di Maria Teresa Carbone

 

Quali sono i confini di quel territorio incerto che corrisponde alla definizione altrettanto incerta di “giornalismo culturale”? Di solito, nei vecchi quotidiani ma anche nei siti più recenti, gli spazi sono ben delimitati: qui la cultura (cioè i libri) e lì “gli spettacoli” (cinema, teatro, danza e via dicendo). Ma un film, un’opera, un balletto non sono forse oggetti culturali? E dunque, dopo il dialogo con Gianluigi Simonetti, alla seconda conversazione di questo ciclo di incontri sul giornalismo culturale partecipa Ilaria Feole (Milano, 1983) che scrive di cinema e serialità per il settimanale “Film Tv” e fa parte del comitato di selezione della Settimana internazionale della critica della Mostra di Venezia, oltre ad avere firmato le monografie Wes Anderson – Genitori, figli e altri animali (Bietti, 2014) e C’era una volta in America di Sergio Leone (Gremese, 2018) e a essere tra gli autori di Tutto Fellini (Gremese, 2019) e di Architetture del desiderio – Il cinema di Céline Sciamma (Asterisco, 2021). Buona lettura!

 

Nelle sezioni in cui sono ancora scanditi i quotidiani di carta la “cultura” e gli “spettacoli” sono separati, anche se cinema, teatro o danza rientrano indubbiamente nel territorio della cultura. Qual è il tuo punto di vista su questa divisione? Ritieni che il giornalismo culturale si articoli in modo diverso a seconda che tratti di libri o film o mostre d’arte? O l’idea di fondo è che ci si rivolge a pubblici diversi? Credi che sia così?

 

Credo siano diversi i fattori che concorrono a questa differenziazione, e mi riferisco qui prevalentemente al cinema: da un lato c’è la perdita per la settima arte di un ruolo centrale nel discorso culturale, per cui è sempre più raro che un film, un autore o un festival sfondino i confini della nicchia (o della “bolla” come si usa dire oggi riferendosi alla propria cerchia social) per diventare rilevanti in un contesto più ampio e coinvolgere le voci di intellettuali tout court. Questo, a sua volta, dipende da vari movimenti in corso da anni: il disamore per la sala, purtroppo drasticamente accentuato dalla pandemia ma in corso già prima del Covid, e una progressiva infantilizzazione del cinema mainstream, che si rivolge sempre più alla fascia degli adolescenti in quanto sono i giovanissimi, oggi, a tenere in piedi il box office (nonostante esista e resista una fascia di pubblico più maturo e interessato ai titoli d’essai; poi ci sono le felici eccezioni, come il caso recente del successo di pubblico di Le otto montagne, raro caso, a mio parere, di lettori – quelli dell’assai popolare romanzo di Cognetti – che si tramutano in spettatori).

 

D’altro canto, il cinema in particolare ha visto negli ultimi lustri il proliferare di strumenti e luoghi di critica o di approfondimento online (blog e testate) e sui social (i caroselli Instagram, le videorecensioni, da YouTube a TikTok) che hanno ridimensionato la critica su cartaceo, molto spesso, nei quotidiani, relegata a trafiletti assai esigui. Le intersezioni tra questi pubblici esistono eccome, e sarebbe miope, per esempio, pensare che l’utente medio di una o più piattaforme streaming non possa essere anche assiduo spettatore cinematografico, ma lo spazio a disposizione dei quotidiani è giocoforza ottimizzato in base alle linee editoriali.

 

Ancora a questo proposito, vorrei ricordare una rivista italiana degli anni ’80, “Alfabeta”, che spesso includeva nella stessa recensione “oggetti” differenti, per esempio libri e film, sulla base di affinità non solo tematiche. Oggi anche siti culturali che trattano di letteratura, cinema, teatro, arte (penso per esempio a Fata Morgana o al nuovissimo Snaporaz) di rado propongono articoli ibridi. Per quale motivo, secondo te? E personalmente ti è mai capitato di “mescolare le carte”?

 

Credo che si vada sempre più verso una parcellizzazione e iperspecializzazione dei contenuti che difficilmente si apre a questo tipo di ibridi, proprio perché ogni testata o profilo cerca di “posizionarsi” in modo da rispondere a una domanda specifica. Personalmente non ho miei articoli ibridi da citare, ma su “Film Tv” abbiamo adottato, da qualche anno, la pratica del nostro “algoritmo”, per sostituirci ironicamente ai “consigli” automatici delle piattaforme streaming; in sostanza a ogni recensione di film e di serie tv è associato un suggerimento o una suggestione, a cura del recensore, che può provenire anche dalla musica, dal teatro, dal fumetto o dalla letteratura. In questo modo si attivano connessioni intermediali che sul settimanale cerchiamo sempre di coltivare, dal momento che ogni numero riserva sempre un piccolo spazio a libri, dischi, teatro, videoclip e fumetti.

 

Nella tua scheda su “Film-TV” scrivi di essere nata nell’anno del Grande freddo e del Ritorno dello Jedi. In altri termini, secondo le catalogazioni correnti, appartieni alla generazione dei Millennials. Secondo te quali tratti caratterizzano le varie appartenenze generazionali? Analizzando il territorio del giornalismo culturale, quanto peso hanno secondo te queste “linee di faglia” cui i media prestano grande attenzione? A quanto sai, le tue lettrici e i tuoi lettori sono tuoi coetanei? Scrivendo di cinema, hai in mente un tuo pubblico di riferimento?

 

Tracciare un ritratto della mia generazione è compito arduo e ritengo non nelle mie competenze, e dicendo questo mi accorgo che ho già individuato uno dei tratti chiave dei millennial: la sindrome dell’impostore. Nel mio caso, sono diventata maggiorenne nell’anno dell’attacco alle Torri gemelle, mi sono laureata nell’anno della crisi economica del 2008, sono cresciuta con un’idea di precariato geopolitico, professionale ed emotivo che ritengo sia, pur nell’ovvia differenza di qualche anno, una delle chiavi per leggere i millennial, nel bene e nel male. Siamo la generazione “di mezzo” tra quelle in cui le competenze avevano ancora un valore e una rilevanza cruciale nel lavoro, e quella dei Gen Z in cui il concetto di competenza è schiacciato e annullato da un’idea di costruzione individuale dell’immagine che affronta e comporta problemi di tutt’altra portata. E in questa intercapedine abbiamo spesso faticato a trovare la nostra collocazione nel mondo, a sentirci legittimati. Dal punto di vista del giornalismo culturale, mi sembra che il peso maggiore nelle distanze generazionali lo rivelino le questioni di wokeness e politicamente corretto: noto una grande e sostanziale differenza già tra la mia generazione e i colleghi della Generazione X, assai restii ad aprirsi ai temi dell’inclusività, della fluidità, del body positive; ma anche a temi più ad ampio raggio come il movimento #MeToo. D’altro canto, nella Generazione Z la militanza su questi temi, come pure su ecologia e animalismo, è data quasi per scontata, genuina ma talvolta arrembante e superficiale, senza avere una base di consapevolezza.

 

Per quanto riguarda i miei lettori, sono cresciuta tra le pagine di “Film Tv” che è un prodotto anomalo per molti versi, di cui è difficile identificare un lettore tipo: essendo costituito da pagine di guida televisiva e pagine di critica e analisi approfondita, sappiamo che il bacino è molto vasto, dallo studente universitario allo spettatore anziano di prima serata Rai. Per questo motivo cerco sempre di rivolgermi al pubblico più ampio possibile, in questo senso il giornale è stato per me anche una grande palestra per imparare a non dare nulla per scontato e a modellare lessico e fraseggio in modo da essere accessibile, che non significa né semplice né banale.

 

Nella tua attività di critica cinematografica scegli i film di cui scrivi o ti vengono proposti? Puoi spiegare meglio come, nel tuo caso, si passa dalla visione del film alla pubblicazione – su carta o online – del tuo scritto? (Domanda facoltativa ma importante: abitualmente i tuoi articoli sul cinema sono retribuiti?)

 

Dopo i primissimi anni di “gavetta”, in cui i titoli mi erano esclusivamente assegnati dal direttore del giornale, attualmente di solito si tratta al 50/50 di proposte che faccio io, sulla base di quanto mi interessa, e proposte che mi sottopone il direttore Giulio Sangiorgio o altri colleghi che sono a capo di diverse sezioni del giornale, sempre in base ad affinità, oltre che a questioni più banalmente logistiche, come la possibilità di vedere un certo film ai festival o alle proiezioni stampa.
Solitamente, a “Film Tv”, abbiamo una riunione redazionale ogni settimana, in cui ciascuno è chiamato a farsi avanti rispetto a temi, autori, titoli, tendenze di cui desideri scrivere, nell’ambito delle uscite (in sala e online) di quella settimana e di quelle subito successive. Nel mio caso specifico, per mia attitudine, tendo a essere poco “possessiva” verso i titoli, a meno che non si tratti di un autore su cui ho una preparazione specifica; solitamente mi piace mettermi alla prova anche scegliendo film meno ambiti, uscendo dalla cosiddetta comfort zone. Una volte fatte le assegnazioni, si stabiliscono – di comune accordo tra recensore e direttore – le misure dei pezzi (sul giornale abbiamo tre “tagli”, corto medio e lungo, ovvero 800, 1600 e 3000 battute) e la consegna della recensione (corredata dal succitato “algoritmo”) va effettuata entro la settimana successiva. Poi segue la correzione bozze, e il giornale va in stampa ogni venerdì notte per uscire in edicola il martedì.

 

Un po’ più complessa è la questione delle copertura delle recensioni di serie tv, che sono aumentate esponenzialmente negli ultimi anni, ma di cui ancora molti colleghi sono un po’ snobisticamente digiuni, il che riduce il parco recensori rispetto al comparto cinematografico. Inoltre essendo spesso visioni anche di 8-10 ore, richiedono di essere assegnate con maggiore anticipo.

Per quanto riguarda la retribuzione, il mio lavoro a “Film Tv” è a tempo pieno come membro della redazione ed è ovviamente retribuito, così come lo sono in molti casi anche le collaborazioni per altre testate. Non tutte, e anche se cerco di impormi di limitare i lavori non pagati (dare il giusto valore al lavoro intellettuale è un altro dei problemi di noi millennial, mi pare) mi capita comunque di scrivere per testate online che non hanno i mezzi per prevedere la retribuzione per alcuno dei loro collaboratori, ma che ritengo rilevanti e accurate nelle loro pubblicazioni.

 

Come valuti l’evoluzione del mercato cinematografico (calo delle visioni in sala, home video, piattaforme, eccetera)? Pensi che il tuo lavoro ne sia stato modificato in modo sostanziale rispetto ai tuoi inizi e alle generazioni precedenti?

 

Faccio questo lavoro da 13 anni e l’ho già visto cambiare in modo notevole. L’avvento delle piattaforme è stata una vera e propria rivoluzione, che ha modificato anche strutturalmente il settimanale per cui scrivo, con l’aggiunta di diverse pagine per poter fornire recensioni e approfondimenti sull’enorme quantità di titoli che vengono distribuiti online. Non tanti anni fa l’home video aveva ancora un mercato di rilievo, e di conseguenza un suo spazio sulle pagine, mentre ora è diventata una questione di nicchia, per collezionisti e fanatici del supporto, in cui scovare rarità o cofanetti di pregio. I film in sala, a dispetto dell’effettivo calo delle presenze (che comunque, fortunatamente, proprio tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 sembrano avere un po’ di ripresa), sono aumentati di numero, si è diffusa la formula delle “uscite evento” con titoli in sala per pochissimi giorni, e questo ha fatto sì che il nostro lavoro sia inevitabilmente, accanto a quello di critici, anche quello di ciceroni, di guide, di “tour operator”: a fronte di un’offerta esponenzialmente moltiplicata, come scegliere cosa guardare? Come individuare le tendenze e l’evoluzione del linguaggio cinematografico, sempre più sfuggenti? Come riconoscere i nuovi autori e le nuove forme della settima arte? Come aggirare i discorsi triti e ritriti (vedi: “a Hollywood non ci sono più idee, si fanno solo remake”, oppure: “chi guarda le serie non guarda i film in sala”) guardando in profondità, scansando i luoghi comuni per riconoscere l’aria che tira nel discorso culturale? Rispondere a queste domande mi sembra la missione cruciale del nostro mestiere, non solo a “Film Tv” ma come critici, in generale, e bisogna saper essere flessibili e curiosi.

 

Molte volte, sia nei giornali di carta sia negli spazi online, la valutazione di un film si sintetizza con stelline, pallini, asterischi. È, si dice, un servizio al futuro spettatore. Cosa ne pensi? (delle stelline e dell’idea di servizio).

 

È un tema molto dibattuto: a “Film Tv” abbiamo sia i voti (da 0 a 10) sia i famosi “pollici” (alto, medio, verso) che fanno da sintetica segnaletica di “apprezzamento”, a colpo d’occhio. So che per molti lettori è un elemento importante e forse irrinunciabile, e indubbiamente lo considero coerente con lo spirito del nostro settimanale di essere prima di tutto una guida, una mappatura, un compagno di viaggio nei percorsi di visione dei lettori.

Io, personalmente, da lettrice e da critica, ne farei volentieri a meno; più passano gli anni e meno mi interessano i giudizi di valore, da leggere e da elargire, e trovo invece più appassionanti i percorsi interni, le chiavi di lettura, le firme che sappiano aggiungere qualcosa alla visione di un film con il proprio sguardo, indipendentemente dal fatto che l’abbiano amato o detestato.

 

Con Alice Cucchetti curi per “Film TV” una bellissima newsletter, Singolare, femminile, in cui raccontate “i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv”. Mi puoi raccontare com’è nata l’idea, perché avete deciso di affidarvi appunto a una newsletter, quali riscontri avete da chi vi legge? E soprattutto – come critica cinematografica, ma anche, in senso più ampio, come giornalista culturale – come valuti il modo in cui i media italiani, specializzati e non, affrontano la “questione di genere”? O, secondo il titolo di un libro recente di Daniela Brogi, “lo spazio delle donne”?

 

Singolare, femminile nasce da una serie di articoli e di incontri (dedicati alla serialità al femminile) che io e Alice Cucchetti abbiamo curato negli anni su e per “Film Tv”, e che su invito dell’editore del settimanale abbiamo deciso di trasportare online per avere, appunto, uno spazio pressoché illimitato rispetto alle ovvie gabbie del cartaceo, che risponde a esigenze inamovibili di impaginato e di attualità. La newsletter ci consente invece di produrre testi senza limiti di lunghezza, di spaziare tra personaggi e titoli non necessariamente legati all’attualità (abbiamo approfondito, per esempio, film del passato come Thelma & Louise o Strange Days) e di addentrarci in modo più specifico nelle filmografie intere di cineaste, sceneggiatrici, attrici. Ma anche, cosa che ritengo molto importante, di analizzare e scomporre alcuni fenomeni, dalle quote rosa al #MeToo, dalla serialità sex positive all’abbattimento di cliché sulla rappresentazione del femminile, temi che mi sembrano molto rilevanti oggi e che difficilmente trovano spazio sul cartaceo. Il riscontro è stato davvero buono, abbiamo un bel bacino di utenza (a maggioranza, mi pare, nettamente femminile) e abbiamo avuto buoni feedback anche sull’utilità della newsletter per scoprire o riscoprire film e serie tv.

 

Per quanto riguarda la “questione di genere” nei media italiani, c’è davvero ancora tanto lavoro da fare. C’è un grande problema di superficialità e di eccessiva semplificazione di tematiche e movimenti, che a seconda dei casi rischia di svilire la causa femminista o, viceversa, di sostenerla con ottuso entusiasmo. Credo che in Italia, rispetto ad altri paesi europei, l’impronta patriarcale sia molto più marcata e radicata, rischiando spesso di liquidare questioni cruciali come sintomi di una presunta (e inesistente) dittatura del politicamente corretto, mentre tutto ciò che concerne lo spazio delle donne, la rappresentanza e la rappresentazione delle donne, la lotta per la parità, sono temi di primaria importanza per la nostra società, che è importante guardare con lucidità, problematizzandoli, anche mettendoli (e mettendosi) in discussione, ma non semplificandoli.

 

Rivolgo infine anche a te una domanda ricorrente in questo ciclo di conversazioni: pensi che i social possano essere uno spazio di giornalismo culturale? Se sì, puoi citare qualche esempio che ritieni particolarmente interessante?

 

Forse un po’ ottimisticamente io credo ancora di sì, anche se pure qui i rischi di semplificazione sono alti: le “pillole” di informazione, scritta o video, che i social e i nostri tempi di attenzione sempre più limitati consentono non sono sempre il mezzo migliore per fare giornalismo. Faccio qualche esempio secondo me prezioso: il francese “Télérama” (cugino d’oltralpe di “Film Tv”) ha una pagina Instagram ricchissima di contenuti, piccoli excursus a carosello o in forma di video, che esulano dalla forma recensione per costruire percorsi su autori, temi, tendenze, in modo sintetico ma sempre molto preciso e accattivante. Per restare invece in Italia, sicuramente, su tutti, “Il Post”, ormai proverbiale per le sue cose “spiegate bene”, e capace di aderire ai formati Facebook e Instagram molto agilmente; “Internazionale”, che ha anche particolare attenzione all’audiovisivo; “Una donna a caso”, encomiabile pagina che, a proposito di quanto si diceva nella domanda precedente, individua i casi dilaganti di sessismo giornalistico per restituire alle donne i loro spazi e i loro nomi e cognomi; l’Ispi, istituto per gli studi di politica internazionale, ricco di infografiche esaustive e sintetiche per chi ha poco tempo; i reportage di Cecilia Sala.

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