a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo

 

[Un paio di mesi fa, Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo hanno dato avvio un un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Il primo a rispondere, su invito dei due curatori, è Ivan Schiavone].

 

Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?

 

L’elaborazione collettiva, durata millenni, di tecniche linguistiche tese a veicolare informazioni sovraordinate alla lettera del testo resta, a mio avviso, il punto di riferimento di una scrittura che non può che essere, per statuto, un evento collettivo, un fare per altri, a priori dell’efficacia e dei destini del singolo prodotto linguistico. Tali tecniche saranno poi sempre quelle note: metrica, sintassi, lessico, retorica – vecchia e nuova, intendendo per nuova retorica l’insieme di strategie testuali messe a punto a partire dal romanticismo, con importanti prodromi barocchi (sinestesia, analogia, automatismo, montaggio, glossolalia, parole in libertà, etc.). La questione dei contenuti, dei temi o di come vogliam definire il “ciò di cui si parla in un testo” essendo così violentemente subordinata alle tecniche con cui è esposto meriterebbe una riflessione a parte. Metrica, retorica, sintassi, lessico restano dunque le tecniche per la creazione di un orizzonte di senso condiviso tra scrittore e pubblico in quanto fondate su una “grammatica” del testo letterario che dovrebbe essere patrimonio comune a chi scrive e chi legge e che permetterebbe di comprendere, o ipotizzare, il perché di una serie di scelte tecnico-stilistiche, di interpretarle, di verificarle. Purtroppo è in atto in Italia sin dagli anni ’70 un processo, favorito da una visione popolare e naïf del fatto estetico, che tende a un utilizzo istintivo e non mediato delle tecniche linguistiche in nome di una presunta naturalezza della scrittura. Essendo connaturati a qualsiasi tipo di testo prosodia, organizzazione sintattica, scelta lessicale e costruzione retorica l’abdicare ad un lavoro intenzionato su queste componenti porta solo ad un prodotto linguistico sciatto, povero d’informazione, che ha rinunciato alla funzione collettiva dell’arte prediligendole quella dell’esposizione del sé come garante del senso del reale e che attende, non essendo fondabile individualmente nessun senso collettivo, di divenire materia di studio per il sociologo.

 

L’esplicitazione deittica del “noi” non mi sembra dunque essere una necessità a priori, essendo tale noi poi sempre implicito in ogni scrittura consapevole dei propri mezzi; ciononostante è pur vero che nei miei testi tale esplicitazione avviene, per fare qualche esempio:

 

che cos’è che in noi          che fa noi          s’è rotto?

che cos’è (le parole

che cos’è che rompe le parole?

(da La conta dei giorni)

 

non possiamo che trovare rifugio nell’immaginario e in esso abitare

poiché di tutto ciò che è a noi più prossimo la contemplazione ci annienterebbe

(da postulati e apostasie)

 

Noi

       la misura esterna del perimetro

nella definizione dell’attacco

che compitiamo in una lingua incerta

noi la barbarie

nell’ebbrezza della devastazione

tra la corruzione di tutti i lasciti

per l’estatica inerzia di chi attende

l’autoannientamento

(da tavole da un atlante)

 

Il noi, come si può desumere da questo rapido campionario d’esempi, è quasi sempre connesso, nella mia poetica, con il problema del linguaggio; diversa la sua funzione dalla prima persona singolare, quasi sempre finzionale, dalla seconda singolare, in linea con la mistica amorosa propria alla poesia occidentale dallo stilnovo fino a Breton, o, dalla terza, designata alla rappresentazione. Il ricorso alla seconda plurale, che nel mio percepito è quella del j’accuse, è praticamente nullo. La necessità di utilizzare il noi è legata dunque, nella mia poesia, alla riflessione intorno a quello che sento essere il fondamento ontologico di ogni statuto comunitario: il linguaggio, o, per attenerci all’oggi, alla sua crisi attuale. La percezione, ereditata dal novecento, dell’assoluta impossibilità del linguaggio a dire verità alcuna, comprendendo in ciò anche i linguaggi scientifici e matematici, e la sua condanna ad essere il veicolo di una cultura specifica tra le molte che si danno nel mondo ci pone in uno stato di aleatorietà sconcertante e al contempo di libertà, ipotetica, assoluta; questa difficoltà di adesione teorica a qualsivoglia costrutto culturale mi sembra essere il centro focale della riflessione sul nostro essere comunitario, nella dialettica che impone tra portato etico e infondabilità di qualsiasi morale. A partire da tale frattura epistemica, accompagnata da una proliferazione delle tecniche, da una recrudescenza delle pratiche e degli immaginari bellici, da un’accelerazione della catastrofe ambientale si fonda la prima persona plurale, schizoide, all’epoca del capitalismo avanzato.

 

Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?

 

Due sono le possibilità, per la prima, legata a quella che si definisce poesia civile, provo un’avversione istintiva in quanto, facendo leva su una sorta di obbligatorietà alla compartecipazione ai temi scelti induce a soprassedere sulle effettive risultanti estetiche fondandosi su una sorta di ricatto etico; la seconda invece legandosi ad immaginari complessi e proiettando il noi in un panorama fluido, metamorfico ed instabile spinge il lettore ad una continua ridefinizione del sé e dell’altro in un lavoro prolifico e inesaurito di comprensione del nostro esserci nel mondo. Penso ad esempio alla scrittura femminile contemporanea che forse sta incarnando meglio di qualunque altra questa tensione politica collettiva, alla Fusco, alla Davidovics e alla Ariot o, su un versante più direttamente politicizzato, alla Carnaroli. Penso inoltre alle scritture di Padua, il cui sguardo urbano allucinato dà un’immagine folgorante e impietosa dell’essere collettivo in cui siamo immersi, a quella di Scaramuccia, dove la società si ipostatizza in una sorta di meccanica del delirio risolta in allegoresi e precipitato semantico, o alle efficacissime rovine messe in campo da Frungillo, schegge di immaginari storici confluite nella definizione di una collettività regressiva perché sospinta vieppiù violentemente verso la preistoria del capitale.

 

Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?

 

Io personalmente mi sono orientato verso quello che ho avuto modo di definire “paesaggio figurale”. Deleuze, Francis Bacon Logica della sensazione: “La pittura non ha né modelli da rappresentare, né storie da raccontare. È come se avesse due vie possibili per sfuggire al figurativo: verso la forma pura, per astrazione; oppure verso il puro figurale, per estrazione o isolamento. Se il pittore ha cara la Figura, se prende la seconda via, sarà dunque per opporre il «figurale» al figurativo”. Valga per la poesia quanto qui detto per la pittura, montando figurali in costellazioni non narrative che danno vita a paesaggi, paesaggi allegorici, sì, ma d’una allegoricità vuota, in cui essendo interrotto il patto d’interpretazione univoca tra lettore ed autore la singola figura e le costellazioni in cui è inserita sono passibili di un potenziale significativo instabile e virtualmente infinito. Venuta meno la possibilità di un immaginario condiviso da una comunità linguisticamente coesa o politicamente omogenea, ovvero non dandosi valori, narrazioni, ideologie a supporto di identità collettive questa mi è parsa essere una forma possibile di documentazione delle identità ibride del contemporaneo che non inclinasse al realismo capitalista e ai suoi postulati postmoderni.

 

Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?

 

Sull’importanza della traduzione-appropriazione, della cannibalizzazione per usare il termine, appropriatissimo, di Gianluca nella formazione, verifica, consolidamento e ampliamento di identità comunitarie la letteratura è talmente vasta che non credo di potere avere nulla da aggiungere. Per quanto riguarda invece le digital humanities e il distant reading mi sembra che i risultati più interessanti siano ancora di là da venire e dipenderanno dalla sagacia di critici che sapranno mettere a frutto e a servizio le nuove tecnologie, per adesso quanto sono stato in grado di conoscere non mi è sembrato essere nulla più di un giochino. Più interessanti i prodotti delle IA, specie nella gestione di profili social che solo a posteriori si è saputo essere scritti da algoritmi, nella produzione di opere visive e nelle prime scritture diffuse; anche qui però la sensazione è che la potenzialità insita in questi esperimenti sia di là da esplodere in tutta la sua radicalità. Resto in attesa certo che qualcosa di sorprendente avverrà come di fatto è avvenuto ogni qualvolta vi sia stata una rivoluzione tecnica che implicasse una modifica sostanziale nei processi di produzione e/o diffusione della scrittura.

 

 Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?

 

La riflessione sul concetto di identità è alla base della mia poetica da anni, riflessione che ha trovato alimento nell’antropologia, nella letteratura politica (dall’Internazionale Lettrista al Comitato Invisibile passando per il CCRU, Tiqqun, etc.) e nella psicologia – junghiana perlopiù – a partire da un’interrogazione costante sull’attività simbolica e sull’ontologia del linguaggio. Il nodo centrale è cosa si possa fare con la letteratura in un momento, che non è odierno anche se molto amplificato dagli accadimenti attuali, in cui l’alternativa sembrerebbe essere tra guerra civile ed estinzione, in cui il crollo definitivo di ogni grande narrazione ha disvelato la natura finzionale di ogni costrutto intellettuale, compreso quello scientifico, in cui una miriade di tecniche, utilizzate militarmente da un capitale che ha definitivamente dichiarato guerra agli umani, sembrerebbero aver annichilito definitivamente la possibilità di elaborazione di un immaginario collettivo quale risposta, attiva e non contemplativa, all’apocalisse che viene. Tralasciando l’assoluta marginalità sociale della letteratura come la necessità di definire il suo statuto nel contesto attuale. Questo per dire che le questioni sollevate sono fondamentali anche se la risposta più che estetica non potrà che essere politica, o non essere.

 

Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?

 

Non si dà discorso senza un noi, neanche discorso interiore, non posso che condividere dunque tale punto di partenza.

 

Ivan Schiavone (Roma, 1983) ha pubblicato: Enuegz (Onyx, Roma 2010 e, in versione ebook, 2014), Strutture (Oèdipus, Salerno/Milano 2011), Cassandra, un paesaggio (Oèdipus, Salerno/Milano 2014), Tavole e stanze (Oèdipus, Salerno/Milano 2019). Curatore di diverse rassegne letterarie tra cui Giardini d’inverno e Generazione y – poesia italiana ultima (da cui il documentario omonimo realizzato da Rai5); direttore delle collane Ex[t]ratione, Polìmata (2009-2011), e Croma k, Oèdipus (2016-2022). Con Cecilia Bello Minciacchi, Pierpaolo Cipitelli e Stefano Colangelo ha creato il canale YouTube Nuovo Commento.

 

[Immagine: Clarissa Bonet, Urban Constellation].

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