di Ilaria De Seta
[Questo testo è stato presentato a Riccione sabato 5 novembre in occasione di Riccione TTV Festival #TTV26 | Convegno IL TEATRO CHE RACCONTA. Dedica a Vitaliano Trevisan].
Sono molto felice di essere presente a questa manifestazione in onore e in memoria di Vitaliano Trevisan; ringrazio Graziano Graziani che mi ha invitata e Andrea Cortellessa che ha fatto il mio nome con lui. Sono qui in duplice veste, come studiosa di letteratura italiana contemporanea, che si cimenta con i testi di Trevisan (a parte la recensione Un lascito inatteso: Trevisan critico letterario. Su Billy Budd, Billy Budd. An inside reading – La letteratura e noi e il resoconto di una presentazione di Works Vitaliano Trevisan a Bruxelles – La letteratura e noi) e per un progetto che mi sta molto a cuore, che sta iniziando a realizzarsi, un documentario su Vitaliano, per la regia di Marco Turco. Avete visto un assaggio della prima intervista a Michela Cescon e ne stiamo facendo altre proprio qui, grazie al TTV di Riccione, che ringrazio anche a nome di Marco Turco.
Ma passiamo alla mia veste di studiosa, ci tengo a usare il femminile anche perché sono stata invitata come quota rosa, cosa che mi ha fatto sorridere e poi riflettere. Trevisan è uno scrittore crudo, o meglio la scrittura di Trevisan è una scrittura cruda. Le due cose, non è scontato, vanno insieme, cioè da un punto di vista diciamo così “antropologico” ha avuto uno stile di vita, un comportamento, un habitus, austero ma anche appunto, crudo, e questo verrà fuori nel documentario. Michela Cescon nell’intervista ha ricordato che Vitaliano mangiava pochissimo, sempre le stesse cose, banane e latte in gran quantità, vestiva una divisa, che sembrava militare, pantaloni multitasche e felpe, mai lana, solo cotone e portava con sé – sempre – un coltellino, per il cibo, ma, ha detto Cescon, probabilmente anche per difesa; aggiungo io un tratto psicologico molto spiccato e indice della sua fragilità emotiva. Ma era cruda appunto anche la sua scrittura, nei contenuti innanzitutto, e credo che sia il motivo per cui, attirandomi tutte le critiche possibili dei gender correct, si sono occupati di lui prevalentemente studiosi (uomini) ed ecco perché la ricerca di una studiosa da parte degli organizzatori è comprensibile e condivisibile. A tratti dalle dichiarazioni che faceva sui social (Vitaliano era parecchio attivo su Facebook) ho avuto l’impressione che fosse misogino, ma allo stesso tempo aveva un modo di rapportarsi con l’universo femminile, almeno nel mio caso, e da quello che ho capito anche ad esempio con Michela Cescon, fraterno, gentile, profondo e rispettoso. Inoltre era critico nei confronti di chi gli sembrava fosse appunto misogino (nel Barilozzo di Amontillado parte della raccolta Grotteschi e arabeschi, Einaudi, Torino, 2009). Crudo invece è il modo in cui scrive del sesso e delle donne in relazioni a sfondo sessuale. Come testimonia il finale del breve racconto Niente specchi in questa casa, nella stessa raccolta, p. 28, in cui eros e thanatos sono presenti all’ennesima potenza, e come si evince dal tema trattato nel postumo Black Tulips, Torino Einaudi, 2022:
Non ho una visione romantica della scopata. Il romanzo, se c’è, è altrove. Ma naturalmente, prima di uscire definitivamente dal genere, sono rimasto invischiato, come tutti, in più d’uno di questi romanzi che comunque, adolescenza a parte, non mi è mai passato per la testa di rendere sulla carta. Letterariamente parlando, mi sono limitato a usare in modo strumentale, alcuni frammenti”, BT, p. 12.
E qui l’uomo e la sua scrittura iniziano a divaricarsi.
Dunque io sono molto lieta di rappresentare qui una “quota rosa” che ha incontrato Trevisan, ne ha apprezzato la sensibilità artistica e umana, e che è chiamata a parlare della sua scrittura. Più che sui contenuti, crudi o meno, cioè il rapporto con il sesso, la droga, o ad esempio il lavoro, cosa che l’organizzatore di questo evento mi aveva suggerito, vorrei soffermarmi con questo work in progress sulla scrittura in sé, la lingua, lo stile, il ragionamento nei testi narrativi.
Ma veniamo al punto di partenza: avevo notato, leggendo Works, che Trevisan usa una “narrazione descrittiva” e negli scambi email che erano seguiti a un brevissimo incontro a Bruxelles in occasione di una sua presentazione dello stesso libro, glielo avevo detto, si era incuriosito e mi aveva risposto che il suo intento era di “Descrivere evitando di essere didascalico, e raccontare evitando di essere narrativo”. Alla sua richiesta di chiarimenti, risposi: “La descrizione di solito riguarda la dimensione spaziale: oggetti, opere d’arte o paesaggi. Interrompe il racconto, la trama, costituisce una pausa. Tu descrivi le azioni che hanno anche una dimensione temporale e in questo senso dico narrativo. (Descrivi il lavoro tecnico/artigianale, in modo metodico. È un susseguirsi di (descrizioni) di situazioni lavorative in diacronia, che ne fa una biografia a tema. Dunque fai qualcosa di particolare)”.
Quando Graziano mi ha proposto di partecipare al convegno, ci ho ripensato per capire meglio anche io e mi sono poi accorta di un procedimento ricorrente peculiare e direi unico, un tratto distintivo della sua scrittura: partire da un’osservazione, fare un’ipotesi scartandola per poi scartarne anche il suo contrario, con congiunzioni come “né” e “né”. La reiterazione di questa formula e la sua comparsa in diversi dei suoi testi narrativi mi conferma l’intuizione che si tratti non solo chiaramente del suo modo di ragionare ma anche forse di un tratto psicologico, nel quale oggi non affonderò, limitandomi ad illustrarvi alcuni esempi. Data una tesi, che nel suo caso è un’osservazione più o meno empirica, le spiegazioni che si dà sono una alla volta escluse. Dal punto di vista linguistico, o meglio della sintassi, questo crea una principale “forte” e delle subordinate parallele, cioè simmetriche e contrarie di ugual valore, “deboli”. Dal punto di vista del ritmo, tanto si è detto della voce di Trevisan, della sua cadenza vicentina, di quella che a me era sembrata una nenia a voce bassa. Ed è evidente che frasi così costruite, lette ad alta voce hanno un ritmo e quando ripetute il ritmo diventa incalzante.
Dunque simmetria e poi negazione. Trevisan era preciso, descriveva tutto nei minimi particolari, gli piacevano i dettagli, le minuzie, amava in qualche modo l’ordine ma anche lo negava. E infatti, torno alle sue parole, voleva evitare di essere didascalico. Inoltre se istintivamente saremmo portati a identificarlo più con il caos che con l’ordine, a ben pensarci questo è vero fino a un certo punto. Direi che il suo è piuttosto un caos ossessivamente ordinato.
Proviamo a capirci qualcosa di più. Questo (secondo) procedimento l’ho notato leggendo Il ponte. Un crollo, Torino Einaudi, 2007 e 2022 e l’ho ritrovato in Black Tulips e poi verificato in Grotteschi e Arabeschi (insomma un’indagine non esaustiva ma campione). Questi tre testi narrativi costituiscono pertanto oggi il mio corpus dal quale prelevo qua e là citazioni più o meno pertinenti, per evidenziare quello che mi sembra un tratto ricorrente.
Partiamo da Il ponte. Trevisan scrive sempre in prima persona, creando con il lettore un patto di realtà che rende mobili e indefiniti i confini tra scrittura autobiografica e di finzione: cioè sono storie vere, a cui il lettore è portato a credere, ma sono anche inventate e il lettore non sa dove finiscano l’una e l’altra, la realtà e l’invenzione. Ricevuta la notizia della morte del cugino Pinocchio, l’io narrante esamina la scelta: “Resta solo una questione da risolvere, pensai, bevendo il caffè, raccontare in prima persona, o raccontare, sempre in prima persona, una seconda persona?”, (IP p. 7). In effetti prosegue poi raccontando di sé e del cugino, la prima persona che racconta una seconda persona a lui molto prossima.
Pinocchio, prima ancora di essere mio cugino, era il mio migliore amico, pensai leggendo l’annuncio sulla pagina dei morti. No, neanche questo si può dire così, pensando di essere compresi; e non si può nemmeno lasciar correre, sapendo benissimo che nessuno ci comprenderà comunque. Non sono il tipo. Compreso o non compreso, la cosa non mi riguarda. Mio cugino Roberto era qualcosa in più, era l’amico, la persona a cui più tenevo al mondo, che non avrei mai tradito, a cui sarei stato fedele nella buona e nella cattiva sorte, l’incarnazione dell’amicizia […]. IP, p. 6.
“No, neanche”, “nemmeno” (negative a catena); “Essere compresi” (affermativa); “nessuno ci comprenderà” (negativa). “Compreso o non compreso” (disgiuntiva).
Poco dopo, “Il cervello lavora in modo strano. Vedere senza vedere, leggere senza leggere. Niente di più normale” (l’evento descritto dall’affermazione, che contiene una cosa e il suo contrario, è detto normale).
Si prepara, vestendosi come per una battaglia, come ci ha detto Michela Cescon: “calzai i jungle boot e, visto che pioveva, indossai la Belstaff nera, badando a chiudere bene cerniere, bottoni e cinturini vari”, (IP, p.6).
controllai di avere con me le chiavi di casa, il portafoglio, il tabacco, le cartine, un accendino e il taccuino che porto sempre con me. Se non lo avessi sarei perduto. E se avessi solo il taccuino e non avessi la penna, pensai controllando di avere con me la penna, anche allora sarei perduto. Molto meglio avere la penna e non il taccuino, pensai rimettendo la bic blu nella tasca sinistra della giacca, insieme al taccuino, mentre al tempo stesso, con la mano destra, frugavo nella tasca destra dei pantaloni per verificare di avere effettivamente con me l’accendino. Avevo già controllato, è vero, e più di una volta, ma è buona regola non fidarsi mai, soprattutto di se stessi. La penna e l’accendino sono fondamentali, più ancora del taccuino e del tabacco. Voglio dire: meglio avere l’accendino e non avere le cicche, male che vada ci si può sempre dare fuoco. Male che vada, pensai, se si ha una penna ci si può sempre scrivere sulla pelle”, IP, p.6.
Periodi ipotetici del secondo tipo: con protasi prima negativa “se non lo avessi”, poi affermativa “e se avessi” che si concludono entrambi con la stessa apodosi: “sarei perduto”. C’è un ritmo incalzante che mima, come un’onomatopea del gesto, la preparazione; una descrizione minuziosa e analitica (ma non didascalica) di un’azione, quindi una descrizione narrativa. Segue un elenco di oggetti di piccola taglia da portare con sé, degli accessori: chiavi, portafoglio, tabacco, cartine, taccuino, penna (bic), accendino, cicche. Quelli su cui si sofferma sono in apparenza i meno essenziali e li ordina per coppie:
1) taccuino e penna
2) accendino e cicche
Stabilisce per esclusione quale dei due è più necessario e poi anche tra le due coppie quale delle due sempre per esclusione è prioritaria, e allora:
a) 1) Penna (scriversi sulla pelle – estremo) 2) taccuino
b) 1) Accendino (darsi fuoco – assurdo) 2) sigaretta
Conclude questo ragionamento con ipotesi di conseguenze che sono irreali (scriversi sulla pelle e darsi fuoco) ma che sconfinano nella realtà nella scrittura Trevisan (non ci sembra così strano che un io di Trevisan possa considerare di scriversi sulla pelle o perfino di darsi fuoco). Il rituale di chiusura della casa prima della partenza – fine di un brano descrittivo che precede una narrazione -, include cose da “chiudere”: luci, finestre, riscaldamento, televisione, stereo e, in opposizione, accendere la segreteria telefonica.
Vediamo ora un nuovo brano che riguarda l’applicazione e infrazione di leggi in Italia:
Dipende dalla stagione, avevo detto, dipende dal luogo, dalla situazione politica e in definitiva dipende da una tale varietà di fattori politici, economici, culturali e ambientali che si può ben dire come ho detto che in Italia le leggi e i regolamenti, esistono e non esistono. Non si può dire che esistano, avevo detto, non si può nemmeno far conto che non esistano (…). Questa questione dell’Italia che esiste e non esiste, così come esiste e non esiste l’italiano, inteso sia come lingua che come popolo, IP, p. 13.
Come prima “vedere senza vedere”, abbiamo ora la sostituzione di una disgiunzione (o) con una congiunzione (e) : esistere e non esistere, in tre varianti, un’eco dello shakespeariano essere o non essere? 1) “esistono e non esistono” (affermazione e negazione della stessa all’indicativo); 2) “non si può dire che esistano, non si può nemmeno far conto che non esistano” (negazione e negazione dell’affermazione, afferma una cosa, la nega e nega il suo contrario al congiuntivo); infine, 3) “questa questione dell’Italia che esiste e non esiste, così come esiste e non esiste l’italiano” di nuovo all’indicativo e con parallelismo: afferma e nega l’esistenza del proprio paese e della propria lingua, un annullamento che si estende a tutto quanto lo riguarda e oltre a partire da quello che sembra essere un gioco linguistico.
Vediamo un altro esempio, quando parla del rapporto con i motori dei due cugini. Pinocchio aveva un rapporto totalizzante con i motori, Thomas lo aveva solo con le motociclette. L’alter ego cerca la velocità, la voce narrante, l’equilibrio.
È la questione dell’equilibrio ad affascinarmi, e il fatto che detto equilibrio non sia mai stabile, ma sempre strettamente dipendente da una serie di variabili che, data la natura del mezzo, sono sempre variabili in movimento, mai del tutto controllabili, a cui comunque bisogna adattarsi, se si vuole mantenere l’equilibrio, e dunque continuare a muoversi. A volte ho l’impressione che si muova così anche il mio pensiero e che, anche in questo caso, movimento ed equilibrio siano una cosa sola, IP, p. 17
Equilibrio instabile, variabili in movimento: lo affascina l’equilibrio fatto dal movimento, quindi dinamico, un concetto che ha in sé una cosa e il suo contrario. Poche pagine prima, aveva parlato del contrasto tra movimento e stabilità a proposito di condizioni metereologiche, del cielo tedesco variabile, sempre in movimento, a differenza del nord est italiano, sempre fermo. È un periodo di 14 righi in cui spiega l’amicizia con un tedesco (quindi un altro amico) che gli ha venduto casa e a cui ha fatto lezione di italiano (e che prosegue appunto con le condizioni atmosferiche e il suo equilibrio psico-fisico):
nel corso delle quali, in fondo, non ho fatto e non faccio altro che approfittare di lui, raccontandogli, in italiano, tutto ciò che c’è da raccontare, su di me e sulla mia malattia, senza risparmiargli mai nulla, le cose gradevoli, ma soprattutto quelle più sgradevoli, a seconda delle condizioni atmosferiche, che, in questa regione, possono mutare radicalmente da un momento all’altro più volte in un giorno, e con esse il mio umore. Se così non fosse, non avrei scelto questo posto. Prima di tutto viene la luce, leggera, precisa, che definisce bene tutto, così diversa da quella luce morbida e vagamente orientale, tipica della mia parte d’Italia, e in special modo della mia città, che non è mai stata mia. E poi l’aria, mai ferma, sempre pulita. Straordinari accumuli di nubi. L’altro giorno, sembrava che il cielo stesso fosse corrugato, come compresso, sul punto di cedere. A volte, giornate intollerabilmente lunghe, questo è vero, ma solo per un breve periodo. Condizioni atmosferiche altamente variabili, soprattutto questo è bene per me. Non potrei più reggere quei giorni sempre uguali, quell’aria ferma, stagnante, lercia di polvere che penetra dappertutto, fin dentro la testa, mentre i colori si sciolgono nell’aria e tutto perde di definizione. Meglio che tutto cambi di continuo. In questo modo, seguendo il variare del tempo atmosferico, varia anche il tono emozionale, e i miei pensieri non corrono il rischio di attorcigliarsi su se stessi. E fuori, tutti i giorni, senza fidarsi mai di un chiaro e fresco mattino [sinestesia ma anche nella coppia di aggettivi potrebbe perfino affiorare un riecheggiamento petrarchesco”.], senza nubi all’orizzonte. Uno si distrae, cammina leggero, e quando si volta è già troppo tardi: il cielo si è improvvisamente abbassato e si fa sempre più nero. [finita la descrizione, inizia la narrazione] Non così quella mattina, che se n’era andata così com’era cominciata: cielo terso, luce leggera…, IP, p. 14
Le condizioni atmosferiche sono descritte (come) con brevi pennellate. Il variare del tempo, il movimento del cielo è apprezzato, proprio come il movimento della motocicletta. La descrizione ha poi una chiusa magistrale da narrativa realista ottocentesca come direbbe Philippe Hamon, “Non così quella mattina”, un dimostrativo e poi l’immancabile marca Trevisan, una negazione che segue un’affermazione, in senso temporale e logico. Il “Non Così” segna un capovolgimento di una sorta di ordine costituito prevedibile. L’andamento del ragionare, del periodare di Trevisan sembra mimare una camminata con svolte a destra e manca, retromarce, soste improvvise.
Il suo ragionamento procede così, per disgiunzioni e rilanci successivi, sembra che non riesca a fare a meno di mettere a punto negando quello che ha appena detto, come se questo non fosse mai abbastanza giusto o abbastanza centrato.
Passiamo al già menzionato racconto breve, Il barilozzo di Amontillado, che è un’invettiva, ma di cui a noi in questa sede interessa lo stilema Trevisan. In questo caso, il movimento di affermazione e negazione investe la sua persona, i ruoli che si trova a incarnare e la disgiunzione tra personaggio, attore, scenografo:
Così, posso dire di aver interpretato al mio meglio il ruolo di geometra, di gelataio, di portiere d’albergo e ora, di tanto in tanto, e con lo stesso atteggiamento, anche il ruolo d’attore. Gran bel lavoro, molto istruttivo per me. Il fatto che, per interpretare un personaggio, io mi ritrovi prima di tutto a interpretare l’attore che lo interpreta, mi costringe a un doppio movimento estremamente interessante. Si tratta di liberarsi di se stessi, poi di essere se stessi, e di nuovo liberarsi di se stessi per poi di nuovo, davanti alla macchina da presa, o sulle tavole di un palcoscenico, essere se stessi. Chiaro come il cristallo. E non bisogna lasciarsi ingannare: malgrado le parole lo suggeriscano non si tratta affatto di una ripetizione: il soggetto di cui ci liberiamo la prima volta, pur conservando una certa somiglianza di famiglia, non è lo stesso di cui ci liberiamo la seconda volta. L’attore prepara la presenza attraverso l’assenza. La mia duplice assenza si traduceva dunque in un’altrettanto duplice presenza?, o ne rafforzava semplicemente l’apparenza? Quel che è certo è che ogni volta, set o palcoscenico che sia, mi ritrovo due volte assente. Forse per questo, come aveva detto X, a mano a mano che me ne rendevo conto, ero andato via via crescendo come attore, non certo perché mi fossi identificato in quell’essere…, BA, p. 63.
Molto spesso ci trovavamo a “sceneggiare” direttamente sul set, cosa che mi impediva di adempiere al mio primo dovere in quanto attore, una delle prime cose, se non la prima che avevo imparato, ovvero stare lontano dal set fino al momento dell’azione, e mi costringeva inoltre a entrare e uscire da me stesso in continuazione, e in tempi sempre brevissimi. E lo stesso non avevo mai minimamente confuso i ruoli […] Se lui, io, riesce così credibile come attore, è come se avesse detto, non è perché è un bravo attore, al contrario: è credibile proprio perché non interpreta, non ne ha bisogno: è lui”, BA, pp. 66-67.
In questi brani la disgiunzione non è al livello linguistico; è un’osservazione di carattere comportamentale e psicologico, una sorta di autoanalisi, in cui gli psicoanalisti troverebbero terreno fertile.
Passiamo infine a Black Tulips (dove torna il concetto di equilibrio) e la disgiunzione (un topos) tra vita e scrittura e il farne un’arte. Sull’arte, diversa dalla scienza, torneremo più avanti.
Per difendermi, da me stesso e dal mondo [il bisogno di difendersi, tratto psicologico accennato sopra] una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte -, arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque, BT, p. 5
“Sempre” capovolto da “non sempre”, che a sua volta sembra attenuato da “comunque”. Il periodo si conclude con una negazione colloquiale dalla punteggiatura molto peculiare: “No, (virgola) non sempre; (punto e virgola) comunque. (Punto)”.
Alla pagina seguente, dopo tre righe di incipit, (la narrazione, come ne Il ponte inizia con un viaggio, lì una partenza dal proprio luogo di residenza, qui direttamente l’arrivo in un luogo estraneo, lontano, impersonale e pericoloso) un periodo lungo tutta la pagina e oltre che descrive/narra l’arrivo in aeroporto (questo romanzo ha periodi lunghissimi che sono soliloqui della voce narrante):
Mentre aspetto i bagagli, no: il bagaglio: uno zaino da montagna con dentro quel che avevo reputato lo stretto necessario, senza peraltro avere davvero idea di cosa potesse essere effettivamente necessario, cosa che, in astratto, si potrebbe dire sempre, se non fosse che, dove mi trovavo, nulla era astratto, altra cosa subito avvertita, e qui ora ragionata, BT, p.6
Anche in questo caso affermazioni, poi negate: “bagagli”/“bagaglio”; “stretto necessario”/ “senza peraltro avere davvero idea di cosa potesse essere effettivamente necessario”; “astratto”/ “nulla era astratto”. L’inizio del periodo, la descrizione dell’azione, una temporale, “Mentre aspetto i bagagli” è subito corretta da un “no” due punti il bagaglio. Questo romanzo sembra infatti, lo dico per inciso, parlato e non scritto, ha cioè un registro fortemente colloquiale, curatissimo, come sempre nella lingua di Trevisan nel suo insieme dal lessico alla sintassi alla punteggiatura. La scrittura sembra seguire e “contenere” alcune caratteristiche che avvicinano a una riflessione anche in termini di cambiamento di progetto: il cambiamento di progetto (l’incertezza nella costruzione) è infatti tipico del discorso parlato che può essere segnato da improvvisi ripensamenti o ritorni indietro.
Talvolta il procedimento è capovolto, una variazione, cioè prima le disgiuntive, secondarie e poi l’affermativa reggente:
In ogni caso, scopare o non scopare, per la legge, e, a giudicare dagli sguardi dei vicini quando mi vedevano accompagnato da una delle mie morose, anche per il cosiddetto senso comune, e molto probabilmente, anche per qualcuno che sta leggendo, ero, anzi sono senz’altro un lenone…” BT, p. 16.
Qui “scopare o non scopare” sembra una costruzione ellittica in cui manca qualcosa, poiché sembra di poter intendere “che si tratti di scopare o di non scopare (cioè che si scopi o che non si scopi, in ogni caso) sono comunque visto come un lenone…”. Oppure, ancora un esempio da Black Tulips, parlare/ascoltare, complementari e disgiunti (talvolta da VEL e non da AUT), affermato il valore, poi negato; poi osservazione “ovvietà”, anch’essa negata: “Comunque, con loro molto si parlava, o meglio, per la maggior parte del tempo, loro parlavano e io ascoltavo. Sempre stato bravo ad ascoltare, a patto che ci sia effettivamente qualcosa da ascoltare, il che è un’ovvietà; ma che sia ovvio non aiuta affatto, se uno vuole praticare”, BT p. 17.
Un ultimo esempio su scienza e arte (di nuovo) a partire dalla prospettiva; più che un discorso linguistico è una disquisizione filosofica:
Strano, perché so benissimo come mettere qualcosa in prospettiva, anzi direi che, essendo stato un disegnatore tecnico professionista, ero un vero esperto di come si esegue una prospettiva; secondo il sistema dei raggi ottici, per esempio, oppure quello dei punti misuratori; e, a seconda dei casi, sapevo quando era meglio l’uno e quando l’altro; e tutte le specificità e problematiche legate alla prospettiva, tra le più complesse nell’ambito della scienza del disegno tecnico, scienza che, detto per inciso, ho sempre sentito più come arte che come scienza, cosa che vale per molte altre scienze, e viceversa; ma insomma, in questa scienza che per me era un’arte, e ora comunque, dall’arrivo di autocad, non è più che semplice applicazione, io ero un esperto, e della prospettiva sapevo tutto, BT, pp. 22-23.
Sente la scienza come un’arte, quella del disegno in particolare, ma non solo (parte per il tutto, metonimia, “e viceversa”). C’è sempre una disgiunzione, il pesare il valore delle due parti, e in questo caso (senza averle negate) renderle infine reversibili. C’è anche l’espressione esplicita “e viceversa”. Anche arte / applicazione è una forma di riformulazione.
Il doppio, e il tre, la scissione e poi la ricomposizione, in filosofia: tesi, antitesi, sintesi. Trevisan resta all’antitesi. Ne parla, come abbiamo visto, anche a proposito del proprio ruolo di attore, che in sé comporta una scissione e di quello di attore e sceneggiatore che comporta una duplice scissione. (È in fondo lo stesso procedimento della sintassi che mima il ragionamento: disgiuntive, possibilmente negative, con esclusioni a catena).
Partendo dall’osservazione della “descrizione narrativa” ho tentato di illustrare il procedimento sintattico di antitesi disgiuntiva con duplice negazione, accompagnata da anafora e altre figure retoriche che concorrono a sottolineare un ragionamento intricato ma ordinato sempre allo stesso modo, che corrisponde sia alla ricerca dell’equilibrio, come nella velocità della motocicletta di Pinocchio, in Il Ponte, sia alla descrizione dell’entrare e uscire dal ruolo di attore in Grotteschi e arabeschi. Procedimenti sintattici che mimano il ragionamento e lasciano intuire la psicologia. Una scrittura che sembra volta per volta cercare la soluzione adeguata attraverso soluzioni diverse (o divergenti), in una forma di progressiva approssimazione alla soluzione finale che coincide spesso con una negazione. L’individuazione di questi caratteri linguistici della costruzione del testo permette di riconoscere le elucubrazioni della scrittura che sono anche il segno di una costante situazione di tormento interiore. È un tratto specifico della scrittura di Trevisan, che mette in evidenza la sua “firma” riconoscibile (pensiamo al saggio di Contini, La firma di Manzoni, a proposito di alcuni stilemi con aggettivi/participi). Questa caratteristica di negazione/capovolgimento dà idea di una scrittura tormentata fatta anche di riflessione metalinguistica: contraddirsi, correggersi e infine negarsi. C’è una verità sicura, certa, che Trevisan si ostina a raggiungere (anche se non riesce ad afferrarla). L’esito della mancata conquista è la disperazione.
Concludo con un ultimo brano da Black Tulips, filosofico e lirico, che fa da autoritratto, evidenziando un proprio tratto caratteriale, comportamentale, psicologico, anche in questo caso una forma di negazione:
Cammino, come gli antichi, con lo sguardo rivolto al passato. Questo da sempre, anche se, del tutto scientemente non è poi molto. Ma è un fatto che il futuro non ho mai saputo vederlo né ritrovarlo. Non sono mai riuscito a vedere me stesso nel futuro, per esempio (…) non sono mai stato in grado di pensare in prospettiva, come si dice, né verso il futuro né verso il passato [ecco la formula con doppia negazione “né, né], e meno ancora sono stato (e sono) in grado di pensare me stesso in prospettiva (…). In definitiva, che io guardi in avanti o indietro, sono stato, resto, sarò e sarò stato un uomo privo di qualsivoglia prospettiva, BT, pp. 22-23.
PS
Ringrazio Nicola De Blasi, Marcello Barbato e Arnaldo Soldani per le loro attente letture.