di Roberto Cescon

 

[E’ appena uscito per Industria & Letteratura Di tutti e di nessuno. Una poetica della specie?, di Roberto Cescon. Ne proponiamo un estratto].

 

Nelle parole che sentiamo l’aria è scossa dalla voce prodotta da movimenti reclutati da varie parti del corpo. Anche a leggerle in silenzio, quella voce risuona dentro di noi, che veniamo convocati in un luogo dove l’intensità del vissuto trapela nel combinarsi dei fenomeni formali.

Se questo è vero per ogni discorso umano (in virtù della propensione mimetica dell’organismo e della natura ricorsivo-generativa del linguaggio), ciò che rende unica la poesia è l’attenzione a qualcosa di cui la materia sonora e linguistica recano traccia. L’impulso che la innesca viene prima del senso e si propaga come un rumore di fondo nello scheletro degli accenti, nel persistere di un movimento instabile che incarna, ogni volta, l’esporsi all’imprevedibile e il ritornare in sé per comprendersi. La poesia accade nello spazio tra l’attesa del ritmo[1] e l’incertezza della sua forma da realizzare. Nello stesso spazio accade il vissuto degli esseri umani.

 

La poesia ha a che fare con il modo in cui la nostra specie comprende l’ambiente, poiché ogni volta si compie un rito fossile, in cui la voce di un uomo entra nel corpo di un altro tramite la materia sonora cosciente che dà forma al dispiegarsi di scene e eventi. Tutto è qui, da sempre e ancora, situato fuori dal tempo per convenire nello spazio mentale di chi ascolta, rinnovando ogni volta la memoria dello stare tra due tensioni contrapposte, il permanere e il procedere – il nostro essere sospesi e incompiuti.

Inoltrarmi in questo percorso ha allontanato la predelusione che avvertivo negli ultimi tempi proprio nel leggere e ascoltare poesie: niente più ci turba, anche quando siamo disposti a lasciarci sorprendere, cosa che deriva da un’apertura alla vita, mentre le nostre esistenze ci ingoiano. Continuiamo a intuire quel movimento che ci porta altrove, eppure dirlo sta quasi diventando una vergogna e una colpa.

 

In diversi libri di poesia usciti negli ultimi anni, specie tra gli autori più giovani, vi è un più frequente riferirsi alla dimensione biologica e neurocognitiva dell’essere umano, al suo essere incarnato e situato nell’ambiente: gli oggetti, gli eventi e gli organismi entrano nel nostro campo visivo mentre ci muoviamo, cambiando gli stati e le emozioni del corpo, inteso come l’esperienza vissuta del mondo, per la propensione dell’essere umano a simbolizzare la sua temporalità nella lingua. Questo si riflette, per esempio, nell’accostare all’interno della stessa scena eventi che coinvolgono particelle elementari ad altri di natura cosmologica o geologica, o nello scomporre il percepire nella sua materialità organica e inorganica. Potremmo dire che i testi poetici, basati sul ripetersi e finire delle forme e del ritmo, raccontano l’essere situati, poiché nel succedersi degli accenti soggiace l’ostinato desiderio di restare, inscritto nel suo divenire, una volta rivissuto nella mente dell’altro.

 

1. Il mondo accade nella mente

 

Il gatto dei vicini, acquattato in giardino, è pronto a balzare su un merlo. Dalla strada un’auto rallenta prima dell’incrocio. È scoppiata l’estate, dovrei essere più felice. Le dita sui tasti scrivono immagini[2] – il gatto, il rumore dell’auto, l’attesa di una gioia – prodotte da meccanismi chimici e neurali senza che io me ne renda conto, perché la mente[3] è predisposta per sentire ciò che accade nell’ambiente, inteso come gli oggetti, gli eventi e gli organismi che entrano nel nostro campo visivo mentre ci muoviamo, cambiando gli stati e le emozioni del corpo, in un continuo processo di omeostasi. Infatti ciò che «vediamo»[4] (dentro e fuori di noi) può variare il battito cardiaco e il respiro, «stringere lo stomaco» o spingerci ad agire in vari modi. Ho sperato che l’auto fosse di un’amica venuta a trovarmi. Talvolta desidero avere non un gatto, ma un cane, però desisto, se mi figuro di doverlo portare fuori, anche d’inverno, oppure se mi chiedo dove poterlo lasciare se andassi in vacanza. Ogni elemento percepito genera ricorsive descrizioni di me e dell’ambiente per mantenere in equilibrio la mia organizzazione vitale[5], generando cognizione, che significa vivere; è l’insieme dei processi mentali (ad esempio la percezione, la memoria, l’immaginazione, il pensiero) che incarnano la relazione fisica e sociale (che avviene tramite i sensi) tra il mio corpo e l’ambiente, in una sorta di percepire sinestetico. Di recente mi è capitato di perdere gli odori e i sapori. Non sapevo se quella nella mia bocca fosse pasta con i broccoli, se non grazie agli occhi. Chiudendoli, la memoria poteva rievocarne solo un indizio meschino: a parte la consistenza, potevano essere un’altra verdura, perfino un pezzo di arrosto. La mela è ancora mela se non la sento? Vorrei dire di sì, perché la vedo e avverto la sua freschezza mentre si sfarina tra le corone dei molari, ma nel sentirla la sua funzione viene vincolata alla sua presenza e alla mia in quel momento, altrimenti muta il senso del mangiare, che diventa solo nutrire le mie cellule, a un certo punto della giornata, perché ne avverto(no) l’esigenza.

 

La mente, costruendo immagini dell’ambiente a partire dai sensi, forma un’immagine di me stesso cosciente. E, di più, questa stanza in questo momento entra nella mia mente e – insieme a altre immagini di me stesso cosciente – va a formare nel tempo una narrazione di me, estesa al passato e al futuro, e innestata in quel discorso continuo che intrattengo con me stesso. Non lo posso sottovalutare, perché proprio tali processi corporali mi fanno sentire vivo, qui e ora, nel mondo, dal momento che ciò che percepisco adesso va a depositarsi nell’archivio delle mie percezioni, che a sua volta determina chi sono, come mi comporto e come mi comporterò nel futuro. La coscienza è la mia esperienza del mondo, è «sentirsi vivi»[6] a partire dal vissuto senso-motorio. Siamo dunque incarnati e situati con il corpo nell’ambiente, il quale diviene così il nostro mondo. Ne segue che il mondo è quello che accade nella mente di un essere umano a partire dalla relazione del suo corpo con l’ambiente. È impossibile uscire da sé: il corpo resta sempre la sorgente dello spazio percepito, anche qualora volessimo abbracciare una prospettiva esterna. Dopotutto, «vedere, non è sempre vedere da qualche luogo?»[7].

 

Percepire è il modo in cui il nostro corpo agisce nello spazio. Perciò le cose che percepiamo ci appaiono già sulla scorta di come le intendiamo, cioè di come tendiamo verso di esse in base alle intenzioni e alla conformazione del corpo[8]: un oggetto sferico è un pallone da calcio o un mappamondo, a seconda della sua funzione e della nostra esperienza. Tra l’altro, recenti studi[9] ci dicono che non vediamo ciò che si fissa nella retina per poi essere processato dai neuroni, ma vediamo ciò che prevediamo di vedere, «corretto da quanto riusciamo a cogliere»[10], cioè l’informazione scorre dal cervello agli occhi (non viceversa) e solo quando vi sono discrepanze tra l’aspettativa e ciò che effettivamente vediamo si attiva l’informazione visiva. In un certo senso vedere è sognare l’immagine attesa del mondo o, secondo l’intuizione già di Taine («la percezione esterna è un sogno interno»[11]), una sorta di allucinazione comprovata.

 

È il succedersi di esperienze nello spazio a darci l’idea di continuità temporale, dal momento che la coscienza «è sempre una spazializzazione in cui il diacronico è trasformato in sincronico e in cui ciò che è accaduto nel tempo viene selezionato e visto in giustapposizione spaziale»[12]. Del resto nel percepire non ci limitiamo soltanto a registrare l’istante presente, ma tratteniamo ciò che è appena accaduto (già assente) e intuiamo ciò che sta per accadere, abbracciando in tal modo un «campo di presenza vissuta»[13] che dà forma alla coscienza interna del tempo e che va a formare la narrazione di sé, estesa al passato e al futuro. Tuttavia il nostro comportamento è anche determinato dal nostro apprendimento (ossia l’esperienza è influenzata dalla cultura e dalla vita sociale) e dall’istinto (la «memoria» della specie, depositata nei geni da migliaia di generazioni). È come se il presente fosse il passato del nostro futuro, in quanto il nostro sistema nervoso considera più vantaggioso replicare gli stati interni acquisiti[14].

 

Ogni stato di coscienza e ogni narrazione di sé dipendono quindi dai processi corporali in relazione all’ambiente in cui ci muoviamo, e si manifestano nei nostri comportamenti e nei nostri assunti, poiché ciò che percepiamo nel presente va a depositarsi nell’archivio delle percezioni, il quale a sua volta determina chi siamo e come agiremo in futuro. Detto altrimenti, siamo la relazione fra la nostra mente, la memoria del corpo e quella della specie, che ci permette di sentire come propria qualsiasi esperienza. Quest’ultima si realizza sempre nel presente[15], sebbene non riusciamo a percepirlo mentre accade, poiché, come hanno dimostrato gli studi di Libet e di Edelman, tra l’interazione e il nostro esserne coscienti vi è un ritardo neuronale[16], cioè un arco di tempo, definito «compresso», tra il momento in cui il corpo risponde a qualcosa che accade e l’esserne coscienti. Facciamo quello che il nostro corpo ha già deciso di fare e ne siamo coscienti circa mezzo secondo dopo. È quello che Helmoltz chiamò «temps perdu»[17], in seguito agli esperimenti sui muscoli delle zampe delle rane[18], dimostrando che tra la stimolazione elettrica e la contrazione del muscolo trascorre un tempo[19] di cui l’organismo non ha coscienza. È perduto, appunto. Per l’uomo è quindi impossibile l’adagio oraziano di cogliere l’attimo: non solo siamo in ritardo, non possiamo sentire le cose mentre accadono e il presente è sempre «ricordato»[20], ma anche il tempo in cui si verifica l’interazione con il nostro mondo è perduto, sfugge alla coscienza, che ne prende atto quando la risposta neurale è già avvenuta. D’altra parte, il dilemma è «sapere senza essere e essere senza sapere»[21]: l’intuizione di esserci si allontana quando ne siamo coscienti, mentre ci turba, fino a commuoverci, il suo essere già stato.

 

Abbiamo detto che non dobbiamo immaginare il presente come un punto, ma come un campo di relazioni che coinvolge la memoria dell’esperienza (il passato) e la proiezione dell’istante in avanti (il futuro). Questo modo di concepire il tempo è una dimensione della coscienza, che deriva dalla capacità di riconoscere relazioni causali e i mutamenti delle cose nello spazio[22]. Afferma Musil: «la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: “Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro”»[23]. È un’esigenza biologica della nostra specie concepire lo stare nel mondo in forma temporale e narrata[24], benché sia difficile da definire. Quando Agostino ci prova, si risponde così: «Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so»[25]. Eppure il tempo non si declina in termini di temporalità[26], ma di possibilità: è il nostro agire nello spazio che, pur realizzandosi di volta in volta, non si esaurisce nell’accadere; è una metafora con cui la coscienza rappresenta la nostra condizione di vita, definita dalla nostra mortalità. Raccontare in uno spazio un’esperienza è il modo in cui un essere umano concepisce il tempo, nel momento in cui egli dà senso al movimento di eventi e relazioni, altrimenti incoerenti e potenziali. La nostra mente infatti concepisce il tempo raccontando, cioè rendendo significativo, tramite la linearità del discorso, l’accadere di eventi, differenze e novità del mondo fuori di noi, che dunque non resta mai puro accadere, bensì rinvia a qualcos’altro, diventando segno, presenza di un’assenza. Riuscire a concepire ciò che è assente come immagine ha permesso all’uomo di perdere la pura animalità, ponendolo presente a sé come altro. Questo aspetto però mi lascia sempre perplesso. Infatti, se la realtà è ciò che accade nella mente e il segno rende presente ciò che è assente, allora ciò che è assente è presente nella mente, cioè è reale a tutti gli effetti. C’è e basta, anche se affermarlo pare un atto di fede. I graffiti di Lascaux rendono presente un’assenza, non tanto nel senso di ricordarla, quanto nel renderla presente lì, in quel momento, proprio perché assente. Rovesciando il discorso, quei mondi che a un certo punto vediamo dal nulla, prima sono accaduti dentro di noi: una serie televisiva, l’abitudine a indossare la mascherina, lo spezzatino cucinato da mia madre. Se credo che, quando morirò, il Paradiso mi attenda, allora è vero, senza bisogno di riscontri. Le voci dei morti che talvolta sentiamo e che addirittura ci chiamano a dialogare, magari prendendo parte alla nostra esistenza, in fondo per noi sono reali: sono vite già state, che abbiamo amato o odiato e che si installano nella mente grazie alla loro voce, la parte che, più di altre, congiunge il corpo e la mente.

 

[1] D’ora in poi, qualora non altrimenti specificato, per ritmo s’intende il flusso di una trama fonica organizzata nella quale si innerva il senso.

[2] Le «rappresentazioni» interne (per così dire, immaginate) sono realizzate dagli stessi apparati senso-motori di quelle esterne (cioè legate a quello che sta accadendo), in quanto modificano allo stesso modo gli stati di attività neurale, come confermano gli esperimenti sui neuroni specchio, presenti nella corteccia premotoria, e responsabili del movimento, i quali si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando la osserviamo (G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina, 2005). Possiamo dire che comprendiamo poiché il nostro sistema senso-motorio, in base alla memoria dell’organismo e della specie, ci permette di proiettare nello spazio mentale la nostra esperienza del mondo (oltre all’opera già citata di Rizzolatti e Sinigaglia, si vedano: V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Milano, Raffaello Cortina, 2015; G. Fauconnier, Mental spaces: aspects of meaning construction in natural language, Cambridge (MA), Cambridge University Press, 1994).

[3] Chiarisco subito: la mente non è un dispositivo computazionale che realizza nella corteccia somato-sensoriale gli input fisico-chimici del cervello-corpo, cioè non è una sorta di software nell’hardware corporeo − come nel discorso dicotomico di Cartesio e come lo si riteneva fino agli anni Cinquanta − dal momento che l’attività neurale è strettamente intessuta con il corpo e l’ambiente. Non è così scontato stabilire dove finiamo noi e dove inizia l’ambiente, se muoverci e operare in esso costituisce il nostro essere coscienti. A questo proposito si veda Alva Nöe (Out of Our Heads: Why You Are Not Your Brain, and Other Lessons from the Biology of Consciousness, New York, Hill & Wang, 2009, trad. it. Perché non siamo il nostro cervello, Milano, Raffaello Cortina, 2010).

[4] «Vedere» è la metafora di un modo in cui percepiamo le cose a partire dagli occhi.

[5] Si vedano: H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesis and Cognition: The Realization of the Living, Berlin, Springer Science & Business Media, 1980, trad. it. Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Venezia, Marsilio, 1985; F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience, Cambridge (MA), The MIT Press, 1991; A. Damasio, Self Comes to Mind: Constructing the Conscious Brain, New York, Knopf Doubleday Publishing Group, 2010, trad. it. Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Milano, Adelphi, 2012.

[6] C. Koch, The Feeling of Life Itself. Why Consciousness is Widespread but Can’t Be Computed,  Cambridge (MA), The MIT Press, 2019; trad. it. Sentirsi vivi. La natura soggettiva della coscienza, Milano, Raffaello Cortina, 2021.

[7] M. Merleau−Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945, trad. it. Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965; Milano, Bompiani, 2003, p. 67. Potrebbe essere questa l’obiezione principale alla sedicente poesia antilirica, poiché questa strategia stilistica è comunque l’esito dello sguardo di un soggetto. L’autentica poesia antilirica potrebbe essere concepita da un algoritmo o da una rete neurale addestrata, benché i dati iniziali siano sempre immessi da un uomo. Per quanto ne so, il poeta Vincenzo Della Mea sta lavorando a un’opera del genere.

[8] D’altra parte, vediamo sempre più e meno di quello che vediamo, poiché riusciamo a «vedere», per esempio, anche i profili e le parti di un oggetto non immediatamente visibili, cioè non abbiamo bisogno di esaminare tutti i profili di un oggetto per capirlo (benché, anche facendo questo, con certi articoli di design rimanga quasi impossibile): «vediamo» addirittura le chiavi di casa quando frughiamo nella tasca dei pantaloni. Inoltre, secondo la teoria dei quanti, le proprietà in sé degli oggetti non esistono, bensì si manifestano nella relazione con altri oggetti, all’interno di un ambiente, concepito appunto come una rete di relazioni: si può addirittura dire che nulla esiste veramente per sé, ma solo in relazione a qualcos’altro.

[9] Si veda ad esempio A. Clark, Whatever next? Predictive brains, Situated Agents, and the Future of Cognitive Science, «Behavioural and Brain Sciences», 36, 2013, pp. 181-204, cit. in C. Rovelli, Helgoland, Milano, Adelphi, 2020, p. 189 e segg.

[10] C. Rovelli, ivi, p. 191.

[11] H. Taine, De l’intelligence, vol. II, Paris, Libraire Hachette, 1870, p. 13.

[12] J. Jaynes, The Origin of Consciousness  in the Breakdown of the Bicameral Mind, Boston, Houghton Mifflin, 1976, trad. it. Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Milano, Adelphi, 1984, p. 84. Ad esempio lo spazio davanti è del presente, lo spazio dietro è della memoria. Le cose che «vediamo» nello spazio mentale sono sempre una selezione di ciò che effettivamente accade. Tutto ciò che resta fuori, poiché dimenticato, di fatto non esiste. «Ogni cosiddetta associazione nella coscienza è una selezione, un aspetto o immagine, se si preferisce, di qualcosa di congelato nel tempo, di estratto dall’esperienza sulla base della propria personalità e di fattori situazionali mutevoli» (J. Jaynes, cit., p. 87). Controversa e affascinante è la tesi di Jaynes, secondo cui la coscienza è una metafora, un analogo del mondo reale, costruita «su un campo lessicale i cui termini sono tutti metafore o analoghi del comportamento nel mondo fisico» (ibidem). La coscienza dunque sarebbe l’analogo dell’io corporeo, che si muove nello spazio mentale (creato dal linguaggio), un analogo spaziale del mondo a quello del comportamento. Secondo Jaynes c’è stato un tempo in cui gli uomini non possedevano una coscienza, bensì una mente bicamerale: il linguaggio veniva organizzato nella regione dell’emisfero destro corrispondente all’area di Wernicke, e poi «pronunciato» e «udito», attraverso le commissure anteriori, nelle aree uditive del lobo temporale sinistro» (ivi, p. 135). Questa voce, una sorta di allucinazione uditiva, era sentita sempre come altra, in opposizione al sé (ivi, p. 142). Era «il linguaggio degli dei». Il sorgere della coscienza come «analogo io» avvenne intorno al II millennio a.C., in seguito a guerre, catastrofi naturali (l’eruzione del vulcano dell’isola di Tera, l’odierna Santorini) e migrazioni, che comportarono il contatto tra popoli diversi e il crescere della città, nonché la diffusione della scrittura, che ridusse il controllo allucinatorio uditivo, dando un luogo alla voce.

[13] E. Husserl, Zur Phänomeologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), hrsg. v. R. Böhm, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1966, trad. it. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Milano, Franco Angeli, 1981, p. 83, cit. in S. Gallagher, D. Zahavi, The Phenomenological Mind, London, Routledge, 2008, trad. it. La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 125.

[14] Il nostro agire è conservativo al netto delle possibili deviazioni creative (anche se queste, quando si scostano dall’esperienza, la presuppongono). B. Lotto, Deviate. The Science of Seeing Differently, London, Weidenfeld & Nicolson, 2016, trad. it. Percezioni. Come il cervello ricostruisce il mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2017.

[15] Il presente può essere definito come «l’intervallo di tempo affinché l’interazione abbia luogo» (H. R. Maturana, F. J. Varela, The Embodied Mind, cit., p. 64).

[16] Libet definisce questo ritardo neuronale «retroactive referral time», ovvero «rimando retroattivo» (1979). I lavori sul tempo di Libet e collaboratori sono raccolti in B. Libet, Neurophisiology of Consciousness. Selected Paper and New Essays, Boston-Basel-Berlin, Birkhäuser, 1993. Si veda anche il suo Mind Time. The Temporal Factor in Conscoiusness, Cambridge (MA)−London, Harward University Press, 2004, in particolare pp. 33-89, trad. it. Mind Time. Il fattore temporale della coscienza, Milano, Raffaello Cortina, 2007.

[17] Il padre di Proust, Achille Adrien, era un medico esperto di colera, professore alla facoltà di Medicina e membro dell’Académie de Médicine, dove frequentava fisiologi e studiosi, i quali avevano avuto a che fare con gli esperimenti sul temps perdu, un’espressione che dunque il giovane Marcel potrebbe aver mutuato (ma non vi sono prove a riguardo) dal contesto familiare di studi.

[18] H. von Helmholtz, Über die Fortpflanzunggenscwindigkeit der Nervenreizung [Sull’avanzamento progressivo dello stimolo nervoso] (1850), in Wissenschaftliche Abhandlungen, Leipzig, J. A. Barth, 1985, p. 13.

[19] È il tempo impiegato dallo stimolo nervoso per attraversare il nervo fino al muscolo (a una velocità di 24 m/s), al quale si aggiunge 10-2 s tra l’arrivo dello stimolo e la contrazione muscolare e un altro decimo di secondo tra quando l’informazione giunge al cervello e l’impulso necessario a muovere il muscolo.

[20] «Remembered» (G. M. Edelman, Neurobiology. An introduction to Molecular Embriology, New York, Basic Books, 1988, trad. it. Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza, Milano, Rizzoli, 1991).

[21] V. Jankélévitch, Quelque part dans linachevé, (intervista a cura di B. Berlowitz), Paris, Gallimard, 1978, trad. it. Da qualche parte nell’incompiuto, E. Lisciani Petrini (a cura di), Torino, Einaudi, 2012, p. 16.

[22] «Il tempo non esiste. È necessario imparare a pensare il mondo in termini non temporali, sebbene questo risulti difficile sul piano dell’intuizione» (C. Rovelli, Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio?, Roma, Di Rienzo, 2004, pp. 40-46. Sulla differenza tra la concezione del tempo nella fisica quantistica e l’illusione del tempo si vedano: C. Rovelli, La realtà non è come appare. La struttura elementare delle cose, Milano, Raffaello Cortina, 2014, pp. 153-169; Sette brevi lezioni di fisica, Milano, Adelphi, 2014, pp. 64-69. Interessante a tal proposito è la connessione tra il paradigma quantistico e la visione buddista della vacuità universale (Nāgārjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Torino, Bollati Boringhieri, 1979; Id., La via di mezzo, Torino, Psiche, 2000).

[23] R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Berlin, Rowohlt Verlag, 1930-1933, trad. it. L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, (1956-1962) 1978, p. 631.

[24] Il senso del tempo sembra determinato dall’ippocampo, che ha un ruolo anche nella concezione dello spazio e della memoria, dai gangli della base, dal cervelletto, dalla corteccia prefrontale destra – che valuta se il tempo trascorso coincide con quello previsto – e dalla corteccia parietale sinistra, che genera l’attesa di eventi futuri.

[25] Vale la pena di riscrivere tutto il passo, anche se noto: «Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so: così, in buona fede, posso dire di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente. Ma in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall’altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, per conseguenza, il presente per essere tempo, in tanto vi riesce, in quanto trascorre nel passato, in qual modo possiamo dire che esso sia, se per esso la vera causa di essere è solo in quanto più non sarà, tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere? […]» (Agostino, Le confessioni, XI, 14 e 18, Bologna, Zanichelli, 1968, p. 759).

1 thought on “Di tutti e di nessuno. Poetica della specie

  1. In bocca al lupo a Cescon e Industria & Letteratura per questo volume. Continuo a battere sul solito, ormai noioso tasto: moltissimi dei problemi della poesia contemporanea nascono dal fatto che non ci sono (o non si propongono e quindi non si discutono) singole poesie memorabili, tramandabili, usabili come manifesto, che incorporino e diano forma a queste istanze entro il testo poetico. E’ invece tutto un fiorire di discorsi, contesti, paratesti, sottotesti, pretesti, sindacati, oggetti editoriali, campagne…… qualsiasi cosa, insomma, tranne singoli testi esemplari, gli unici peraltro che ci sopravviveranno presso le generazioni future. Un controsenso? Saluti (e Buon 2023).

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