di Sergio Benvenuto

 

1.

 

Ogni tanto mi giungono reazioni infastidite da parte di amici e colleghi psicoanalisti a certe esibizioni di analisti mediatici. Dicono: “Avranno anche una pratica sofisticata, eppure quando parlano in televisione o scrivono sui giornali, finiscono col dire piatte banalità”. Un comico televisivo parlò di “psicobanalisi”. Ho visto poi alcune di queste apparizioni incriminate, anche di persone che stimo. A me risultavano banalità? Non lo so.

 

Mi colpì, negli anni 80, un’intervista data da Enzo Bearzot, il ct della nazionale italiana di calcio che le fece vincere la Coppa del Mondo nel 1982. Di una persona del genere il minimo che si possa dire è che capisse veramente il calcio. Ebbene, finiva l’intervista dicendo: “Nel calcio una squadra deve evitare il più possibile di subire goal, e deve cercare di fare più goal possibili all’avversario!” Questo sembrava essere il lascito del suo sapere sportivo. Banalcalcio? Possibile che l’essenziale che avesse da dire sul calcio fosse quel che sa anche un bambino di cinque anni?

 

Eppure all’epoca quella frase non mi parve affatto un truismo, perché oltre all’enunciato di Bearzot coglievo, credo, l’enunciazione (vedi Emile Benveniste, il linguista che introdusse la distinzione tra enunciato ed enunciazione). In sostanza Bearzot criticava il modulo di calcio brasiliano, che, allora come oggi, punta sulla spettacolarità, un calcio-samba che strappa l’applauso e manda in visibilio. Ma proprio in quel mondiale Bearzot aveva sconfitto la favorita, il Brasile. In sostanza Bearzot diceva: non basta fare del buon calcio, occorre mirare al risultato. Quella frase, in sé lapalissiana, presumeva quindi una prospettiva molto più profonda.

 

Anche in campi considerati molto seri, come in filosofia, spesso siamo colpiti dalla banalità di certi enunciati famosi, che pure ci impressionano per altri versi.

La storia della filosofia comincia con un’ovvietà di Parmenide: “L’essere è, il non-essere non è”. E si pensi al “penso dunque sono” di Descartes: a guardarla bene, niente di più banale. Io sono che cosa? Un essere pensante. In fondo il gran colpo di Descartes è stato una tautologia: “penso, dunque sono un essere pensante”. Eppure pensiamo che quella conclusione, che pone fine al dubbio cartesiano, sia un punto di svolta della filosofia occidentale. Perché con Descartes si avvia una lunga stagione filosofica che cercherà il fondamento dei nostri saperi nel soggetto stesso, ovvero nella sua coscienza.

 

Si prenda la prima (famosa) frase del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein: “il mondo è tutto ciò che accade” (“Die Welt ist alles, was der Fall ist”). Non è un’ovvietà? Eppure questa frase che sembra tautologica segna un’altra svolta nella filosofia, se la vediamo sullo sfondo di un dibattito filosofico secolare: certe cose come pensieri, numeri, classi di classi, principi etici, ecc., sono cose che accadono? Ovvero che cadono (der Fall ist)? Che cosa è questo accadere da cui il mondo è costituito? Tutto un filone filosofico del resto rigetta questa premessa ontologica: il mondo non si limita a essere quel che accade, ma implica ciò che chiamiamo il pensiero.

 

Altrettanto banale è l’enunciato finale del Tractatus: “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” (“Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen”). Sembra una raccomandazione del tipo “a buon cavalier non manca lancia” o “chi non risica non rosica”. Ma visto in una prospettiva multi-dimensionale, la frase implica una serie di sfide metafisiche tutt’altro che banali: che la filosofia deve ammettere che ci sia dell’indicibile, e che questo indicibile non può essere in qualche modo detto. Sembra nulla, ma molte filosofie aborriscono l’indicibile.

 

2.

 

Questo pone un problema filosofico di fondo: il significato di ciò che diciamo, in ogni campo, dipende dalla significazione di certe frasi prese in sé, oppure dal processo per cui si giunge a esse? È una questione molto dibattuta in particolare dalla filosofia analitica, che si interroga sulla significazione. Ad esempio, quando la fisica giunge a dire che non è possibile superare la velocità della luce, che cosa questo significa? La sua significazione non è scomponibile dal processo storico che ha portato a questa conclusione. Un fisico capisce il senso di certe affermazioni fondamentali della fisica di oggi perché vede sullo sfondo quali problemi la scienza ha dovuto affrontare e risolvere per giungere a quella conclusione. È ciò che una divulgazione scientifica grossolana, basata sulle conclusioni inerti di una lunga ricerca, fa mancare a chi la legge.

 

Per lo più gli enunciati che costituiscono una teoria psicoanalitica o filosofica o scientifica, o un’opera letteraria, o un saggio… hanno una forma bidimensionale, li si vede schiacciati, e la loro combinazione sulla superficie dà loro un certo senso, che spesso può essere terribilmente banale. Ma se vediamo questi enunciati come tra loro correlati da una rete tridimensionale, e magari anche quadrimensionale, ciò che appare sulla superficie bidimensionale assumerà tutt’altro senso.  Quella che Benveniste chiamava ‘enunciazione’ è di fatto la dimensione che scegliamo a partire dalla quale leggiamo o ascoltiamo un enunciato.

 

Spesso mi trovo a non ammirare certe opere filosofiche o artistiche o letterarie, anche se devo riconoscere che le persone che invece le ammirano sono certamente competenti e raffinate. Di solito dico di queste opere, con un’umiltà che potrebbe apparire falsa, “non le capisco”. Mi guardo bene dal dire “sono opere banali, false” perché so che il mio giudizio è soggettivo, come qualsiasi giudizio. Non a caso si parla di differenze di gusto, usando una metafora appunto gustativa: un’opera letteraria, filosofica, artistica, musicale, politica può piacere o meno come può piacere o meno un piatto o una bibita. Ma come spiegare queste differenze di gusto? La metafora gastronomica abbassa la dignità delle nostre differenze di valutazione delle opere, ma non spiega le differenze.

 

Una metafora forse migliore è quella delle dimensioni, come in matematica. Diciamo che quando non “capiamo” qualcosa – filosofica, letteraria, artistica… – vediamo questo qualcosa a due dimensioni o a tre, non abbiamo accesso alle altre dimensioni che ci permettono di “vederla” come dovrebbe esser vista. Si prenda una bottiglia di Klein:

 

 

Questa è una immersione – come si dice in topologia – di una bottiglia di Klein in uno spazio a tre dimensioni. Vista così, si tratta di un oggetto che può incuriosire, ma che risulta in fondo alquanto banale. Molti ne hanno un esemplare su uno scaffale di casa, ninnolo tra ninnoli. Ma ne comprendiamo la struttura, ovvero il senso, solo se la vediamo in uno spazio a quattro dimensioni; se vediamo come essa viene costruita a partire da un nastro di Möbius.

 

Nastro di Möbius. La bottiglia di Klein si costruisce quando congiungiamo i due bordi del nastro in modo da farne un tubo. Ma per farlo ci occorre una quarta dimensione che non si trova nel nostro spazio.

 

Si vedano queste proiezioni ortogonali di una sedia.

 

 

 

 

Quando si vedono queste figure, è difficile riconoscerle come proiezioni bidimensionali di una sedia, in ogni caso non ci si può sedere. In teoria a queste figure possono corrispondere infinite forme tridimensionali. Ma anche una sedia potrebbe essere vista come immersione in un mondo tridimensionale di un oggetto a quattro dimensioni… e così via.

In generale, quando non capiamo un’opera, è perché la vediamo immersa in uno spazio (in questo caso concettuale, non spaziale) con almeno una dimensione in meno. La capiamo se la facciamo invece emergere in qualche dimensione supplementare. Ma questo significa che se aggiungiamo qualche altra dimensione anche all’opera più banale, questa potrà apparirci d’un tratto profonda e interessante? Possiamo sospettare che troviamo acute molte opere del passato perché après coup, molto tempo dopo, le leggiamo secondo una prospettiva profonda. Un esempio tra tanti: le opere del marchese de Sade. Viste alla sua epoca come banale pornografia, prese molto sul serio nel XX° secolo.

 

J.L. Borges nel racconto “Pierre Menard, autor del Quijote” ha immaginato che un poeta simbolista francese del XIX° secolo, certo Ménard, reinventasse, ovvero riscrivesse, il Don Quixote. Il testo è eguale in tutto e per tutto a quello di Cervantes ma, essendo stato scritto oltre tre secoli dopo, ogni frase assume tutt’altro significato rispetto al romanzo precedente. Ovvero, sulla superficie bidimensionale del testo i due romanzi sono eguali, ma se li si vede da dimensioni diverse, appaiono del tutto diversi.

 

Fanno appello a qualcosa di simile certe trovate dadaiste, per esempio l’orinatoio o la ruota di bicicletta di Duchamp esposte come opere d’arte. Anche qui bisogna situare orinatoio e ruota in una n dimensione. Occorre cioè vedere dietro ogni oggetto artistico gli atti che esso ha richiesto. Oggi, come sappiamo, la dimensione “agire dell’artista”, prima del tutto occultata, è quella principale a partire dalla quale guardare al resto.

 

E si pensi a certi celebri haiku giapponesi.

 

Acquazzone:
guarda fuori sola
una donna.

 

(Takarai Kikaku)

 

Da quale dimensione occorre leggere questa breve composizione perché tocchi il cuore? Probabilmente occorre vederla da una dimensione per cui parliamo di esperienza estatica.

Questa differenza di dimensioni accade anche nelle analisi e valutazioni politiche. Un esempio personale. Quando ero giovane all’epoca della guerra fredda e mi consideravo comunista, trovavo tendenziosa e banale la propaganda anti-comunista che rigurgitava da tutti i media all’epoca (a parte ovviamente i media comunisti) e che metteva in evidenza tutti i mali delle società del socialismo reale. Non perché non riconoscessi che certi mali ci fossero – per esempio, la mancanza di libertà dei media, l’impossibilità del dissenso – ma pensavo di vederli da una prospettiva più profonda, più ricca, per cui questi mali venivano relativizzati come costi storici di un processo di liberazione più ampio. Pensavo insomma, sostenendo i socialismi reali, di essere molto più raffinato e acuto degli anti-comunisti, che si fermavano alla realtà bidimensionale delle magagne di quei regimi.

 

Poi, col tempo, ho abbandonato del tutto una prospettiva comunista, e ho dovuto ammettere che gran parte della “spregevole” propaganda anti-comunista all’epoca aveva del tutto ragione. Anzi, ho cominciato a trovare terribilmente banali le raffinatissime e dialettiche giustificazioni della Realpolitik sovietica dell’epoca, perché ormai vedevo le cose da una dimensione ulteriore che prima non vedevo affatto. Ma possiamo dire che così “ho aperto gli occhi”? Sentiamo di aprire gli occhi quando cambiamo di dimensione da cui guardare le cose. Ma chi potrà mai dirci quale dimensione sia giusta per poter vedere davvero le cose?

 

3.

 

Forse non tutti possono accedere a una certa dimensione, come forse non tutti “vedono” una bottiglia di Klein nelle quattro dimensioni in cui si dispiega quando si accartoccia, per dir così, un nastro di Möbius.

La metafora delle “quattro dimensioni” si avvicina al meglio a quel che accade quando cerchiamo di capire certe formazioni in psicoanalisi. Per esempio, alcuni sono del tutto incapaci di interpretare un sogno o degli atti sintomatici, perché non hanno accesso alla dimensione grazie a cui il testo di un sogno diventa leggibile in modo interessante. Per costoro, l’interpretazione psicoanalitica del sogno appare arbitraria, ingiustificata, stravagante. E le dimensioni possono essere tante.

 

Nel film Sogni d’oro del 1981 il protagonista è Nanni Moretti, il regista del film. A un certo punto si confronta con due cinefili. Il primo, un cameriere, gli parla dell’ultimo film di Don Siegel e lo stronca: «pieno di luoghi comuni, di banalità, di personaggi tipici». Poco dopo incontra un altro cinefilo, che ha l’aria più snob del primo, il quale pure gli parla del film di Don Siegel, ma per esaltarlo: «è tutto giocato sui luoghi comuni, sulle banalità, su personaggi tipici!» Le stesse identiche ragioni che hanno spinto il primo a rifiutarlo, sono quelle che hanno spinto il secondo a celebrarlo. Dove consiste la differenza?

 

La differenza è nel fatto che la dimensione da cui il secondo cinefilo guarda il film è diversa da quella da cui lo guarda il primo. Ma allora, possiamo dire che la lettura del secondo è più ricca di quella del primo? Il primo vede il film solo a due dimensioni, mentre il secondo sa vederlo da una terza e una quarta? Quindi, più dimensioni usiamo, più i nostri giudizi saranno favorevoli? Per esempio, guardiamo come capolavori certi esemplari di arti primitive, per esempio l’arte cicladica.

 

 

Testa di figura femminile, tipo Spedos, cultura Keros-Syros (AC II, 2700-2300 a.C., Louvre)

 

Apprezziamo queste opere perché non le guardiamo con gli occhi degli abitanti dell’Egeo oltre 4000 anni fa, ma perché abbiamo aggiunto le varie dimensioni della storia dell’arte successiva, ci abbiamo messo anche gli scultori moderni che si sono ispirati a quell’arte (Brancusi, ad esempio). Uno spessore dimensionale ci separa da quelle opere che forse dovevano apparire ai contemporanei del tutto di routine. Insomma, più uno sguardo estetico – ma anche politico filosofico o psicoanalitico – è multi-dimensionale, più si apprezzano i prodotti della creatività umana? Non sempre è così.

 

Da bambino, ad esempio, mi piacquero film e romanzi che avevo letto qualche anno prima senza apprezzarli. La stessa opera che mi appariva noiosa a sei anni, a dieci mi appariva ricca e profonda. Ma poi magari ho rivisto quell’opera da grande, e mi è apparsa del tutto kitsch. Diciamo che la maturazione porta a ridimensionare – come suol dirsi – certe opere, non solo a rivalutarle. Per esempio, ci sono film che valuto in modo del tutto diverso ogni volta che li rivedo a distanza di anni e decenni: in certe epoche della mia vita mi sembrano capolavori, in altre alquanto mediocri. Perché nel frattempo cambia la posizione della mia soggettività rispetto alle infinite dimensioni attraverso cui si può vedere o leggere qualcosa.

 

Insomma, non c’è alcuna ricetta per dire: considerate un’opera, una teoria, una pratica… secondo certe dimensioni! Nulla ci obbliga a vedere un’opera da due, da tre, da quattro… da n dimensioni. La sola differenza, forse, tra i due cinefili del film di Moretti, è che uno resterà un umile cameriere e l’altro magari diventerà un critico famoso… non perché l’ottica dell’altro sia migliore, ma semplicemente perché è l’ottica che hanno coloro che hanno potere nel cinema. Sono le dimensioni accette da critici, registi, produttori, ecc., ovvero da una élite potente. Il kitsch è lasciato alle masse perché le masse, direi per definizione, non sono potenti.

 

In un certo senso, si è competenti quando si entra a far parte di una élite potente.

Insomma, il fatto che guardiamo le stesse cose da diversi punti di vista, secondo dimensioni diverse, rende problematica la comunicazione umana. Crediamo di vedere le stesse cose, in realtà vediamo cose diverse. Da qui l’atroce dubbio che agita certi intellettuali (pochi, a dire il vero): che forse tutto ciò che rigettano o trovano banale è quel che non capiscono e non sanno vedere.

1 thought on “Banalità

  1. Ciao Sergio,
    allora mi permetto di chiederti: a quale “dimensione” allude Marcel Proust quando dice che “la bellezza è negli occhi di chi guarda”? Perché, come lucidamente dici tu, ci sono occhi e occhi…..

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