di Luciano Mazziotta
[Esce domani per le edizioni Valigie Rosse di Livorno, a cura di Paolo Maccari e Valerio Nardoni, il libro Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke. Scritti come epitaffio di Luciano Mazziotta, un attraversamento personale della celebre opera del poeta di Praga, pubblicata per la prima volta a febbraio del 1922. Ne presentiamo alcuni estratti.]
Prima parte
I
Lì sbucò un albero. E fu il primo passo nell’oltre.
E Orfeo canta. È un albero trafitto nell’orecchio.
Quindi silenzio. E silenzio. E in quel silenzio
daccapo un inizio, un indizio, la metamorfosi.
Poi ombre di bestie lasciarono il bosco di luce
lo spazio spianato di tane e cespugli,
allora fu sempre più chiaro che non per tramare,
né per paura dicevano calmati al cuore,
ma per ascoltare. Ruggiti, urla, fracasso
mutarono in piccoli battiti. E dove prima
c’era una casa di legno a riceverli,
un covo segreto di istinti nascosti,
con porte d’accesso che scricchiolano
lì, nell’ascolto, piantasti il tuo tempio per tutti.
1.I
Descriviti l’occhio. Col tratto leggero dell’indice percorrine l’orbita qui in questo specchio deposto nell’unico spiazzo del bosco spoglio di tane e cespugli. Le bestie spaesate gli ruotano attorno e non ti riguardano, né le contempla l’immagine dove premendo sul vetro il riflesso non lacrima. L’occhio descriverlo qui, è ciò che se serve impedisce di chiuderlo. Sbarra le palpebre, scosta le ciglia – quindi silenzio e silenzio e le bestie spaesate si accorgono – scopri radici che assediano l’iride: al centro sbuca la forma di un albero, sbuca e respinge l’attrito dell’aria a distinguere il campo che vede da quello che è visto. Tutto si unisce due volte e sconfina. E l’albero ascende, trafigge la retina e quindi silenzio e silenzio e buio non fatto all’ascolto. Orfeo non ci scalda col suono dal freddo ricordo di ciò che sarà, non dal deserto. Quindi descrivilo l’occhio, il globo che puoi constatare e spezza il legame col tempo, senza guardare che questo allo specchio, che qui, dove ciò che si compie ti basta. Le bestie spaesate che migrano non ti riguardano e l’occhio allo specchio è un cerchio composto, il nero in cui se ti inerpichi affondi nel nero più saldo dell’occhio di un altro. Descrivi anche questo, violando le leggi autoimposte di non descrivere altro che il tuo, neppure questi occhi concentrici e sali sul bordo dell’epoca. Col tratto leggero dell’indice percorri la cima dell’albero qui, in questo specchio dove rifletti e risali all’origine. Sali, e salendo, poi guardati l’occhio. Sprofonda.
XX
Dimmi che cos’altro ho da dirti, amica mia
che mi hai insegnato il rumore che fa una sconfitta.
Forse il ricordo di un sogno di aprile.
Era sera, in Russia o altrove e un cavallo
scuro fuggito da solo di là sull’asfalto
si trascinava un palo incastrato alla zampa
per starsene al buio di notte tra i fari.
E dimenava i suoi ricci dal crine
sul collo mentre trottava sfrenato
nel suo galoppo disposto all’impatto.
E straripavano pozzi di sangue.
Lui percorreva il mio sonno. E suonava
e ascoltava. E custodiva nel passo il racconto
del tuttoèperduto. Amica mia,
questo solo so dirti.
1.XX
Questo solo so dirti. Nell’inverno russo esteso le immagini contengono immagini di sognatori diversi e i nomi e le azioni si intrecciano. Offrire un dono votivo o dire parole di fine sono sinonimi, e Orfeo nei fraseggi si muta fino ad assumere i tratti di amici recisi cui non si può dire più niente se non parlare di noi attraverso le crepe di un incubo. Solo questo so dirti. Ad esempio descrivere: un cavallo fuggito da solo di notte che porta nel passo le tracce di ciò che gli rende il galoppo impacciato e la libertà conquistata un’attesa di impatto a fermargli la corsa per sempre. La città recintata consola. E nel suo trotto che ha fatto esperienza del taglio si sente la scala in maggiore del Tuttoèperduto, uno strumento sognato a dicembre nella città congelata che teme il disgelo. C’era Orfeo che indicava una lastra di ghiaccio estratta dal suolo, al cui interno una circonferenza serrava lo schizzo di labirinti privi di porte d’uscita. Noi chiedevamo. E Orfeo nominava una volta il Tuttoèperduto, uno strumento che suona per ogni sconfitta. Pigiando sul bianco dei labirinti diceva sentite. E si sentiva suonare la numero nove a Kreutzer. Era il trionfo del Tuttoèperduto all’orecchio, uno strumento che suona per ogni sconfitta e si sente, nella città congelata che teme il disgelo, tutte le volte che appare da terra l’occhio geloso dei morti perché non abbiamo più scuse. Amica mia, solo questo so dirti.
*
Seconda parte
II
A volte la linea perfetta sfugge dal foglio
e sfora, per sbaglio, nel foglio di fianco.
Così si appropriano spesso gli specchi, per caso,
di un nostro sorriso, l’unico e il solo,
quando al mattino, riflessi, scopriamo di esistere –
o quando, stanchi, la sera, spegniamo le lampade.
E nel respiro reale dei volti d’origine
dopo rimane soltanto una traccia sbiadita
di quello che gli occhi hanno un tempo fissato
tra la fuliggine attorno al camino
che sfuma: è un lampo di vita, perso per sempre.
Ma niente lo afferra il lento declino del mondo.
Allora ci basti quest’urlo di supplica
a dire col canto il cuore che pulsa nel tutto.
2.II
Se poi risalendo dal nero glaciale che avvolge i nostri propositi al mare che si alza, impercettibile ancora e impercettibile cala; se camminando con gli occhi puntati sui colli, i vulcani, i balconi di alberghi dismessi in un porto, di fronte, staccato di un passo, facesse da guida uno specchio, uno specchio cosparso di fori, di sfuggita a riceverci tutti appiattiti e trafitti di mondo, e sullo sfondo il fantasma di quello che avremmo dovuto salvare, distrarci però sempre in vista, senza sigillo del patto di non voltarsi a fissarlo che affonda; se questo specchio forato in cui coesistiamo in forma illusoria con ciò che ci deve lasciare e il deserto a venire, fosse l’interprete freddo che amiamo, cui raccontare il sogno più intimo di allontanarci insieme ad Orfeo da quello che abbiamo inseguito e che avremmo dovuto salvare; se lo mostrasse trafitto di mondo con noi, salire e sfumare tra la fuliggine, come se tutte le volte che appare e scompare fosse per sempre tutto perduto per sempre; se poi questo specchio di fronte in cammino iniziasse a creparsi e noi a supplicarlo di no, perché non c’è data occasione di esistere interi al disfarsi dei ghiacci, se iniziasse a creparsi e in un tentativo maldestro toccassimo il punto più fragile che lo disintegra, e perdessimo tutto di vista; allora potremmo persino chiudere gli occhi e aspettare che ciò che si logora più lentamente dietro di noi ci raggiunga e dismembri in frantumi di vetro sui quali, all’aperto, rifletta, in un giorno di niente, impensabile, il sole.
XVII
In certi giardini di galaverna, tra pochi
alberi spogli, da petali soffici secchi
sbocciano i fiori stranieri di ciò che consola.
E hanno il profumo che calma le aiuole dismesse
del tuo essere niente. Di volta in volta, e poi ancora,
ti meraviglia la forma del frutto,
la sua integrità, il suo succo di buccia,
che né noncuranza né fame deformano:
vermi ed uccelli non passano qui. Api sugli alberi.
E giardinieri schivandole colgono i frutti
da porgere a noi che non possiamo afferrarli.
A noi, col nostro passo impaziente, non è concesso
stravolgere il cosmo di queste galassie,
perché, guardaci, mentre cresciamo già siamo fantasmi.
2.XVII
Togli dall’incedere del verso la domanda, il timbro della voce che si inarca alla ricerca di un confine in cui schiantarsi e ricadere nel deserto che la insabbia. Il silenzio che perimetra la fossa nella quale si dissolve la questione è tra le possibili reazioni la risposta più appropriata alla sostanza del tuo nome, cui hai costretto tutti i nodi dell’esistere e del quale dài la colpa a chiunque lo pronunci: hai premesso sia quest’atto a dichiarare che continui a permanere controvoglia. La lingua originaria è una condanna alla sintassi in cui siamo impelagati e seda, forse, seda la lingua di altri luoghi, sibila scontorna in un puro annullamento che riduce la distanza dalla notte. La frase di altri tempi è un resoconto anticipato entro il quale ritrovare la parola taciturna, un diario andato perso e ora invaso dalle vespe che impediscono di scioglierne il sigillo e assaltano la mano che si arrischia ad afferrarlo. Fino a quando l’alveare si allontana e per un attimo traspare tra le righe della pagina infangata la scritta che non sai se ti appartiene o appartiene più a nessuno o se è stata l’impazienza del dolore a rivelarla e non doveva, non doveva essere forzata a confidare questo buio singolare. Ché il silenzio che asserisce è la risposta più appropriata per la maschera che indossi.
XX
Lo spazio tra le stelle, vedi, è solo distanza.
Ma è qui che si impara quanto tra loro più distino ancora
le cose di qui: ad esempio un bambino, qualcuno, e un altro
vicino, e niente che comprendi che li leghi.
Il destino conta i nostri passi in metri d’esistenza
ma anche questa distanza è una lingua straniera.
E pensa a tutti i passi che hai percorso
per riuscire, pur pensandoci, a evitarla
e al punto che non trovi in cui si chiuda il cerchio.
E ti conforti analizzare sul tavolo imbandito
il pesce che ti fissa dal bianco del suo occhio.
E smetti di pensare che non dica una parola.
Esiste, forse, un posto dove il pesce, senza voce,
direbbe tutto ciò che avremmo detto pure noi.
2.XX
La notte convince nel paese deserto che contrappesa il ghiacciaio pensato. E se l’occhio si mantiene orizzontale poi si inoltra per vicoli di fango in fondo ai quali una fessura si spalanca su ettari d’incendi. Dopo, quando sbatte, si solleva verso il cielo e si concentra sull’oscuro tra due stelle, comprensibile per scelta dalle dita della mano molto più dell’ipotetico traguardo che ci siamo prefissati, camminando accompagnati da una guida che fornisce indicazioni in una lingua nella quale non c’è suono che assomigli a questa nostra. Nero di deserto, in cui giriamo attorno alle caserme abbandonate evitando le altre strade che dai tempi del disgelo hanno assunto nuovi nomi, diventando, prima, corsi d’acqua, e, dopo, giacigli di detriti tra i quali può affiorare un incontro più recente con chi ancora sul terriccio conta i passi che si sono allontanati ed è niente la distanza tra le stelle. Siamo pronti a ritornare per percorrere le impronte a ribadire siano nostre, trattenendoci a un millimetro dal punto in cui il cerchio possa chiudersi. Desideri contrastanti, cinetosi, e fallimenti di propositi per i quali rincasiamo a consolarci con il pesce preparato sulla tavola che ci fissa col suo bianco come noi fissiamo il cielo. E, mangiandolo di corsa per finire, siamo l’ultimo disastro che ha osservato prima di essere inghiottito, mentre l’unica parola consentita dal contesto si pronuncia, l’unico sospiro che conduce, figurandosi un elenco di vocaboli proibiti, dentro il sonno, come fosse l’occasione di sparire irripetibile, dal deserto, dai detriti, dalla sempre contraddetta.
Scritti splendenti (definirli splendidi sarebbe stato banale ). Di una lucidità magnifica, delicati e incisivi nello stesso tempo.
Una rivelazione, per me, folgorante.
Da leggere e rileggere, come Rilke.