di Piero Calamandrei
[…] Ma fino da allora cominciò la Resistenza: contro l’oppressione fascista che voleva ridurre l’uomo a cosa, l’antifascismo significò la Resistenza della persona umana che si rifiutava di diventare cosa e voleva restare persona: e voleva che tutti gli uomini restassero persone: e sentiva che bastava offendere in un uomo questa dignità della persona, perché nello stesso tempo in tutti gli altri uomini questa stessa dignità rimanesse umiliata e ferita. Cominciò così, quando il fascismo si fu impadronito dello Stato, la Resistenza che durò venti anni. Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono ad uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.
Vent’anni: e alla fine la guerra partigiana scoppiò come una miracolosa
esplosione. Lo storico che fra cento anni studierà a distanza le vicende di
questo
periodo, narrerà la guerra di liberazione come una guerra che durò
venticinque anni, dal 1920 al 1945, e ricorderà che la sfida lanciata dagli
squadristi
del 1920 fu raccolta e definitivamente stroncata dai partigiani del 1945. E
il 25 aprile finalmente i vecchi conti col fascismo furono saldati: e la
partita
conclusa per sempre.
Non bisogna credere, come qualche pietoso oggi vorrebbe per carità di
patria, che gli orrori degli ultimi due anni siano stati così spaventosi
solo perché
il nemico era mutato: perché gli oppressori non erano più soltanto i
fascisti nostrani, ma erano gli invasori tedeschi, gli Unni calati dai paesi
della
barbarie.
E’ vero sì, che gli ultimi due anni portano il nome di Kesselring; ma
Kesselring fu l’ultimo dono che Mussolini fece all’Italia; fu l’ultimo volto
di una
follia che da venti anni preparava l’Italia a quell’epilogo spaventoso. Su
su, regione per regione, borgo per borgo, porta per porta, la furia
barbarica,
chiamata in casa nostra dal dittatore impazzito, passava e livellava come
una falce. […]
La Resistenza alla fine li spazzò via; ma non bisogna oggi considerar quell’epilogo soltanto come la cacciata dello straniero. Quella vittoria non fu soltanto vittoria contro gli invasori di fuori: fu vittoria contro gli oppressori, contro gli invasori di dentro. Perché, sì, veramente, il fascismo fu un’invasione che veniva dal di dentro, un prevalere temporaneo di qualche cosa di bestiale che si era annidato o si era ridestato dentro di noi: e la Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi, che per venti anni l’aveva soffocato.
Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità
dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la
fiamma
miracolosa della Resistenza.
Aver riscoperto la dignità dell’uomo, e la universale indivisibilità di
essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per
cui
la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la
liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore,
questo sentimento
della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua
nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto
più prezioso
e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.
[Tratto da Passato e avvenire della Resistenza, discorso tenuto da Piero Calamandrei il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano, alla presenza di Ferruccio Parri].
[Immagine: Bologna: partigiani entrano nella città liberata (Archivio famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Reggio Emilia)].
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
quelli che restano hanno i capelli bianchi
e raccontano ai figli dei figli
come, al tempo remoto delle certezze,
hanno rotto l’assedio dei tedeschi
là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
altri rosicchiano la pensione dell’Inps
o si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’e’ congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno e’ nemico di ognuno,
spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
la mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non e’ mai finita.
(Primo Levi, Partigia)
Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell’acqua della fonte
La bava degli impiccati.
Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull’erba secca del prato
I denti dei fucilati.
Mordere l’aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d’uomini
Mordere l’aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d’uomini.
Ma noi s’è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l’hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.
(Franco Fortini)
Grazie a Emanuele Zinato e Lorenzo Marchese per queste incursioni poetiche. Ci sarebbe molto da dire, Emanuele, sulla poesia di Levi e su quella amarezza. Anche il discorso di Calamandrei, pur da tutta un’altra angolatura, in un passo non riportato parla dell’amarezza, quasi della delusione di ciò che resta, dopo dieci anni, della Resistenza…
E, senza nasconderci dietro le parole dei Padri, della Resistenza di oggi ( a chi? come? per cosa?) che si dice?
Si potrebbe sapere qualcosina in più di quel “molto da dire”, visto che siamo ancora vivi, anche se acciaccati e dispersi?