di Paola Giacomoni
Una cosa salta agli occhi dei fatti di Brasilia alla Piazza dei Tre poteri: l’assalto di Capitol Hill è diventato un modello. Molti giornali italiani e stranieri hanno sottolineato analogie e differenze, ma mi pare che nessuno abbia messo a fuoco il fatto che, se qualcosa diventa un modello da seguire non significa solo che quella cosa si può fare perché l’hanno fatta altri, ma anche e soprattutto che quell’azione rappresenta un valore. Riconoscere in un comportamento un modello non significa solo che quell’azione è possibile, ma che quell’azione è buona. Quell’azione e i modi in cui si è svolta hanno avuto grande impatto mediatico e hanno assunto agli occhi di alcuni un notevole valore simbolico; quel comportamento ha indicato una nuova modalità nei rapporti tra le masse e il potere, benché sia stato ampiamente condannato.
Un modello si segue o ad esso ci si ispira anche in condizioni differenti se rappresenta la stilizzazione di un’azione efficace, se in esso si individua una tendenza nuova nel comportamento sociale. Esso non solo rientra tra le opportunità, tra le opzioni sul campo, ma ne rappresenta un caso eminente e può quindi divenire esemplare, e per questo imitabile. Un modello è tale se è semplice, se è per così dire formalizzabile, se in esso sono riconoscibili tratti essenziali di tipo universale, e quindi riproducibili anche in altri contesti, distinguibili dai tratti contingenti, relativi alla situazione specifica. Un modello inoltre sempre ha una funzione normativa, indica un comportamento positivo o negativo che induce all’azione e ne indica i mezzi adeguati. Un modello ha un alto valore simbolico: può ispirare un’ampia gamma di comportamenti perché diventa immagine pregnante che indica un significato, punto di riferimento psichico e possibile identificazione con la realizzazione di un valore.
Certamente l’assalto a Capitol Hill corrisponde a queste caratteristiche: un massa riunitasi via whatsapp si trova senza preavviso davanti al palazzo del Congresso, e, senza trovare resistenza, entra, ci resta per ore quasi indisturbata e lo devasta sovvertendone i simboli e mostrando la presunta fragilità di un potere che non si aspettava di essere attaccato da chi esso stesso rappresenta. La scena lunghissima a cui abbiamo assistito indica una via: farsi beffe del potere è semplice, non occorre preparazione alcuna, è possibile ed è giusto vandalizzarne le sedi fisiche per indicarne il rovesciamento di significato, la distanza abissale e definitiva dal popolo, o almeno da una parte di esso. In questo senso la scena del 6 gennaio 2021 è davvero esemplare e ha senz’altro ispirato i bolsonaristi di Brasilia. Il suo valore simbolico tuttavia è ancora da decifrare.
Si dirà che molti sono stati i moti insurrezionali nella storia anche recente e alcuni di questi sono ancora in corso, come quanto sta accadendo in Iran. Popolo in piazza, contestazioni, richieste di libertà, disobbedienza civile, in qualche caso anche disponibilità alla violenza in caso di attacco. Questi esempi tuttavia normalmente presuppongono implicitamente un altro modello, quello che risale alla Rivoluzione francese, da sempre celebrata come rito universale di liberazione dal dispotismo, o come quello della Rivoluzione russa, simbolo di emancipazione popolare e preparazione dell’avvento di un potere immaginato e idealizzato come compiutamente democratico. Una reazione di popolo contro l’oppressore, un’esplosione di libertà troppo a lungo conculcata, che trova un momento di espressione collettiva.
Nel caso del modello dell’insurrezione a Capitol Hill non si gioca con la libertà contrapposta alla tirannia: obiettivo dell’azione violenta è semplicemente l’establishment, il potere costituito in istituzioni, che in quanto tali e non per il regime che rappresentano, sono considerate contrapposte ai desideri e ai bisogni del popolo. In realtà sono le istituzioni democratiche, gli edifici del parlamento, del governo e della giustizia – nella Piazza dei Tre poteri – a essere stati messi sotto assedio e anche concretamente assaltati e danneggiati, cioè qualcosa che in Brasile era conquista recente e che sarebbe dovuta apparire come il luogo della libertà e della rappresentanza, finalmente emancipata dalla barbarie delle dittature militari.
Ma non era questa l’ispirazione della protesta violenta dei bolsonaristi brasiliani, che, al di là della rivendicazione dell’elezione “rubata” fomentata dallo stesso Bolsonaro per mesi, voleva essere l’aspra e violenta contestazione del potere stesso in quanto tale, dell’insieme di regole che, anziché rappresentare la garanzia della libertà e dell’uguaglianza, sono avvertite, su uno sfondo psichico arcaico, come protezione del privilegio e quindi sideralmente distanti dal popolo, qualsiasi cosa questo termine significhi. Da questo punto di vista ogni istituzione rappresenta e garantisce il privilegio, ogni élite è in quanto tale oppressiva, furto di rappresentanza e per sua natura staccata dal popolo. Nessun potere è visto come realmente funzionale a una gestione autenticamente democratica e popolare, nemmeno l’immagine combattiva e al tempo stesso paterna di Lula. Solo chi se ne fa beffe mentre lo occupa, da Trump a Bolsonaro, sembra paradossalmente incarnare un potere all’incontrario, un potere che si fa antipotere perché gioca al massacro delle istituzioni democratiche rovesciando in farsa il linguaggio politicamente corretto e perseguendo consapevolmente o suggerendo disegni golpisti.
A chi si rivolge un tale sberleffo alla democrazia? Chi si sente in qualche modo giustificato nell’agire contro la più preziosa delle conquiste della modernità? A quale titolo la violenza distruttiva contro la rappresentanza civile si fa diritto o almeno richiesta espressa ad alta voce e senza esclusione di mezzi? È evidente che a queste manifestazioni di animi risentiti corrisponde un disagio profondo e difficile da definire, ma ben presente nella contemporaneità. Una rabbia da esclusi? Un rancore per la perdita di status che gli strati popolari bianchi vivono come pericolo di impoverimento sia materiale che di stima sociale? Una reazione contro apparenti o reali privilegi accordati a chi in passato è stato discriminato (afroamericani, donne, ex emarginati, nativi)? Una morale da perdenti, come diceva Nietzsche?
Niente di peggio per chi ha avuto una posizione sociale in qualche modo prestigiosa o almeno passabile che perderla e cadere verso i piani più bassi della società. L’odio e il risentimento si fanno incontrollabili perché è come se qualcuno si appropriasse illegittimamente di qualcosa che consideravo mio. Il risentimento esprime in questo caso una carica di scontento profondo per troppo tempo soffocato che esplode all’improvviso non più come rabbia che mira a un cambiamento e a una nuova forma di giustizia, ma come odio che vuole solo distruggere ciò che è visto come destino immutabile che si può solo cercare di liquidare con la violenza senza scopo e senza progetto. Certo da queste manifestazioni nulla di buono ci si può aspettare: non sono ribellioni nella prospettiva di liberazione, ma eruzioni violente di disagio profondo che trova modo di sfogarsi perché ha trovato un modello, pur negativo, pur sconsiderato, che le rende possibili, che le giustifica e le rende agli occhi di qualcuno persino legittime. Sono fenomeni da prendere sul serio e da interpretare con attenzione in ogni paese in questo momento di grandi trasformazioni in questa nostra tarda modernità.