Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
   
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

di Charlotte Sophia Bez e Lorenzo Feltrin

 

Gli aumenti dei prezzi dell’energia sono sulla bocca di tutte e tutti. Anche in un continente “ricco” come l’Europa, sono diffuse e giustificate le preoccupazioni su come i nuclei abitativi a basso reddito riusciranno a pagare le bollette in un contesto marcato da un’apparentemente inarrestabile crescita delle disuguaglianze. Un allarme parallelo riguarda invece l’impatto della crisi energetica sull’industria e di conseguenza sui posti di lavoro nelle fabbriche. Da un lato, la catastrofica dipendenza dai combustibili fossili significa che il settore manufatturiero è ora esposto a enormi aumenti dei costi. Dall’altro lato, l’adozione delle fonti energetiche rinnovabili richiede una ristrutturazione economica di larga scala, che distruggerà molti dei posti di lavoro ora esistenti e innalzerà bruscamente la domanda di determinate materie prime.

 

Se può essere motivo di consolazione, sia l’ecosistema che l’occupazione nel manufatturiero (ovvero industria in senso stretto, senza l’edilizia) sono compromessi già da tempo, di conseguenza stiamo solo assistendo a un approfondimento di tendenze già previamente esistenti. Il paradosso della “deindustrializzazione nociva” – la deindustrializzazione del lavoro in aree dove industrie significativamente nocive sono ancora in funzione – è una realtà globale alla quale l’Europa è lungi dal fare eccezione. Nei due decenni passati, secondo le stime dell’ILO, il tasso d’occupazione nel settore manufatturiero in Europa è diminuito dal 24% al 15%, un declino che in realtà era cominciato negli anni ’70 a partire da un livello di occupazione ancora più alto. Nonostante questa caduta – e nonostante i miglioramenti tecnologici – la crisi ecologica provocata dalla produzione industriale si è aggravata, a causa degli aumenti di output fisico e della natura cumulativa del degrado ambientale.

 

Una mappatura dell’inquinamento industriale in Europa, e dei suoi impatti socioeconomici, mostra come la deindustrializzazione nociva non sia un processo spazialmente uniforme. Al contrario, la naturalizzazione del “diritto a inquinare” sulla base del potere economico genera e rafforza una geografia di left-behind places dove la deprivazione economica e l’esposizione alla nocività vanno a braccetto, consolidando l’ingiustizia spaziale. Luoghi come Taranto in Italia o la Lusazia nella Germania orientale condividono l’intersezione tra nocività ed emarginazione, sospinta dall’abbinamento di deindustrializzazione del lavoro e permanenza di industrie altamente inquinanti, come acciaierie e centrali a lignite prive delle migliori tecnologie disponibili. Tuttavia, la deindustrializzazione nociva presenta diverse sfaccettature al suo interno. Infatti, dall’analisi dei dati, emergono due distinte configurazioni che chiamiamo deindustrializzazione nociva “grigia” e “verde”.

 

La deindustrializzazione nociva grigia

 

La riqualificazione tecnologica può significare molte cose, da limitati aggiustamenti di impianti obsoleti a profondi cambiamenti basati sulla riorganizzazione dei cicli produttivi e sulla sostituzione delle materie prime. La deindustrializzazione nociva grigia avviene in riferimento alle fabbriche prive delle migliori tecnologie disponibili, necessarie ad abbattere le emissioni inquinanti. Gli impianti a tecnologia arretrata inquinano di più ma espellono meno operai dalla produzione, quindi la deindustrializzazione nociva grigia è “più nociva e meno deindustrializzazione” del suo omologo verde. Resta però deindustrializzazione, nel senso che in queste regioni c’è comunque un declino del tasso d’occupazione nel manufatturiero rispetto al massimo storico. Tale declino può essere in parte dovuto alle delocalizzazioni verso paesi con salari più bassi ma, nella misura in cui le fabbriche inquinanti restano, esso è dovuto al fatto che anche un cambiamento tecnologico “ritardatario” ha – nel corso dei decenni – un impatto significativo in termini di risparmio della forza lavoro.

 

Ancora oggi, molti left-behind places dipendono da industrie pesanti che processano metalli, minerali, combustibili fossili e altre materie prime con tecnologie obsolete. Le aree caratterizzate dalla deindustrializzazione nociva grigia tendono a essere collocate in regioni a basso reddito, spesso specializzate in produzioni inquinanti, poco diversificate e poco complesse, con intensità di capitale e salari relativamente bassi, cosa che rende l’adozione di tecnologie pulite meno profittevole. I più grandi inquinatori sono spesso impianti con livelli di efficienza ben al di sotto della media del proprio settore. In questi casi, la presenza di industrie “sporche” ha effetti positivi sui livelli occupazionali e salariali nel settore manifatturiero, ma effetti negativi sul mercato del lavoro locale nel suo complesso. Le popolazioni di tali aree si ritrovano quindi prigioniere di traiettorie di sviluppo povero e di un pesante degrado ambientale. La forza lavoro del manifatturiero diventa dipendente da una specializzazione industriale nociva e da impianti tossici e decadenti. Intanto la carenza di alternative porta molti degli altri lavoratori e lavoratrici a spostarsi altrove. Infatti, le aree segnate dalla deindustrializzazione nociva grigia sono affette da saldi migratori negativi.

 

Taranto è uno dei più gravi esempi di deindustrializzazione nociva grigia nell’Europa di oggi. Nel 1971, il tasso d’occupazione provinciale nel settore manufatturiero era del 37%. Nel 2021, si era ridotto a meno della metà, al 16%. Tuttavia, le Acciaierie di Taranto (Ex ILVA) sono ancora in funzione, con macchinari obsoleti che disperdono ogni giorno nell’atmosfera grandi quantità di emissioni cancerogene. La popolazione di Taranto affronta dunque allo stesso tempo un grave inquinamento tossico proveniente da fabbriche in funzione e un netto declino dei posti di lavoro nelle fabbriche stesse. Tuttavia, siccome queste produzioni hanno ostacolato la creazione di possibilità occupazionali alternative, una proporzione considerevole della forza lavoro tarantina dipende ancora dall’Ex ILVA per vivere, mentre tassi superiori alla media di tumori e altre patologie correlate all’inquinamento sono tuttora la realtà.

 

La deindustrializzazione nociva verde

 

La deindustrializzazione nociva verde si dà attorno alle fabbriche dotate delle tecnologie più avanzate. Qui l’inquinamento industriale viene significativamente ridotto, ma lo stesso vale per i posti di lavoro in fabbrica, perché le tecnologie verdi tendono anche ad avere importanti effetti di risparmio sulla forza lavoro. La deindustrializzazione verde è dunque “meno nociva e più deindustrializzazione” di quella grigia. Inoltre, essa ha effetti positivi sull’economia regionale nel suo complesso, grazie a innovazione, diversificazione e creazione di posti di lavoro “verdi”.

 

Tuttavia, resta l’aggettivo “nociva” tra la deindustrializzazione e il verde. In primo luogo, il permanere della nocività riguarda i settori – come quello dei combustibili fossili – insostenibili a prescindere dal fatto che usino o meno le migliori tecnologie disponibili. Inoltre, gli aggiustamenti tecnologici verdi nella grande industria sono stati più che compensati dalla natura cumulativa del degrado ambientale, che rende moderate migliorie tecniche insufficienti di fronte alla situazione ecologica attuale. Infine, gli incrementi di efficienza – in un modo di produzione dipendente dalla crescita infinita della produzione di merci – sono vanificati dal Paradosso di Jevons, per cui una maggiore efficienza non genera un minor consumo di risorse perché – con la caduta dei prezzi – la domanda aumenta e con essa anche l’output fisico.

 

L’area della Ruhr – che un tempo era un polo industriale specializzato in carbone, ferro e acciaio – è per molti aspetti un esempio di deindustrializzazione nociva verde. Con la chiusura delle miniere di carbone e l’aumento della competizione nella siderurgia, migliaia di posti di lavoro operai sono scomparsi ma tali perdite sono state compensate da una conversione produttiva di successo. La Ruhr è stata così trasformata in un rinnovato hub industriale trainato dall’economia della conoscenza, con una significativa crescita dell’occupazione nei settori legati alla ricerca e sviluppo di tecnologie verdi, ed è stata così pubblicizzata come un prototipo esemplare della transizione alla low-carbon economy. Questa narrazione mette però in secondo piano forti disparità regionali, essendo che il dinamismo e la diversificazione non sono stati universali, come anche il fatto che molte fabbriche chiaramente insostenibili a livello ecologico – specialmente nei settori energetico e siderurgico – rimangono in funzione anche nella Ruhr.

 

Oltre la nocività?

 

Le due configurazioni di deindustrializzazione nociva appena delineate si concretizzano con diversi livelli di intensità e “purezza” a seconda dei casi, e a volte elementi di entrambe coesistono nelle stesse zone. Senza dubbio, la deindustrializzazione nociva verde è preferibile a quella grigia, perché dà migliori risultati in termini di salute e ambiente e – se la conversione produttiva e la formazione della forza lavoro riescono – le perdite di occupazione nelle vecchie fabbriche vengono compensate dalla creazione di posti di lavoro pagati meglio e meno nocivi nei servizi legati all’economia della conoscenza e nelle industrie ad alta tecnologia. Ciò dimostra che il dilemma ambiente-lavoro non è ineludibile. Il punto critico del passaggio dalla deindustrializzazione nociva grigia a quella verde è garantire una “transizione giusta” agli operai che rischiano la disoccupazione a causa delle nuove tecnologie, visto che queste ultime tendono sia a migliorare la performance ambientale delle fabbriche che ad aumentare la produttività del lavoro, ridimensionando così la manodopera. Le transizioni giuste nei left-behind places richiedono la partecipazione degli attori coinvolti – in particolare sindacati e organizzazioni territoriali – nonché una redistribuzione in grado di far accedere a una compensazione economica coloro che altrimenti verrebbero lasciati indietro dalle politiche ambientali.

 

Tuttavia, il problema resta la nocività, sia nella deindustrializzazione grigia sia in quella verde. Come abbiamo visto, la deindustrializzazione nociva “verde” lo è solo nel senso che inquina meno di quella grigia, ma ciò non significa che gli aggiustamenti tecnici siano di per sé sufficienti per affrontare la crisi ecologica. In ultima analisi, la deindustrializzazione nociva verde è la manifestazione – nell’ambito delle politiche industriali – del “capitalismo verde” e condivide i limiti di quest’ultimo. In sostanza, nessuna tecnologia può cancellare la nocività della crescita infinita della produzione di merci. Per esempio, l’elettrificazione è oggi l’emblema del tentativo del capitalismo verde di azzerare le emissioni nette di gas climalteranti entro il 2050. Eppure, la digitalizzazione e la decarbonizzazione – le cosiddette “transizioni gemelle” – stanno causando un’esplosione della domanda di minerali. Da una prospettiva globale, se gli attuali parametri di estrattivismo neocoloniale e divergenza salariale persistono, il risultato sarà un approfondimento del tutto insostenibile del produttivismo e delle disuguaglianze, anche se con meno CO2 – nella migliore delle ipotesi.

 

In conclusione, le trasformazioni necessarie al superamento della crisi ecologica riguardano sia le tecnologie sia le relazioni sociali che le producono. Soprattutto, c’è bisogno di una spinta dal basso in grado di redistribuire la ricchezza e far arretrare la frontiera della mercificazione di produzione e natura. La classe lavoratrice si compone delle persone più colpite sia dalla nocività sia dal suo impatto sui mercati del lavoro. Come dimostra l’esperienza del Collettivo di Fabbrica GKN, esiste in potenza un interesse materiale nello sviluppo della “coscienza ecologica di classe” indispensabile per sospingere la società verso questi cambiamenti.

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