di Attilio Scuderi

 

Tra i tanti racconti inediti di Kafka custoditi e pubblicati dall’amico Max Brod, se ne trova uno a cui il curatore ha attribuito il titolo di Forschungen eines Hundes (Indagini di un cane). Si tratta di un lungo e straniante memoir funzionale in cui un cane narra l’universo dei suoi conspecifici, irriducibile alla sfera del potere umano e animato dal ritmo magico e pre-logico di una pietà indiscriminata: “Tutte le nostre leggi e istituzioni, le poche che ancora ricordo e le innumerevoli che ho dimenticate, risalgono al desiderio della massima felicità che possiamo avere, al tepore della convivenza.” Se il mondo umano è ostilità, estraneità, quello animale è musicale armonia, danza del coesistere. Così, uno dei massimi lettori e ammiratori di Kafka, Elias Canetti – dentro una difesa militante di tutto ciò che è vivente – dedicherà proprio a quella sfera animale alcuni dei suoi pensieri più intensi. Troviamo, prelevando quasi a caso tra le sue centinaia di aforismi: “Idea sconcertante: che l’immortalità possa riuscire per la prima volta a un animale domestico, un cane per esempio: il cane immortale”; ancora: “I cani hanno una sorta di invadente disponibilità dell’anima che allevia le persone che cominciano a risecchirsi.”; e infine (pensiero che sembra davvero ispirato ai cani di Kafka): “Laggiù i cani si amano diversamente, correndo.”

 

Queste variazioni sul tema sono ispirate da un recente saggio del filosofo Andrea Tagliapietra, dal titolo I cani del tempo. Filosofie e icone della pazienza (Donzelli, 2022). Pensatore eclettico e versatile, mai scontato e acutissimo, Tagliapietra lavora con proiezione internazionale da alcuni decenni nello spazio fascinoso e complesso della storia delle idee, tracciando passo dopo passo, oltre i perimetri asfittici dell’accademismo umanistico, una preziosa genealogia degli etimi fondamentali dell’umano: dalle metamorfosi della bugia alla sfera disarmante della sincerità; dalla nozione di esperienza a quella di pudore; dal “dono del pensiero filosofico” alle sfere del giusto e della giustizia; dall’immaginario mediatico dei cartoni animati alle icone della catastrofe e dell’apocalisse. Per chi lo legge e segue con attenzione il recente saggio donzelliano ha il carattere di un punto di arrivo e sintesi di rara intensità. Dedicato alla virtù carsica e solo apparentemente minore della pazienza, il saggio indaga l’andreìa greca, il patire della nuda vita e della patente corporeità vivente; e lo fa a partire da un metodo originalmente rivisitato che mescola ricerca iconografica – à la Warburg – e indagine tematico-genealogica. Il libro è costruito infatti – quasi fosse la galleria di “eikònes” del retore greco tardo-antico Lucio Flavio Filostrato – come un viaggio dentro la narrazione ecfrastica di un ricco e raffinato percorso di immagini; ed è anche per questo da accostare, data la non frequente sapienza stilistica, a testi che dalla letteratura con metodo simile arrivano al pensiero: si pensi ai metaromanzi sulla pittura Jusep Torres Campalans (1958) di Max Aub e Cabinet d’amateur (1979) di Georges Perec, per non dire di uno dei poemi meditativi, di viaggio e per immagini, più belli dell’ultima letteratura europea, su cui è intessuta una trama sottile di rimandi per l’intero saggio, ovvero il Canto alla durata (Gedicht and die Dauer) di Peter Handke: “La durata ha a che fare con gli anni,/ con i decenni, con il tempo della nostra vita:/ ecco, la durata è la sensazione di vivere”.

 

 L’intento dichiarato – e riuscito – dell’autore è infatti quello di andare in cerca di “ideografie” della durata, espressioni visive del pensare, immagini “che ci guardano” fondendo riflessione filosofica, storia delle idee e indagine iconografica. I “cani del tempo” diventano così “icone del pensiero”, strumenti attraverso cui l’uomo ha cercato di comprendersi tramite quella “connivenza vitale” con l’animale quale apertura e “soluzione” del suo tormentato dilemma di specie. I cani di Tagliapietra – da quelli insuperabili di Jacopo da Bassano a quelli carichi di memoria di Dürer, dai cani scritturali di Lazzaro a quelli di Tobia, dai perros di Goya alle figure canine dell’attesa di Franz Marc – ci conducono dentro un itinerario sinestetico e transculturale di certosina precisione. Alcuni capitoli giungono a un’icasticità degna del prelievo antologico e del classico saggistico; due esempi tra tutti: le pagine dedicate al mutare del senso moderno del tempo (“le banche del tempo” dell’età dei mercanti e dell’invenzione del Purgatorio) e quelle spese a ripercorrere le ideografie del dolore delle “narrazioni pittoriche” del Goya. Ma l’elenco potrebbe continuare. Breviario multiforme ed enciclopedia per immagini e pensieri della cultura occidentale (da Platone a Derrida), il testo di Tagliapietra diventa così esperienza digressiva della necessità della pazienza (del sentire, del conoscere, del convivere) nell’età dell’impazienza; e insieme viatico a una filosofia quale saggezza dell’abbandono dell’antropocene e riscoperta dell’umano in quanto animale.

 

Tra le immagini del pensiero recuperate da Tagliapietra spicca in particolare il moto oscillatorio di un confronto costante “tra Atene e Gerusalemme”, per dirla con il titolo di un bel saggio di Sergej S. Averincev, ovvero tra i due principi creativi della cultura euro-mediterranea, quello adamitico e quello prometeico. Il nesso tra pazienza e attesa messianica diventa così la chiave per rivalutare una radice, quella giudaica, che ha da trasmetterci alcune lezioni di insostituibile profondità. È il caso del più grande dei profeti, Mosè, destinato a morire senza riuscire a mettere piede nella Terra Promessa a causa – così vogliono i commenti talmudici delle Leggende degli ebrei – di un unico, imperdonabile peccato d’impazienza: quando alle prese con la sete del suo popolo nel deserto, egli percuote la roccia presso Meriba (Numeri 20, 11-12) senza recitare la formula rituale in nome di Jahvè: “La rabbia – commenta Tagliapietra – induce Mosè all’impazienza, ossia alla violazione di quella minuziosa osservanza delle prescrizioni della Torah (…), che scandiscono la quotidianità della vita ebraica, agendo come portentosi operatori di pazienza. Essi – continua il filosofo – non sono soltanto validi in sé, ovvero principalmente per ciò che alla lettera prescrivono di fare, ma per ciò che piuttosto, con il loro esercizio, impediscono di fare, cioè di lasciarsi andare all’azione spontanea o di abbandonarsi all’impazienza.” È tale disciplina della pazienza, ricorda giustamente Tagliapietra, a risuonare ancora, fino al Novecento, in alcuni tra i più fulminanti degli aforismi del Kafka di Zürau: “Negli uomini ci sono due peccati capitali, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e negligenza. Per l’impazienza sono stati cacciati dal Paradiso, per la negligenza non vi tornano. Ma forse c’è un solo peccato capitale: l’impazienza. Per l’impazienza sono stati cacciati, per l’impazienza non ritornano”.

 

 La pazienza insegnata e disegnata dalle figure canine della nostra tradizione culturale, spiega Tagliapietra, è così quella “cura del mondo”, quel “catechismo della pietà” che restituisce al tempo, nel dono, la sua agognata pienezza; e consente a chi ancora crede nel ruolo letterario del saggio, in questo tempo di gesti senza durata né peso, di farsi forti della durata paziente di una lettura che si lascia ammirare.

Una disciplina che consiglia infine, come viatico a un tempo diverso, non la ricerca spasmodica della libertà social-mediatica di un vuoto “essere sé stessi” (formula apparentemente liberatoria che prescrive piuttosto l’omologazione più radicale e universalmente praticata), ma la ricerca di uno scarto, di quella “scossa della Durata” (Ruck der Dauer), per dirla con Handke, che trasformi, nell’attesa canina, la nostra esperienza di vita. Una scossa che, con l’autore, accompagniamo ad un altro lento e avvolgente aforisma kafkiano, che ci pare riassuma il senso di un lavoro intellettuale e di un testo che la pazienza-Geduld rendono felicemente interminabili: “Non è necessario che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta e basta. Non aspettare neppure, sta’ in completo silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non può farne a meno, in estasi ti si torcerà dinnanzi”.

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