidegger, che è una durata finita, mortale, di cui il tempo livellato com’è utilizzato dal senso comune e dalla scienza non è che un derivato. (Checché ne dica Heidegger stesso, la sua Zeitlichkeit sostituisce la durata di Bergson, non fosse altro perché le si oppone). E che tentazione di studiare, alla luce di questa temporalità, il carattere particolare della durata musicale! Probabilmente si rivelerebbe l’unità estatica per eccellenza del passato, del presente e del futuro. Il tema musicale non è anzitutto un tesoro virtuale pressoché illimitato di risorse melodiche? Eppure, a mano a mano che si dispiega e si sviluppa, talune formule tonali e atonali lo impegnano e lo costringono, alcune combinazioni armoniche limitano la sua libertà, alcuni ritmi lo asserviscono. Progettando nel futuro un universo sonoro, si appesantisce del passato. Bisogna che ceda una parte delle sue virtualità, e non la più piccola, perché questo universo progettato viva, riceva dei contorni fermi e definitivi. La melodia incarna per qualche verso la trascendenza stessa: come questa è überschwingend-entziehend. A ogni istante della sua durata, benché si slanci verso l’avvenire, è incorruttibilmente nel suo passato. Già le prime note di un tema musicale sono cariche del silenzio del passato da cui emergono. Dato che è conoscenza, scelta del possibile, la musica si apre all’estasi del futuro, e dato che è espressione della Befindlichkeit si fonda sull’estasi del passato. (Das Verstehen gründet primär in der Zukunft, die Befindlichkeit dagegen zeitigt primär in der Gewesenheit). Come la Zeitlichkeit di Heidegger, la temporalità musicale è una durata finita. La perfezione melodica pertiene essenzialmente al carattere finito di questa durata, ai limiti che questa impone all’arte musicale e su cui occorre che trionfi trascendendoli. La obbliga a estrarre da una libertà finita la libertà tout court. Facendo violenza alla sua intima necessità, allo scorrimento che è la sua legge, la musica riesce, in seno al movimento stesso, a creare un equilibrio sonoro, una presenza realizzata, dove tutto ciò che è stato vibra ancora e risuona, dove si può presentire tutto ciò che sarà. È l’istante perfetto.
[Immagine: Francisco Goya, da Los desastres de la guerra].