di Mauro Garofalo

 

[E’ uscito da poco per Aboca Edizioni L’ultima foresta, un romanzo di Mauro Garofalo. Ne proponiamo un estratto].

 

Non aveva mai piovuto quell’estate. Le giornate erano trascorse tutte così. Uguali e sotto un sole accecante. Il caldo umido gli si era attaccato addosso. Fradicio, a torso nudo, aveva lavorato boccheggiando. L’alveo dei fiumi era in secca ovunque. Nelle campagne il raccolto era andato perso. Due settimane prima avevano dovuto debellare l’invasione delle cavallette. Erano partiti a bordo dei pick-up con le pistole aspiranti e nel cassone litri d’insetticida da spruzzare sui seminativi. La muffa fungina sulla corteccia degli ulivi, invece, si era estesa alle drupe. La produzione era stata un pianto. I costi alle stelle. Al posto dell’olio, verde, oro, un incasso di pietra e sansa. Fino a che ai primi giorni d’autunno l’acqua sciolta dai ghiacciai si era riversata a valle. I blocchi fusi dal calore avevano inondato il terreno dei vicini che, rimasti senza più niente, avevano deciso di andarsene. Con loro erano partite altre famiglie: Meglio vivi, avevano detto, Meglio vivi che sepolti.

 

Le ruote dei carri si erano messe in marcia. Arren, insieme ad altri, era rimasto. Dopo lo scavo avevano spinto a fondo i pali di larice e le barre di metallo, rinforzi sui muretti e le palizzate. La terra col tempo si sarebbe rigenerata. La casa dei vicini, ridotta a poco più di un rudere dopo le prime violente tempeste, sarebbe servita da rimessa per le balle di fieno. Dentro le locande gli uomini avevano bestemmiato quel dio che riservava loro solo povertà profana. Cuori marci inariditi dal maltempo. Nessun divertimento. E solo polvere. Polvere di silicio e rena. Giallo che ti s’incollava in gola prima ancora dello sputo.

Una notte si era svegliato in un bagno di sudore. Che succede?, gli aveva chiesto sua moglie. Niente, aveva risposto lui: Dormi, ed era andato in cucina, i piedi scalzi. Aveva aperto il rubinetto e fatto scorrere l’acqua. La testa gli girava. Si era sfiorato la fronte fredda imperlata dagli incubi. Zanne. E l’irrazionale sensazione che qualcosa di terribile stava per arrivare. Non era la prima volta.

 

Aveva avvertito la stessa sensazione durante il tramonto di qualche giorno prima.

Le ondate di calore che si ripetevano, ravvicinate di anno in anno.

Aveva montato i pannelli sul tetto quando erano rimasti senza luce elettrica ma poi aveva dovuto vendere il trattore.

I bambini non bevevano latte da quando era esplosa la fabbrica a nord e le mucche si erano ammalate. Ricordava il fumo sporco che usciva dai camini degli enormi fabbricati industriali. Gli scarichi nei torrenti e la schiuma bianca. Quando era tornato ai campi aveva visto il grano crescere grigio, già appassito. Lui stesso non vedeva una lucciola, da quanto? Gli operai in città, invece, quelli continuavano a costruire muri.

L’odio non era quello di dio, aveva pensato infine. Piuttosto era degli uomini. La pancia della bestia. Un feto sbranato dal branco.

Girò a destra sulla provinciale. Non fece in tempo ad accorgersi che dietro un cartellone pubblicitario mezzo rotto c’era appostata la polizia. Corse con lo sguardo al tachimetro. Fortuna volle che era dentro i limiti. Ci mancava solo la multa per eccesso di velocità.

 

Quando coi suoi ragazzi era arrivato all’emporio avevano preso, in tutto: due briglie a passo lungo, tre sacchi di avena, concime e un paio di forbici, le altre le aveva rotte cercando di potare le foglie dure dei cactus. Piante grasse capaci di fare riserva. Avrebbero imparato come usarle: Per l’acqua, come aveva detto il sindaco durante la riunione della settimana prima: La cisterna è quasi vuota. Ognuno pensi a sé.

Alla cassa si era reso conto che i soldi non bastavano. Lascio questo.

Ok. La cassiera aveva tolto la merce dal rullo senza neppure guardarlo. Un mondo di ciechi.

Avevano caricato tutto dietro il pick-up ed erano partiti in direzione casa.

In macchina i bambini si erano messi a giocare. Lui aveva acceso la radio, sorriso ai suoi figli dentro lo specchietto retrovisore.

Un camion muggì di fronte a lui. Lo schivò in tempo.

Forte, dissero i bambini.

Cercò di concentrarsi sulla striscia bianca in mezzo alla strada. Una linea continua srotolata lungo giorni di cemento. Ai lati della carreggiata si disfacevano i cadaveri delle volpi. Gli sembrò di riconoscere il guscio di un riccio svuotato. La carcassa di un uccello mangiato dalle formiche.

Erano appena arrivati alla fattoria quando il cielo incominciò a chiudersi.

Mettete i cavalli nei box.

Sì papà.

Nubi d’ira gialla in arrivo.

Parcheggiato il pick-up si era messo a scaricare i sacchi veloce.

Le nuvole si accatastarono. Un lampo accecante squarciò il cielo. La tempesta calò sulla terra. E fu buio all’improvviso. Il muro d’acqua si abbatté compatto. E scesero dal cielo gocce fitte, a milioni.

Quando la donna esce di casa, la fattoria è una rovina bianca in mezzo al fango della valle.

 

La bambina non si è accorta di niente, sta giocando nell’aia con gli animali: il maiale, l’oca; d’improvviso sterpi a mezz’aria, polvere, si sollevano tirati su dalla mano del gigante; i conigli sono i primi a essere portati via poi tocca alle piante. La donna avanza a fatica, schizzi di fango sugli abiti bianchi.

Il vento è spilli negli occhi, ma la madre non pensa – c’è sua figlia lì fuori – per questo si piega: Ti prego, implora il cielo, un dio qualsiasi in ascolto, ma non ottiene risposta, mette solo un piede avanti all’altro.

Avverte la morsa del gelo sulla pelle. Quando infine raggiunge la sua bambina se la stringe al seno, sente il corpo della piccola, fradicio, le scosta i capelli attaccati al viso allora.

Vorrebbe, ma non riesce a sorriderle, neppure respira: è in apnea. Sua figlia dipende da un’immersione. La sua.

Una donna e una bambina sotto la furia della tempesta. Cavi elettrici penzolanti sui piloni dell’alta tensione. Tornano verso ciò che resta della fattoria.

 

La donna non fa in tempo a sprangare la porta che la prima folata spacca i cardini, piega il legno. La seconda raffica infrange le finestre, i telai esplodono, alla terza la bambina urla. È il Grande Padre che sta accartocciando la Terra. Il Creato a immagine e somiglianza ma l’umanità, ciò che gli uomini e le donne hanno compiuto in Suo nome, il Grande Padre non può permetterlo.

Giunta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra. L’eco delle Scritture che il nonno leggeva a voce alta la sera davanti al camino, con un mezzo bicchiere di rosso in mano.

Muore davanti a loro senza che possano fare niente: schegge di vetro che esplodono, la casa sbanda investita dai lampi, una nave in balìa delle onde.

Una corda di filo spinato si conficca dietro la schiena del vecchio, un uomo in mare affoga dentro la tempesta, schiuma appena sopra i flutti del tempo.

La donna e la bambina – nuora e nipote – lo guardano impietrite senza poter fare niente. Dire niente. Togliere niente. E pure non c’è accusa negli occhi del vecchio, né abbandono. C’è solo acqua stagna al fondo degli occhi, quando l’acqua entra nella camera stagna, e di un corpo che affoga resta un’incertezza appena. Fantasmi a pelo d’acqua, è la nebbia dei trascinati.

 

Allunga la mano per prendere una corda che lo assicuri.

Non lo ascolterà nessuno, assolverà nessuno.

Spira come si possa togliere un granello di sale da una tovaglia.

Tutto dalla terra viene, del resto, e tutto alla terra ritorna.

La donna e la bambina lo guardano impotenti: del nonno riverso sul pavimento resta un corpo inerte appena, un muro sbreccato, un cumulo d’ossa ridotto a stracci.

I gesti della sua vita si potrebbero misurare in semine e raccolti, il volto ora traversato dalle rughe, ogni piega il solco di un uomo esposto alle alterne stagioni.

Respira, la esorta la mamma per distrarla.

Dov’è Jan?, chiede la bambina.

Hanno avuto lo stesso pensiero nel medesimo istante.

Qualcuno muore. Eppure il pensiero va alla vita: non a chi se ne sta andando, ma a chi rimane.

S’impone di non piangere mentre la bambina ascolta il cuore impazzito dentro al suo petto.

E Jacek?, ancora.

Il martello della richiesta.

Sono i suoi fratelli.

Col papà nella rimessa, risponde la donna, anche se non ci crede.

Moriranno anche loro?

 

No: la donna si affretta a scuotere la testa, se ne vuole convincere, fissa il volto senza vita del vecchio, imprime l’immagine per cacciare indietro le lacrime, il mare salato dentro e gli sterpi sull’intavolato, il nonno ridotto a un corpo senza vita, i capelli spettinati, lisci e biondi, fili di paglia d’uno spaventapasseri.

La donna ingoia il buco allo stomaco e lo spinge al fondo, dentro il pozzo delle lacrime: Tieni chiusi gli occhi, sussurra ancora alla bambina, quindi inizia a cantarle una vecchia canzone mentre fuori il vento ulula, freddo, sembra un branco di lupi affamati, il crudo pasto delle anime.

Adesso la madre la culla avanti e indietro, è una nenia da poco sotto il crepito delle saette. La canzone parla di volpi e orsi, e campi di grano. Di nuvole che si rincorrono nel cielo. La pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno.

Le parole che pronuncia sono verbo antico; le accarezza la testa, infine, le appoggia una mano sulla fronte ed è allora che la bambina sente il calore del palmo, il tepore del lievito e il pane appena sfornato, un bosco di farnie e faggi sotto i quali d’estate si smarriva di proposito, inseguita dal padre; e lei che rideva, felice, senza pensieri.

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